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Eroi del silenzio
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Eroi del silenzio

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About this ebook

Ferdinando nasce in una famiglia circense, ma fin da piccolo avverte un'insofferenza verso quel mondo girovago, più interessato al contatto con gli animali che al “circo dell'umanità”... con un’eccezione. Segreti ed inganni coperti da anni di silenzio fanno da filo conduttore dei ricordi che affiorano dalle sedute di rebirthing, terapia scelta per dare un senso a tutti gli eventi che un segreto di famiglia ha trascinato con sé.

Andrea de la Guarra ci guida tra fasti e miserie di una torbida famiglia, dove vittima e carnefice, amore e trasgressione, vita e morte sono spesso le facce di una stessa medaglia. Solo tu, lettore, appassionandoti alla storia di questi “Eroi” riuscirai, svelando la verità, a dare voce al silenzio.

Ballerino, attore, modello, stripper. Viaggiatore del mondo e dell'umanità, Andrea de la Guarra vive con i suoi quattro gatti tra Venezia, sua città natale, e Gran Canaria.
LanguageItaliano
Release dateMay 20, 2015
ISBN9788898754298
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    Eroi del silenzio - Andrea de la Guarra

    Eroi del Silenzio

    Andrea de la Guarra

    I edizione digitale: maggio 2015

    © tutti i diritti riservati

    Nativi Digitali Edizioni snc

    Via Broccaindosso n.16, Bologna

    ISBN: 978-88-98754-29-8

    Collana: RIL Rizoma In Letteratura

    www.natividigitaliedizioni.it

    info@natividigitaliedizioni.it

    Questo libro è un opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

    1

    La respirazione a bocca spalancata, costante e veloce, che attraversa idealmente il fisico da capo a piedi, accelera le percezioni dell’io.

    La mia guida al corso di rebirthing, Laura, mi scruta, mi studia e mi assiste; con voce profonda, posata e sicura, mi incita a aumentarne il ritmo, e a farlo diventare riempitivo fino a che l’iperossigenazione condotta nel mio corpo inizia a concretizzare immagini e sensazioni.

    Il mio sguardo è immerso in un mondo interiore, dove il limite del presente e del corpo umano si annienta per spaziare in quello del tempo e dei sentimenti.

    Rivedo lo spazio percorso nell’arco di questo mezzo secolo, i molti luoghi dove ho vissuto.

    Un eco di sguardi e applausi che si inseguono, privi d’identità. Il calore freddo che mi ha avvolto e che mi avvolge ora, con le sue spirali, come un’aura glaciale. È la colonna sonora che mi ha visto crescere, tra le carovane, e che è stata l’amara melodia in tre quarti di questa insana esistenza.

    La mia famiglia è una comunità di quattrocento elementi instabili, dagli idiomi diversi; volti e lingue che si confondono gli uni con le altre, come cerchi nell’acqua che si intersecano e si dileguano, con la consapevolezza che prima o poi si dissolveranno, e come granelli di sabbia si disperderanno al soffiare del primo vento carico di migliori promesse e occasioni.

    Una fattoria popolata da leoni, tigri, elefanti e cavalli: il mio cortile. Odori acri e forti di animali in cattività.

    I bambini di città mi invidiano per questo, mentre io ammiro l’albero, l’albero del parco, perché in qualche modo ha un suo posto dove stare, circoscritto e definito.

    È lì.

    Anno dopo anno, sempre lì per chi lo vuole vedere, toccare, odorare; semplicemente lì.Un punto fermo e forte nel caos del mondo.

    Mia madre, gitana per passione, anticonformista per volere divino, nacque in Germania da una famiglia della media borghesia subito dopo la Prima guerra mondiale.

    Un numero di contorsionismo acrobatico fu il suo lasciapassare per l’esistenza, il mezzo che la portò prima a esibirsi in qualche evento locale, e nel corso del tempo a innamorarsi dell’uomo che fu mio padre, Armando, di sei anni più grande di lei.

    Divenne moglie e madre devota di una dinastia di circensi consolidata già da tempo.

    Mio padre si esibiva da sempre nel circo di famiglia, frutto del bisogno e della passione di un nonno che prima della guerra girava i paesini dell’Italia con un orso ballerino e numeri di acrobazia.

    Con il tempo si sarebbe trasformato nel grande circo che è ora.

    Si conobbero tra gli eventi di un’Europa che aveva perso la sua umanità. Le comete che illuminavano le loro prime notti d’amore erano le scie luminose di bombe, seguite da urla di terrore, morte e distruzione.

    Il loro non appartenere a nessun luogo, comunque, li preservò dalle tristi vicende che colpirono in quei tempi quasi ogni famiglia, e permise loro di formarne una propria.

    Io vidi i natali come terzo figlio nel 1953, in territorio tedesco, quando l’inverno lascia spazio al tepore della primavera, e come auspicio e marchio di famiglia mi misero il nome del nonno paterno, quello dell’orso ballerino.

    Ferdinando.

    Consciamente o inconsciamente i miei genitori avevano già deciso il percorso di quella che sarebbe stata la mia esistenza.

    Capii crescendo che quel nome per me simboleggiava il mio privilegio e la mia galera, l’onore e la condanna; una cambiale che pendeva come una spada di Damocle sul mio capo.

    Era il prezzo da pagare per una vita che non avevo chiesto e voluto.

    La giornata iniziava presto, con un abbraccio e una cioccolata calda alle cinque e mezzo del mattino. Mi svegliava mia madre, mentre dormivo nel fondo della carovana, dove si trovava il mio letto, che per i primi anni condividevo con mio fratello Sergio, nato tre anni prima di me.

    Karl, l'altro fratello, di anni più di me ne aveva tredici, e occupava già uno spazio ben definito all’interno della nostra casa viaggiante.

    Fuori dal finestrino a quell’ora c’era già il fermento delle persone che portavano il cibo agli animali e che ne curavano i giacigli.

    Una comunità che mai si fermava: nella mia testa di bambino mi domandavo a che ora si svegliassero gli adulti, e se mai andassero a dormire.

    Ora, qui, in questo ambiente silenzioso, sicuro e raccolto, come lo era quella mia casa ambulante di allora, con l’assistente che mi tiene la mano, mi sento trasportato in quello spazio temporale, e la sua voce calda mi guida, sussurrandomi di raccontarle quel bimbo di tre anni che scruta con sguardo severo il mondo degli adulti scivolargli accanto.

    Mi concentro sulle mani di mia madre, lunghe, affusolate, forti. Mi porge la tazza nella quale immergo il viso fino a farlo scomparire. Il profumo della cioccolata m’invade le narici e inebria i miei sensi. Sento il calore del liquido che scalda quel corpicino esile che un tempo mi apparteneva.

    Nessun anello al dito e io che le chiedo perché le altre mamme, quelle di città che la sera invadono gli spalti con i loro bimbi, li portano.

    Con un sorriso lei mi risponde dolcemente: Perché le altre mamme non si esibiscono in numeri di acrobazia!

    E cosa fanno le altre mamme allora? domando.

    Altre cose, amore… cose diverse. Loro possono permettersi di portare gli anelli, io no, sai, potrebbe essere pericoloso… ma ora ti rivelerò un segreto: io di anelli ne ho quattro, sono qui, chiusi nel cuore… uno per ognuno di voi, che siete le perle della mia vita, e uno per il tuo papà… ma solo io li posso vedere perché sono troppo preziosi e non voglio che qualcuno me li possa portare via!

    I miei primi passi li feci tra campi impolverati e in bilico su di una fune tesa.

    Non significava essere speciale, ma semplicemente essere come gli altri bambini del circo, in quanto non conoscevo ancora un mondo diverso a cui potermi raffrontare.

    Ero cresciuto tra carovane, saltimbanchi, scimmie e leoni, e treni, e campi polverosi, indiani, pakistani, tedeschi, italiani, africani e spagnoli, slavi, inglesi; tra costumi, artisti, colori sfavillanti e luci artificiali.

    Il mio mondo era quello, era la realtà che ovunque andassi c’era.

    Un paesello di quattrocento anime dove tutti si conoscevano e dove ognuno aveva un suo ruolo definito, e allo stesso tempo erano braccia, mani e corpi pronti a far fronte a eventuali difficoltà.

    I momenti che ricordo con maggiore piacevole sensazione di benessere, però, erano quelli che passavo ad accudire e giocare con gli animali.

    Nella mia fattoria trovavano alloggio otto elefantesse, tutte femmine, che andavano dai due anni ai quattordici.

    I maschi di elefante non potevamo gestirli, perché durante la stagione degli amori erano incontenibili e la furia di uno di loro avrebbe messo a rischio l’incolumità di chiunque si fosse trovato sul loro cammino.

    Con loro il mio rapporto era fatto di sguardi e telepatia.

    Animali molto intelligenti, gregari e socievoli; una volta che hanno capito le tue intenzioni si lasciano guidare tranquillamente. Necessitano di cure costanti per il giaciglio e di quantitativi di erba, frutta e fieno incredibili.

    Per non parlare dell’acqua che serve a dissetarli e a lavarli. Hanno sempre bisogno di ampi spazi dove potersi rotolare, in maniera che la terra essiccata sulla pelle tolga loro i parassiti.

    Sono bellissime, le mie nuvole grigie: così le chiamavo io perché solo il loro apparire mi offuscava il sole. Durante lo spettacolo le loro enormi teste sono addobbate con copricapo rosso e oro e cinghie di cuoio oro ricolme di decorazioni tessili.

    Una corsia rossa che passa sul dorso e una sella fatta apposta per rendere più piatta l’accesa curvatura, permettendo così maggior stabilità agli artisti che si esibiscono su di loro.

    Il mio debutto in scena lo feci proprio con una delle mie elefantesse, cavalcioni sul collo, vestito da piccolo marajà.

    Avevo appunto più o meno tre anni.

    La scuderia di cavalli, poi, era altrettanto fantastica: ci sono stati periodi in cui ne contavamo diciotto, tutti rigorosamente bianchi, eccetto uno stallone nero, maestoso.

    Anche la cura di queste creature richiede svariate ore di lavoro, e molto personale: ogni giorno necessitano di essere portati fuori, di correre nel recinto e nell’arena.

    Ad occuparsene erano per la maggior parte indiani, del Bangladesh, ma c’era anche un ragazzo austriaco, veramente appassionato di queste magnifiche creature, che dirigeva la squadra dei lavoranti.

    Avevano dei pennacchi viola di piume sul capo e bardature provenienti dall’artigianato berbero.

    Quando avevo circa sei anni, il pomeriggio mi piaceva cavalcare intorno al circo, provando quella confidenza tra me e loro nell’inventare andature con riti particolari che solo io riuscivo a cadenzare.

    E poi c’erano le vere attrazioni del nostro circo: le tigri, quelle gialle tradizionali e quelle bianche, e i leoni.

    Avevamo anche due pantere nere che però non si esibivano.

    Erano inserite nel contesto dello zoo del circo, come il cammello, l’ippopotamo, alcune scimmie, uno scimpanzé e il vecchio orso del nonno, che era ancora l’emblema e lo stendardo della nostra famiglia.

    Un numero non ben precisato di cani e gatti dimoravano poi nei carrozzoni dei rispettivi proprietari.

    Ma i grandi felini erano da sempre il mio polo d’attrazione.

    Sono sempre stato affascinato dai loro suoni gutturali, profondi e potenti, dalle loro zampe così poderose che possono essere armi micidiali o strumenti capaci di vellutate e morbide carezze.

    Gli occhi chiari o gialli che ti penetrano dentro l’anima.

    Ti scrutano e studiano attentamente. Sembrano inespressivi ma sono pronti a percepire ogni piccolo segnale di pericolo e come delle sfingi non tradiscono alcuna emozione.

    I disegni del manto che sembrano a un profano tutti uguali, in realtà godono di differenti striature che le differenziano e le distinguono.

    Amavo in maniera incondizionata quelle fiere e sapevo che loro amavano me. Me lo dimostravano in continuazione, quando arrivavo nei pressi delle gabbie e loro si calmavano.

    Le immaginavo studiarmi con superbia benevolenza, mentre emettevano dei suoni che io interpretavo di felicità. Non ne avevo paura, sebbene non mi fosse permesso avvicinarmi oltre la soglia consentita dalla sbarra di protezione.

    Alcune di loro erano nate da noi, altre in cattività ma in luoghi differenti.

    Nei circhi non si possono avere fiere che provengono dallo stato brado, ma solo quelle nate in cattività. Ormai sono felini che da almeno quattro generazioni conoscono e condividono gli spazi con l’uomo, sono come dei gattoni che non hanno consapevolezza della loro forza e dimensione.

    Tra tutti amavo la piccola Terry, che nacque presso di noi quando avevo dieci anni. Assistetti al parto della madre: lei uscì dal suo ventre come un miracolo.

    Fu la prima di quattro cuccioli, e la prima tigrotta bianca che presi in braccio.

    Fu la mia compagna di giochi, finché mi fu concesso farlo, fino a quando i miei iniziarono a temere che il suo sviluppo, esponenziale rispetto al mio, mi potesse causare del pericolo.

    Ma anche quando fummo divisi dalle sbarre, rimanemmo sempre legati come due cuccioli dello stesso branco.

    Mio padre con i felini aveva costruito un numero di figurazioni e salti spettacolari, singoli e incrociati, con cerchi di fuoco e pozze d’acqua.

    Lui era il loro capobranco, temuto e rispettato ma anche molto amato.

    Entrava nella gabbia, conscio del pericolo, ma anche sicuro di godere di un affetto smisurato

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