Diario di un'insurrezione
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Book preview
Diario di un'insurrezione - Sergio Baratto
***
Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è, per il popolo e per ciascuna porzione del popolo, il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri.
Costituzione francese del 1793
Abbiamo tutti una quantità di sbagli e di errori dietro di noi, perché il passo di ogni pensiero creatore non potrebbe essere altro che vacillante e incerto... Con questa riserva, che rende necessari gli esami di coscienza, abbiamo avuto ragione in modo sorprendente. Abbiamo spesso visto chiaro, là dove gli uomini di Stato sguazzavano nella stupidità ridicola e catastrofica.
Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario
Accumulare con pazienza odio e amore. Coltivare il fiero albero dell’odio contro l’oppressore, con l’amore che combatte e libera. Coltivare il potente albero dell’amore che è vento che pulisce e risana, non l’amore piccolo ed egoista, ma quello grande, che rende migliori e più grandi. Coltivare in noi l’albero dell’odio e dell’amore, l’albero del dovere. E in questa coltivazione mettere la vita intera, corpo e anima, coraggio e speranza. Crescere dunque, crescere insieme passo dopo passo, gradino dopo gradino. E in questo saliscendi di rosse stelle non aver paura, non aver paura di nulla se non di arrenderti, di sederti su una seggiola a riposare mentre altri proseguono, di prender fiato mentre altri lottano, di dormire mentre altri vegliano.
Subcomandante Marcos, Lettera a un bambino indigeno
***
A mia figlia Bianca
Indice
Cover
Quarta
Copyright
***
***
NOI
***
La città della passione
Luglio
Agosto
Settembre (nero)
Il giudeo per scherzo e il dovere di ridere d’ogni cosa
Non le vittime massacrano non i carnefici
Prove tecniche di morte e resurrezione
La pace da sola
Morte presunta per omicidio/suicidio
Inventario delle cose dimenticate
Perturbante, sacrilego, sorgivo
Altrove
Cosa significa per me «altrove»
Parole
INTERMEZZO
Fantasia pietroburghese
IO
Da cosa ricominciare?
Opere
Note
NOI
***
Questo è il racconto di come ho attraversato gli anni Zero, il mio personale programma di marcia, il modo in cui vorrei che il mio corpo e il mio spirito stessero nel mio tempo.
La città della passione
Era il gennaio del 2001. Una petroliera affondata rischiava di devastare le isole Galapagos — le Encantadas di Melville, che «rifiutano asilo persino ai più derelitti degli animali» e il cui spirito sembra gridare «Pietà di me, e mandatemi Lazzaro, che possa immergere la punta del dito in acqua e rinfrescarmi la lingua, perché in questa fiamma sono tormentato», ma anche la terra d’incanto che avevo imparato ad amare da bambino attraverso le fotografie a colori fasulli sull’enciclopedia della natura.
Poi i preparativi per trasferirmi a Milano, i tanti microtraslochi di libri, cd e ciarpame inutile da salvare. A metà aprile ho salutato la vecchia casa. Ho smesso di prendere il treno tutti i giorni, perciò le note quotidiane che buttavo giù durante il viaggio sui miei quaderni si sono diradate.
Già un anno prima, leggendo degli scontri di Seattle, qualcosa mi era come smottato dentro. Ora, mentre sui giornali si facevano previsioni sull’entità della catastrofe ecologica delle Galapagos, avvertivo con una sensazione di dolore fisico l’urgenza di capire quanto stava succedendo per davvero, nel mondo di qua. Le mie letture di allora: saggi sull’Organizzazione Mondiale del Commercio, sull’EZLN, sulle nuove forme di lotta contro il potere del capitale globale. Scaricavo dalla rete mucchi di documenti sul primo Forum Sociale di Porto Alegre, articoli agghiaccianti sulle strategie crudeli delle multinazionali: privatizzazione delle reti idriche, speculazioni finanziarie su scala planetaria, distruzione dei diritti dei lavoratori, MAI [ 1 ], ALCA/FTAA [ 2 ], GATS [ 3 ], TRIPS [ 4 ], sigle esoteriche che oggi probabilmente non dicono più nulla ma che allora cominciavano a circolare di bocca in bocca, a rimbalzare di sito in sito in una specie di ronzio cospirativo che solleticava il mio antico romanticismo carbonaro. Ma non era solo la fantasticheria di uno studente cresciuto giocando al gioco dell’estremista e leggendo favole di barricate ottocentesche e novecentesche, di uno che prima ancora era stato un ragazzo dell’oratorio inconsapevolmente imbevuto di Teologia della Liberazione. Udivo davvero montare tutt’intorno un brusio di rabbia e indignazione come non l’avevo mai sentito prima, e mi girava la testa per lo stupore e la felicità, perché era esattamente lo stesso che da molto tempo mi portavo chiuso nel petto. Allora mi sbagliavo, non ero solo! mi dicevo. Per la prima volta avevo l’impressione di immergermi nel flusso della realtà in sincrono, con tutto il corpo.
E stata una personale, fulminante rivoluzione copernicana.
Il flusso improvviso è diventato una piena, si è portato via le frattaglie dei Novanta. Il clintonismo e il centrosinistra, la trionfale avanzata neoliberista. Il bon ton linguistico. Centro di permanenza temporanea, non campo di concentramento. Intervento umanitario, non guerra e bombardamento. Tempesta nel deserto. Missione Arcobaleno.
Prima, mi ricordo, facevo lunghe passeggiate per i boschi del Ticino con mia zia Rosalinda. Mi parlava con foga delle politiche liberiste fatte proprie dagli «ex compagni». Precarizzazione del mondo del lavoro, postfordismo, delocalizzazione, dismissione... Diceva «mi viene lo schifo» e si augurava una devastante, salvifica deflagrazione della sinistra. Ma io allora pensavo a tutt’altro. Non capivo nemmeno il significato di quelle espressioni. Mi diceva: sono arrivati gli svedesi, hanno comprato il marchio della Loro & Parisini, il suo bagaglio tecnologico. Adesso chiudono tutto e trasferiscono la produzione in Brasile. Ci mettono tutti in mobilità. E io dicevo «Sì, sì, che schifo», ma non capivo, non sapevo davvero cosa significasse. Non mi rendevo conto di cosa volesse dire «sono finita nel girone infernale delle agenzie interinali», «mi hanno trovato un posto in una fabbrichetta dove i due soci passano il tempo a guardare porno sul computer»...
Della politica avevo smesso di interessarmi. Mi disgustava. Per me, in quel crepuscolo degli anni Novanta, la sinistra era tutta riassunta nel dissidio sul candidato senatore nel collegio elettorale del Mugello [ 5 ]. E i centri sociali erano organismi alieni, per iniziati, esclusivi. Avevo l’impressione che vi si potesse accedere solo tramite parola d’ordine o raccomandazione, come nel maniero di Eyes Wide Shut o nei club più alla moda. Ma non conoscevo nessuno che potesse farmi da Caronte, ero timido fino all’inverosimile, non ero praticamente capace di usare il computer e ignoravo perfino l’esistenza di Hakim Bey, non ho mai sopportato il reggae, la techno, lo ska, l’hip hop e l’hardcore, non mi facevo le canne e soprattutto la mistica della cannabis non mi riempiva di fervore: quante possibilità avevo di entrare e, una volta entrato, di trovare il mio posto? Del resto non avevo mai frequentato alcun gruppo organizzato...
Ai tempi del liceo avevo giocato a fare il comunista e il beatnik (contemporaneamente). Nei primi anni di università mi ero spinto a comprare un numero di FalceMartello, il giornale dei trockisti, ma la