La trilogia della Sicilia: Il Principe di Palagonìa, Mata Hari a Palermo, L'isola dei Beati
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Book preview
La trilogia della Sicilia - Enzo Vetrano & Stefano Randisi
LA TRILOGIA
DELLA SICILIA
© 2014 Cue Press
via Aspromonte 16a, 40026 Imola, Italia, cuepress.com
ISBN 978-88-98442-05-8
Prefazione e cura
Mattia Visani
Copertina
Piero Casadei
Olga Durano, Stefano Randisi, Gabriella Fabbri, L'isola dei Beati
Foto
Piero Casadei
dall’Archivio Storico di Nuova Scena Arena
Indice
Prefazione
di Mattia Visani
Il Principe di Palagonìa
Mata Hari a Palermo
L'isola dei Beati
Come Principe e Servo
Immagini
Note
Storie siciliane
di Mattia Visani
Chi scrive pensò e progettò l’edizione di questa Trilogia per la casa editrice di Franco Quadri, in una ideale linea di continuità con il volume pubblicato a proposito dei suoi autori (Ubulibri, 2011). Circostanze che è inutile sottolineare ci spingono, oggi, a questa nostra pubblicazione.
Realizzata tra 1985 e il 1988, la Trilogia della Sicilia (nome che a posteriori identifica tre progetti artistici, legati da un forte senso di continuità nelle scelte tematiche e nelle circostanze produttive) è il risultato di una scrittura dal carattere peculiare, un unicum in senso letterario. La sua cifra fondamentale è quella della contaminazione e della mescolanza. In essa confluiscono elementi storici, linguaggi letterari e specialistici, spunti di cronaca, materiali biografici e autobiografici, racconti e leggende popolari (cunti), all’interno di una cornice unitaria, per quanto labile, che prende i contorni del racconto storico (Il Principe di Palagonìa), della spy story (Mata Hari a Palermo) e del racconto fantascientifico (L’isola dei Beati).
All’epoca di queste composizioni Vetrano e Randisi si erano appena lasciati alle spalle l’esperienza del Daggide, frutto tardivo e febbrile delle sperimentazioni teatrali degli anni Settanta. Alla base della riflessione, e della pratica, del gruppo era la ricerca di una nuova via per il teatro, che ponesse al centro la pratica dell’improvvisazione «totale», il «gioco» dell’improvvisazione. La ricerca di questa ‘fragranza’ del teatro spinse Beppe Randazzo, leader del gruppo, a dedicare tutta la propria vita e le proprie energie a questa utopia, a nutrire questa ossessione.
A questa cifra si coniuga adesso un elemento di forte matrice intellettuale, e l’improvvisazione diventa ‘gioco da tavolo’, si fa scrittura. Una scrittura intrisa nell’immaginario e negli umori della terra che Vetrano e Randisi hanno lasciato quasi da dieci anni. Un luogo della memoria: repertorio di immagini, motivi, temi e suggestioni di cui è arbitrario il limite della manomissione. Una scrittura che ha come termine ultimo la scena, la sua realizzazione scenica, e le sue necessità teatrali.
Non va dimenticato il lavoro della cooperativa bolognese Nuova Scena, che produsse gli spettacoli e sostenne il lavoro creativo. Riflesso di un meccanismo sano di produzione teatrale, almeno in termini ideologici, che delinea un gesto autentico: scrittura-produzione-rappresentazione (pubblico). Vale la pena notare che ‘a pochi metri’ lavorava Leo de Berardinis, fino al 1987, socio anch’egli dalla Cooperativa.
Gli episodi di questa Trilogia sono il frutto esilarante e folle di un’epoca (che pare oggi) di grande benessere, frutto di arte e gioventù, che altri anni di malcostume e balordaggine, alla fine, ci toglieranno.
Perché, dunque, riproporre queste opere a distanza di quasi trent’anni? Stanchi e annoiati, come i personaggi di uno questi episodi, cerchiamo nel passato qualcosa che ecciti la nostra fantasia. Alla ricerca di qualcosa di autentico. Perché da qualche parte, prima o poi, si ricominci a fare teatro.
1. Il Principe di Palagonìa debutterà al Teatro Testoni di Bologna il 12 novembre 1985, primo episodio della Trilogia. La cornice della rappresentazione è la villa di Ferdinando Francesco II Alliata, Principe di Palagonìa. Soprannominata ‘la villa dei mostri’, fu costruita durante la prima metà del Settecento in uno stile tardo barocco, carico di ironie ed esoterismi. La villa si trova al centro di Bagherìa, località situata a pochi chilometri da Palermo. L’edificio è circondato da un mostruoso esercito di statue dalle fattezze deformi, umane e animali insieme. Quest’opera fu scolpita nel tufo, materiale scelto per la sua friabilità, che il tempo ha trasformato e corroso accentuandone la deformità. Da ciò deriva l’appellativo che la contraddistingue.
«In pieno secolo dei lumi, la villa si ergeva come un inno all’immaginario umano, al nonsense più sfrenato. Centauri, arpie, sfingi, eroi, mostri stranissimi si affollavano a creare un universo che è pura espressione dell’inconscio» (1). L’interno dell’edificio fu progettato per sospendere e distruggere ogni logica spaziale e, con essa, il codice galante della socialità. Per questo, lo spazio si sviluppa in ordine di una progressiva perdita di punti di riferimento.
Un lavoro irrispettoso della verosimiglianza e della coerenza. «La ‘villa dei mostri’ fu meta di tanti illustri viaggiatori da tutte le parti d’Europa [...] compreso Goethe, il quale espresse in alcune pagine del suo Viaggio in Italia il suo spregio sia per un’opera architettonicamente pazza, sia per il suo ideatore e proprietario, il Principe di Palagonìa, definito come un matto visionario e un ‘mentecatto’» (2).
Lo spettacolo nasce dall’incontro di personaggi appartenuti a epoche diverse della storia siciliana, all’interno di una cornice unitaria della Villa. Il risultato è un’azione impossibile. Tutto è parossistico e portato all’eccesso. L’azione drammatica si sviluppa in un continuo accumulo di paradossi. Un filo sottile tiene insieme gli eventi e costruisce l’intreccio della narrazione. «Ma non è tutto così derisorio ed eccessivo [...]. Per fortuna c’è un servo muto (lo straordinario Stefano Randisi) che, con la sua mimica irresistibile, insinua nella finzione una salutare corrente di realismo. Nasce così un doppio registro espressivo, l’onirico e il farsesco, su cui si srotola l’intero spettacolo» (3).
È evidente la forza con cui Vetrano e Randisi agiscono sui moduli del grottesco e del comico.
Il testo nasce dopo mesi di studio e sulla base di una ricca documentazione storica: «Abbiamo cominciato a raccontarci delle idee, delle situazioni, a improvvisare su tutti i personaggi» e insieme «ad adattare sugli attori la nostra scrittura» (4). Una scrittura che si produce in una costante dialettica (logica inferior) con le circostanze materiali della sua enunciazione.
«Come il principe aveva mescolato sembianze umane e fattezze animali per creare i suoi ‘mostri’, [lo spettacolo] mescola personaggi e tempi diversi in una messinscena che non ha soluzione di continuità. E mescola anche una serie di citazioni e riferimenti letterari, teatrali, iconografici, cinematografici, musicali, [...] che sembrano perdere la propria autonomia per diventare un unicum. È insomma uno spettacolo ‘mostro’ nel senso che pare essere creato con lo stesso procedimento con cui il principe dava suggerimenti agli artisti che lavoravano con lui. La vicenda non ha mai troppa importanza, perché è sempre sghemba come le sedie della villa» (5).
Senza soffermarci troppo su questa citazione, è importante sottolineare come si cominci a intravedere la cifra metateatrale di questa scrittura.
Ferdinando II, Principe di Palagonìa è interpretato da Enzo Vetrano; il Servo è Stefano Randisi; Maria Gioachina, Principessa di Palagonìa, la moglie del Principe, è Elsa Rollwagen. Ci sono inoltre i personaggi di Donna Violante (Lorella Versari), il Conte Rinaldo (Mauro Marchese, poi Luca Carpigiani) e l’Artista (Giorgio Brescianini, poi Alessio Caruso).
«Abbiamo cominciato a recuperare alcuni racconti che avevamo sentito nella nostra infanzia. Siamo partiti dal Settecento e da una storia legata a Villa Palagonìa, un edificio nobiliare che si trova a Bagherìa, vicino a Palermo. Si può ancora visitare. La villa fu progettata in maniera molto strana dalla figura eccentrica del Principe Ferdinando II di Palagonìa, che la fece circondare da un incredibile esercito di mostri. Volle scolpire queste sagome nel tufo, un materiale friabile, in modo che il tempo le potesse rendere ancora più deformi e terrificanti. Costruì all’interno della villa un salone enorme, per le danze e i ricevimenti, e vi fece sistemare dei divani a forma di ferro di cavallo. I sedili, infatti, erano rivolti verso l’esterno e chiunque si fosse seduto non avrebbe potuto rivolgersi al proprio interlocutore. Realizzò inoltre un sistema di intercapedini per ascoltare quello che si diceva in tutte le stanze del suo palazzo. Sembra che si divertisse a creare imbarazzo. È una villa grottesca. Ne parla persino Goethe nel suo Viaggio in Italia, dove racconta di un Principe, Ferdinando appunto, che chiedeva la carità insieme al suo servo, il quale questuava porgendo ai passanti, come piatto per le elemosine, un vassoio d’argento. Abbiamo pensato a questo Principe e al suo servo muto, interpretato da Stefano. Gli abbiamo attribuito una moglie tedesca, che parlava sempre di Goethe, perché era orgogliosa del fatto che fosse passato da quelle parti.
All’interno della villa abbiamo inserito anche altri personaggi. C’è, ad esempio, un personaggio palermitano dei primi del Novecento, il Principe di Resuttana, che nello spettacolo è diventato il Conte Rinaldo. In punto di morte, questo Principe aveva fatto voto che, se fosse sopravissuto, avrebbe intrapreso una nuova crociata verso Gerusalemme. Fu esaudito. Non potendo, però, intraprendere questo viaggio ai primi del Novecento, camminò all’interno della sua villa, per sette anni, insieme al servo, facendo tutto il percorso ‘per arrivare a Gerusalemme’ diceva. Dopo sette anni, giunto alla meta, decise di tornare indietro