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Anomalie: La dittatura della scienza, la fine dell'umanità
Anomalie: La dittatura della scienza, la fine dell'umanità
Anomalie: La dittatura della scienza, la fine dell'umanità
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Anomalie: La dittatura della scienza, la fine dell'umanità

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About this ebook

Un immenso Centro di Ricerca, come ve ne sono centinaia sulla Terra. Fuori, un mondo abulico, soggiogato da un regime tecnocratico spinto sino alla tirannide. Bandito ogni valore umano, l’estrema razionalità scientifica è assurta ad unico criterio di governo del mondo. E la Terra è pervasa da inspiegabili aberrazioni della natura, da inquietanti anomalie. Ma sarà proprio uno scienziato a comprendere la mostruosità del “progetto” che guida le sorti del pianeta e a rifiutare l’intero sistema. Egli abbandona il Centro e raggiunge l’antica casa paterna, immersa in un luminoso paesaggio mediterraneo, solare e rassicurante. Ha inizio così la sua nuova vita, lontano dalle follie della scienza, fra i boschi, i campi, i vigneti assolati. In quella serenità egli incontra per la prima volta l’amore, per una giovane dagli occhi pieni di sole e di vento, dall’animo semplice e profondo. Ma l’illusione della fuga sarà assai breve. Le anomalie, gli eventi inspiegabili e perversi lo raggiungeranno anche in quell’ultimo rifugio di tranquilla esistenza. Non gli resterà allora che affrontare ancora il potere della scienza e tentare un’estrema, improbabile lotta per salvare tutto ciò in cui crede e che ama.
Fantasia su un presente possibile o ipotesi larvata di un presente reale? Dove termina l’invenzione e dove inizia la sottile metafora? Costellato di descrizioni dall’ampio respiro rasserenante, sempre teso nella continua sequenza di accadimenti improvvisi e allucinanti, condotto su diversi piani di lettura, il racconto è un tessuto ricco di temi e di riflessioni, di pagine inquietanti ed enigmatiche, di episodi di vibrante umanità. Lo stesso finale, verso il quale il lettore è trasportato sin dalle prime righe con una tensione costante, lascia il dubbio che la narrazione (o la cronaca?) non abbia una fine, e che il romanzo sia solo un frammento del succedersi senza tempo di infiniti eventi.
LanguageItaliano
PublisherHomeless Book
Release dateFeb 23, 2015
ISBN9788898969395
Anomalie: La dittatura della scienza, la fine dell'umanità

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    Anomalie - Valerio Romani

    (ebook)

    1.

    Maggio 2015.

    Un lungo tavolo polveroso e ingombro. Libri, pagine scritte e cancellate, fogli coperti di appunti, di grafici e di formule, in un apparente disordine, a fianco della lunga vetrata che da molto in alto scrutava i tetti della città.

    Sedeva e attendeva. Il cielo nuvoloso, grigio e basso, gravava sui comignoli e sulle cime dei campanili e pareva stringere da ogni lato l’immensa torre di vetro.

    Pioveva ininterrottamente, in modo tetro e ossessivo, e si stava facendo sera, quando un lungo istante di acuta stanchezza lo colse. Gli si abbandonò, come ad un abbraccio affettuoso e lasciò che gli occhi gli si chiudessero.

    Fu, allora, come perdere contatto con la realtà, come lievitare libero dal corpo, da ogni peso e da ogni pensiero. Ebbe l’impressione di essere immerso in un flusso di incomprensibile natura, eppure vivente e reale. Il flusso tendeva ad estendersi assai lentamente per una indeterminata dimensione, apparentemente ineluttabile, vasto e maestoso, come placato da un’opulenza lungamente desiderata e raggiunta, sazio della propria pienezza, dilagante e inarrestato invasore. Si sarebbe potuto dire che scorreva o si diffondeva all’intorno, ma in realtà esso offriva la sottile percezione di un fluente e progressivo sgorgare, di un impadronirsi liquido e sorgivo di ogni spazio disponibile, simile alle nebbie nel fondo delle valli alpine, quando, all’impallidire della notte, l’atmosfera intirizzita esige dalla terra un crescente tributo di brume.

    Il flusso si andava propagando, uniforme, e il solo segno di una discontinuità nel suo espandersi sarebbe stato, sempre che egli ne avesse potuto avere conoscenza, una vibrazione acquea, un tremito soffocato dell’alveo senza sponde e senza orizzonti che ne accoglieva la totalità.

    Quella sensazione così viva lo sosteneva e lo permeava. Egli se ne sentiva parte, dolcemente, con abbandono, e amò talmente quel fluttuare, quel dilagare senza dimensione, quell’esistere senza riferimenti, inconcreto, impalpabile alla mente, ma così fermamente reale e corporeo, da gioirne intensamente nell’animo.

    Ogni tempo, per quel lungo istante, sembrava essersi arrestato.

    Si riscosse e aprì gli occhi. Era quasi notte ormai e il lento imbrunire di quella piovosa primavera indugiava ancora in incerte luminescenze lontane, grigie e tristi, oltre i tetti e le guglie che serravano il primo orizzonte. Sentì che la stanza attorno a lui era disadorna e ostile. Faceva freddo. La piccola lampada da studio, semicoperta dai fogli, proiettava relitti di fantasmi sulle pareti piatte e gelide. Refoli di ricordi gli attraversavano la mente.

    Fuori, già quasi nel buio, i campanili più alti lasciavano che l’oscurità nebbiosa avvolgesse le loro cuspidi nell’aria umida e immobile, ma in basso, molte decine di metri sotto di lui, le luci della città si erano nel frattempo accese, disegnando un tessuto luminoso di viali, piazze, vicoli e strade, come il rispecchiarsi di un lontano e improbabile cielo stellato nel cuore rigido e cristallino di un geode.

    Gli restavano solo trenta minuti, anche meno, per scendere nell’atrio ed uscire per sempre dal Centro, evitando i controlli di sicurezza. Ma avrebbe dovuto ricorrere ad una complicata serie di accorgimenti e di astuzie, sino a raggiungere i cancelli di uscita, per non incappare nella rete dei rivelatori, altrimenti sarebbe stato localizzato e bloccato. Conosceva il modo di evitarlo, ma solo in teoria.

    Gli ultimi trenta minuti, epilogo repentino di quasi diciotto anni di vita trascorsi in quella morente torre di vetro. Ed ora la fuga.

    Non c’era più tempo per riflessioni e ricordi, i secondi passavano. Ma indugiò ancora, quasi per sfida.

    Il giorno soccombeva, e nella penombra Edgar afferrò un foglio bianco. Scrisse lentamente:

    "Qui ogni cosa ha termine".

    Poi, con un’improvvisa, ritrovata serenità, così piena e feconda da muovergli il volto al sorriso, aggiunse:

    Qui ogni cosa ricomincia ad iniziare.

    2.

    Maggio 2015.

    Subito dopo la grande curva la strada cominciò a scendere in larghi tornanti, seguendo le piccole valli che incidevano l’estremo fianco del monte e confluivano nella campagna appena sottostante. Questa, all’inizio, era mossa da ondulazioni collinose, piccole e dolcemente declinanti, come antiche dune, sino a svanire poi nella vasta pianura immersa nel sole, che fuggiva, punteggiata da file irregolari di cipressi, verso il mare lontano. Le cime e i fianchi dei colli erano ricoperti da fitti boschi di pini, mentre sui versanti della montagna, aspri e inospitali, s’affannava l’arrampicarsi delle estreme avanguardie degli elci, poi, più in alto, di rarefatte colonie di arbusti e di mughi contorti.

    Viaggiava da diverse ore ormai, ma nessuno l’aveva seguito. Ed era giusto così, perché una volta varcati i cancelli del Centro, anche se si era illegalmente sottratto ai controlli, Edgar non era più perseguibile. Ora era un cittadino normale, un esterno, uno del popolo.

    Prima che la discesa finisse gli apparve la casa, chiara e serena, adagiata sul fianco aprico del colle, circondata dal verde. Un istante, poi un’altra quinta boscosa gli chiuse la visuale, e poi ancora la casa ricomparve, col tetto di coppi rosa; ne vide le mura spesse e le piccole finestre dalle imposte massicce di legno. Ancora una curva, ancora chiome di roverelle e cime scapigliate e ventose di pini.

    Il verde variegato e compatto della folta vegetazione, l’azzurro inafferrabile del cielo limpido, la luce che tutto permeava, così forte e vitale, s’alternavano in quella discesa che Edgar, ormai giunto al termine del suo viaggio, rallentava con una sommessa emozione. Per un breve momento, fra gli alti cespugli di ginestra, gli apparve il campanile della cappella, con la sua piccola cupola e le quattro bifore campanarie, e il lungo filare di cipressi secolari le cui cime salivano più alte e austere degli edifici. E sul fondo, rasente la facciata della casa, la verdissima chioma di un ippocastano.

    Giunse al cancello, lasciò la strada asfaltata ed entrò.

    Il sole, in quel mattino felice, era così forte ed incisivo che ogni forma, ogni ombra e colore, ogni dettaglio dei boschi e dei campi ne era esaltato e appariva netto nei suoi contorni. La distesa del cielo era di un turchese intenso all’altezza degli occhi, quasi violetta allo zenit; quel cielo che conferiva a tutto il paesaggio una sfumatura azzurrina e vivida e che solo la grande montagna sembrava sfiorare con la sua cima glabra e appuntita. Il monte dominava ogni vista, anche se i suoi fianchi sfuggenti non gli permettevano di incombere, ma solo di contenere con un immenso abbraccio tutte le valli e i colli circostanti.

    Lasciatosi alle spalle la facciata posteriore della chiesetta di pietra con le tre piccole absidi, Edgar raggiunse il fronte principale della casa, e si trovò su una vasta terrazza invasa da erbe selvatiche, più larga e più lunga della casa stessa, bianca e assolata, dove l’alto ippocastano gettava un’unica grande ombra verde. La terrazza era in realtà un terrapieno, delimitato su tre lati da una lunga balaustra di pietra, che dava nobiltà e respiro al fronte dell’edificio, volto a meridione, ricoperto da quell’intonaco chiaro, antico e rustico, quasi lunare. Al centro della balaustra una fontana scolpita nel sasso, un delfino con la coda ritorta e volta all’insù, dalla cui bocca usciva un getto di acqua sorgiva, dapprima raccolto in un’ampia conchiglia di pietra grigia, poi ricadente in una grande vasca sottostante. E il suono continuo e brillante di quell’acqua che gorgogliava nella conchiglia era vivo e allegro come ogni fiore, ogni pietra, ogni oggetto di quel luogo incantato, antico e vivente, magico e impregnato di un fascino denso e inspiegabile.

    La casa era semplice e bella. Rassicurante. Sembrava uscire intatta dal tempo e nutrirsi del sole. Con un giro dello sguardo Edgar abbracciò le terre tutt’intorno, i boschi, le vigne abbandonate, i campi incolti, le colline cosparse di ginestre fiorite e le alte erbe infestanti che si erano insediate in ogni angolo. Tutta quella terra doveva appartenergli, così come la casa chiara, la piccola cappella medioevale, ogni albero del giardino, la terrazza, la vasca, il delfino di pietra. Forse lì era nato e lì era iniziata la sua strana esistenza, costellata di episodi misteriosi e di strane amnesie. Di certo sua madre e suo padre avevano calpestato quel suolo, parlato in quelle mura e avevano visto quelle stesse immagini.

    Col tempo avrebbe saputo. Una casa può essere un intero universo, e racchiude in sé tutto il tempo e gli eventi che ha accolto negli anni. Doveva imparare a riconoscerla ed amarla, pazientemente. Ora, dopo quasi quaranta anni le stava di fronte. Prese dalla tasca una grossa chiave di ferro e, giratala nella toppa della porta principale, in punta di piedi, come sull’orlo di una grande avventura, entrò nel buio fresco delle mura. Era tornato a casa.

    La stanza riposava nell’ombra. Carte e libri giacevano sparsi per terra e il grande letto era scomposto. Dalla finestra che guardava a meridione si poteva vedere la luna piena disegnare ombre nitide nella campagna.

    Chiuse le imposte, si avviò alla porta e la accostò dietro di sé; gli piaceva scendere per quella stretta scala al buio, cercando con i piedi i gradini, come accecato, giungere sino al portoncino e di lì uscire nella notte. Prese ad avanzare nell’erba del grande terrapieno che s’apriva dinanzi alla casa e si avvicinò alla fontana del delfino, appoggiandosi alla balaustra. Udiva solo lo scrosciare dell’acqua che dalla bocca del ricurvo cetaceo di pietra cadeva nella vasca sotto di lui. La vasca era grande e rifletteva la luna. Folate di odori notturni si intrecciavano, e quella luce lattea si impregnava di ruta e di menta selvatica, di ginestra, di terra fresca e del profumo delle prime pesche mature, giù nel frutteto.

    La notte brulicava di presenze.

    Eppure in essa ogni vita pareva essersi acquietata; la notte era intensa e vasta come l’esangue luce lunare cosparsa sui prati, distesa per tutta la conca, sui colli bassi e boscosi, sulle chiome scapigliate dei pini.

    Gli anni trascorsi stavano già divenendo un’esperienza lontana, e iniziavano a sbiadire nella sua memoria. Gli anni della torre di vetro, delle città del nord, gli anni della scienza. Edgar ne allontanò il ricordo: questo era ormai un altro tempo, il tempo di attraversare campi e boschi, di seguire il corso dei torrenti, di guardare dalla cima dei colli il paesaggio dileguarsi verso l’orizzonte, segnato da filari di cipressi, dai vigneti assolati, dalle macchie di lecci, dai corridoi tortuosi delle siepi di vitalba. Era il tempo per uscire di notte e farsi lambire la pelle dalla luce della luna.

    Lungo il bordo della vasca risplendevano i grandi ombrelli degli aneti e delle angeliche, e i ricchi corimbi rosa delle più alte achillee; nella notte bianca ogni pensiero lievitava nel silenzio. E il silenzio era trepido come una grande attesa, pronto a spezzarsi al primo segno dell’alba o al primo grido di un nibbio.

    La terra, stupita, era muta e immobile in quella luce senza colori.

    La luce lunare faceva sì che il paesaggio diffondesse quel silenzioso incanto di cui esso si ammanta quando non è più realtà, ma solo trasfigurazione. Nelle zone buie, infatti, che sono infinitamente buie la notte, ogni realtà svanisce, mentre nei luoghi illuminati tutte le forme subiscono quella semplificazione che dona l’essenzialità estrema. Ad essa, seppur povera di spazi, di volumi, di identità stessa dei segni, corrisponde però la più grande ricchezza di suggestioni e di capacità espressive.

    Il paesaggio diviene allora regno dell’immaginario, si spoglia dei significati concreti, dei nomi stessi delle cose, della loro natura, e si cela dietro il velario di un disegno ambiguo, oltre il quale è permesso far vivere qualsiasi ipotesi, qualsiasi racconto, qualunque verità. È di ciò che la terra si stupisce. Del ritrovarsi non più semplicemente certa e identificabile, determinata e razionale, ma di acquisire, sotto quella luce, complicate moltitudini di possibili significazioni, di storie narrabili all’infinito, di realtà probabili e inespresse, plurime e ramificate: un arricchirsi improvviso e ridondante di nuovi corredi semantici, tanti quanto l’immaginazione può evocare o quanti l’inconsapevole può dettare al sogno. La complessità già elevata del paesaggio raggiunge così i suoi limiti estremi, espandendosi nei territori del possibile.

    La luce del giorno, invece, è logica e spietata, e non lascia dubbi; determina e attribuisce natura, nomi, caratteri, confini e oggettività. Non lascia posto a nessuna interpretazione. Il paesaggio è un insieme di ecosistemi compiutamente definito. La sua ricchezza, la sua funzionalità, la sua bellezza sono, oppure non sono. Nella luce notturna, al contrario, ogni certezza si rarefà, ogni logica diviene solo probabile.

    La terra dispiega allora bianchissime lenzuola di favole e oscuri scrigni di immaginazione. Per questo, nella notte, invisibili sulle chiome dei boschi, volano alti i sogni di ogni vivente.

    *

    Si erano presentati il giorno dopo il suo arrivo e avevano suonato la campana che pendeva a fianco del portoncino. Edgar non conosceva ancora i suoni della casa e si era meravigliato nell’udire quegli acuti rintocchi che provenivano da fuori; si era affacciato al finestrino della soffitta dove stava curiosando senza troppa attenzione e aveva guardato di sotto. Pioveva svogliatamente quel giorno, e la siepe di bosso che ornava il viale dell’antico ingresso era cosparsa di gocce brillanti.

    Loro due erano proprio sotto la finestra, senza ombrello, e attendevano.

    - Buongiorno - aveva detto Edgar, sporgendo il capo per farsi vedere.

    Alzarono il viso simultaneamente e prendevano la pioggia sulla faccia guardando in su, verso di lui.

    - Buongiorno Monsieur Edgar, siamo venuti a farvi visita, se non vi disturbiamo.

    - Scendo subito.

    Ma chi diavolo sono e chi li ha fatti venire, neanche due giorni che sono qui e già ricevo visite, non per niente ma, comunque, se arrivano senza preavviso vai a saperlo, d’altra parte come fanno ad avvisare se non ho neanche un telefono, non faranno i complimenti spero.

    Era corso giù per la stretta scala e aveva spalancato la porta.

    Così erano entrati. Un uomo anziano e una ragazzina assai più alta di lui. Il padre portava una tuta azzurra da lavoro, un po’ stinta, la camicia abbottonata sino al collo ma niente cravatta, sulla testa un berretto ormai ben bagnato. La figlia, o quel che era, aveva un vecchio paio di jeans molto stretti che le arrivavano al polpaccio, doveva esserci cresciuta dentro per almeno venti centimetri, e sopra un camicione largo e lungo sin sui fianchi, scarpe da ginnastica e un fazzoletto annodato sulla testa.

    Appena lo tolse una cascata di capelli biondo-grano le si rovesciò sulle spalle. Potevi metterti almeno un fermaglio, aveva detto il padre, mentre anche lui si toglieva il berretto e strofinava le scarpe pesanti sullo zerbino.

    I capelli di lei erano appena ondulati, fluenti e assai sottili, sbarazzini come gli occhi, sebbene tutto il viso mostrasse un atteggiamento di apparente soggezione nel presentarsi a lui.

    Edgar li aveva fatti accomodare con i soliti convenevoli del popolo, che conosceva ma detestava, scusate il disordine, sono appena arrivato, non immaginavo che sarebbe venuto qualcuno, siete molto cortesi, posso offrirvi qualcosa. Ma il vecchio, i capelli corti e bianchissimi, da buon contadino non aveva fatto alcun caso alle formalità, aveva accettato un bicchiere di bianco e, cappello in mano, si era accomodato sulla prima sedia che gli era venuta a tiro. Così, un momento dopo, si trovarono tutti e tre seduti attorno al tavolo della cucina, l’unico locale della casa, a parte la stanza da letto, che Edgar era riuscito a sistemare decentemente in quei due primi giorni.

    - Io sono Maurice Bernard e questa è mia figlia Annette. Siamo venuti a darle il benvenuto, Monsieur Edgar, perché siamo i vostri vicini. La nostra fattoria è quella che potete vedere sulla collina di fronte, dove finisce la pineta. Si chiama Les Lézardes. Sappiamo che siete arrivato l’altro ieri, che siete solo e che forse avrete bisogno di una mano per rimettere in ordine questa grande casa dopo tanti anni di abbandono, sempre che vi fermiate qualche tempo. Forse siamo stati inopportuni a venire così presto e senza farvi avvisare dal postino, ma è un po’ l’uso di qui. Viviamo tutti in fattorie distanti fra loro e il paese è a tre chilometri. Così pensiamo che sia utile conoscersi fra vicini. Non si sa mai.

    L’esordio è promettente. Questo Monsieur Bernard sembra un tipo non comune, parla bene e ha una voce educata, rotonda. Gli occhi come la figlia, grandi e astuti. Avrà settant’anni suonati, almeno a vederlo. Lei non ha ancora aperto bocca, però, vista da vicino, non sembra una ragazzina come appariva all’ingresso, dovrebbe averne venti o poco più, insomma, sono gentili e non ti fanno sentire un estraneo. O forse avranno una loro convenienza, chissà.

    Ma come fanno a conoscere il mio nome?

    - Sono molto contento che siate venuti - rispose Edgar con altrettanta semplicità - mi chiedevo appunto se sarei stato del tutto solo in questa campagna, ma mi accorgo che ho già dei vicini premurosi. Certamente uno dei prossimi giorni sarei venuto io a conoscervi a Les Lézardes, appena sistemata un poco la casa; ma mi avete gentilmente preceduto. Penso che ci terremo compagnia qualche volta.

    Visto che sanno già abbastanza di me è meglio chiarire tutto subito. In campagna le voci corrono.

    - Sono arrivato l’altro ieri, sì. Dal nord, dalla città. E se nessuno verrà a trovarmi, come credo, resterò solo. Quanto poi al fermarmi qui, non sarà per qualche tempo soltanto. Ho intenzione di rimanere per sempre. Del resto, ma questo forse lo saprete già, sembra che questa casa e queste terre mi appartengano, devo essere ormai l’unico proprietario, e anche se non conosco né i luoghi, né queste mura, è molto probabile che io vi sia nato. Rimasi qui solo un anno o due, non so, così mi hanno detto, poi via, lontano, su nel nord. Ma ora eccomi di ritorno.

    Monsieur Bernard sorrideva appena, compiaciuto ma con ritegno, mentre si versava ancora del vino dalla brocca gialla.

    - Così avete deciso di stabilirvi nella terra d’origine. Sapete, credo proprio di aver conosciuto i vostri genitori e un po’ della loro storia quando lasciarono questa casa. È sempre così, in campagna. Si viene sempre a sapere qualcosa di tutti, anche quando sono lontani. Ma si tratta di vicende ormai passate. Ci domandavamo spesso, Annette ed io, se sareste tornato o se avreste venduto la proprietà. E non immaginate quanto questa vostra decisione ci faccia piacere. Abbiamo guardato questa casa da lontano per anni, sempre chiusa, triste. Eppure è una casa bellissima, grande e piena di sole. Sapeste come sono malinconiche le case disabitate, specie durante l’inverno. Ma ora, con voi qui sarà tutta un’altra cosa, Monsieur Edgar. Tutta un’altra cosa. Davvero.

    Notò, per un istante, la particolare accentuazione che il vecchio aveva dato all’ultima frase. Forse, però, era solo un’impressione.

    Aveva smesso di piovere nel frattempo, così la ragazza aveva rotto il silenzio. È tornato il sole, perché non andiamo a parlare sulla terrazza?

    - Annette, non sei a casa tua, non essere invadente.

    - Ma no - intervenne Edgar - vostra figlia ha ragione. È vero, è una buona idea, usciamo all’aperto. Tu conosci bene la casa, vero Annette?

    Il padre aveva risposto per lei.

    - È sempre venuta qui, sin da piccola, conosce ogni angolo del giardino, ma non è mai entrata, naturalmente. Le piace molto questa casa, lei la chiama "la maison claire", viene, gira attorno, si arrampica sull’ippocastano e qualche volta fa il bagno nel vascone del vecchio serbatoio, dove l’acqua è sempre limpida. Non vi dispiace, vero?

    - Anzi, Monsieur Bernard, ne sono contento. Vostra figlia ha mantenuto un poco in vita questo luogo. E ora che ci sono io se vorrà tornare potrà farlo quando vorrà, così visiterà anche l’interno.

    Erano arrivati sulla terrazza, sempre coperta di erbacce, fra le quali, a tratti, apparivano isolotti di ghiaia, e si affacciarono tutti e tre alla balaustra; di fronte c’era la collina ammantata di pini e sulla punta Les Lézardes, la fattoria dei Bernard, sovrastata da un ampio tetto rosa. Il cielo ora era sgombro e il sole di nuovo caldo.

    - Tornerai allora, Annette? - aveva chiesto Edgar.

    - Certamente, M’sieur. E potrò entrare a vedere la casa?

    - Non c’è dubbio. Questo vecchio edificio ha proprio bisogno di ricominciare a vivere, di riempirsi di voci e di passi di persone amiche.

    Annette appariva felice e chiese subito di poter sbirciare un poco l’interno. Edgar disse di sì e il padre le evitò le solite raccomandazioni. Lei, allora corse via e sparì dietro una delle porte che si aprivano sotto il pergolato.

    Ero rimasto solo con il vecchio Bernard, seduti sotto l’ippocastano, sulla panchina di legno, e lui parlò a lungo. Si capiva come amasse quella terra, quella vita, e come si sentisse lieto se una persona, anche sconosciuta, fosse tornata a far rivivere tutto un passato, ristabilendo una continuità di eventi e di relazioni interrotta per molti anni e che era sembrata doversi estinguere. Non faceva cenno a ricordi, forse per rispetto verso di me, ma indugiava nell’evocare sensazioni, descrivendo i luoghi e le dolcezze di quella terra. Accennò a tante ipotesi e notai che erano tutte rivolte al futuro, strano per un vecchio, alle possibilità che quella campagna offriva e al tipo di vita che poteva promettere.

    All’inizio non parlò affatto di sé, né di quello che avrei potuto fare io, parlava in generale, ed era piacevole ascoltarlo, nel suo fraseggio semplice.

    Allora chiesi io qualcosa di lui, perché mi incuriosiva la sua vita e quella di sua figlia, isolati nella fattoria.

    Seppi così che la madre di Annette era morta da molti anni e la bambina era cresciuta con lui. Monsieur Bernard avrebbe voluto farla studiare, ma era riuscito solo a farle finire il liceo a Aix.

    - È intelligente, sapete, e apprende molto in fretta; da voi potrebbe imparare molte cose, so che siete uno scienziato - sapeva anche quello - Penso che sia molto dotata ed è un peccato che non abbia potuto proseguire negli studi, ma voi vi rendete conto, l’università costa. E poi, cosa se ne farebbe qui di un diploma, è vero che si studia per essere migliori, così almeno dicono, o più liberi, ma qui siamo un po’ lontani dal mondo, e questo è il vero mondo di Annette. Già il liceo fu un’impresa completarlo, per via della distanza e Annette non era proprio il tipo da starsene chiusa tutto l’inverno in un collegio. Poi l’università può cambiare il carattere, così penso io, e mettere in testa idee strane, diverse. Ho conosciuto dei ragazzi di qui che hanno trascorso cinque o sei anni in città per avere una laurea, e quando sono tornati erano cambiati, non appartenevano più a questa terra. Così le generazioni e le abitudini mutano e i valori del passato si dimenticano. E con il ricordo del passato svanisce la fede nell’avvenire: ne resta solo il desiderio di possesso. Questo non è un bene. Ma io vi sto annoiando, Monsieur Edgar, scusate le riflessioni di un vecchio campagnolo - disse dopo una pausa, e sorrideva dolcemente, con una saggezza negli occhi che appariva stanca.

    - Non ci pensate nemmeno, mi fa molto piacere ascoltarvi - gli risposi, ed ero sincero.

    Ma Monsieur Bernard cambiò discorso, si informava sui miei programmi. E per la terra cosa avrei fatto? Gli dissi che mi sarei accordato con qualcuno perché mi aiutasse a lavorarla, almeno l’essenziale. E per la casa? Farò da solo, penso, finché è possibile riassettarla, poi, anche per quella, avrei chiesto un aiuto, ma ero comunque intenzionato a riportarla all’antica integrità.

    Allora mi invitò da lui a Les Lézardes, però era meglio se lasciavo passare qualche tempo, perché attualmente stavano facendo dei lavori, un pezzo di tetto nuovo, una torretta per le tortore e altre cose, sicché non voleva che trovassi tutto in disordine.

    - Annette è molto brava a tenere a posto la casa, aggiunse, la nostra è un’abitazione confortevole, ma non dovete aspettarvi niente di lussuoso, solo una fattoria di campagna, rustica, sapete, niente di più.

    Invece io mi stavo incuriosendo di quella fattoria, proprio a causa dei suoi discorsi. Doveva essere singolare, e niente affatto consueta.

    Che non dubitasse, li sarei andati a trovare presto, anche per restituire la visita.

    La conversazione era andata avanti così per un po’. Era gente piacevole, gente di quella terra benedetta dal sole, tranquilla come i campi e le vigne, come i filari di pioppi, per nulla vuota o banale.

    Ad un tratto, però, Monsieur Bernard gli aveva chiesto:

    - Se ho ben capito voi vi interessate, come potrei dire, di luoghi strani, straordinari. È vero?

    Quella domanda lo aveva sorpreso non poco, ma non si chiese come mai il vecchio fosse al corrente di quella sua attività che era, in effetti, molto personale. Per una frazione di secondo Edgar si era sentito riportare indietro, fra le pareti della torre di vetro, e ancora prima, quando la storia dei paesaggi e della sua fuga dal Centro era iniziata, durante una missione a Parigi, tre mesi prima. Ma aveva scacciato subito ogni ricordo e aveva risposto che sì, era una sua abitudine, una curiosità. Lì, inoltre, era tutto nuovo per lui e ne avrebbe approfittato per fare lunghe escursioni. Amava attraversare luoghi diversi e studiare i fenomeni particolari, le stranezze della natura.

    - È facile trovare luoghi strani qui - aveva continuato il vecchio facendosi serio - In queste terre infatti vivono molte leggende e talvolta accadono cose straordinarie. Sono storie di campagna, s’intende, voi invece cercherete delle esperienze più.... scientifiche, immagino.

    - Ma cosa intendete per luoghi strani? - lo aveva incalzato lui.

    - È difficile per me rispondervi - e si era passato una mano nei capelli, quanto bastava perché Edgar notasse che le sue dita erano affusolate e curate, non grosse e nodose come ci si sarebbe aspettato da un contadino - Voglio dire, luoghi che non si capiscono molto bene. O dove le leggende diventano reali. Potrei accompagnarvi a vederne qualcuno, per spiegarmi meglio. Anche Annette può farlo, beninteso, ma io non la lascio andare dappertutto. È ancora impulsiva, e ci sono posti e, come dire, cose che accadono, nei quali occorre usare prudenza.

    Stentava a capire. Monsieur Bernard aveva toccato un argomento molto particolare, quello delle località dotate di forme anomale del paesaggio, o anche quei fenomeni spontanei che sembravano contraddire le leggi di natura. Da alcuni mesi egli cercava quei luoghi, anche se ora non più per studio, ma solo per una inspiegabile ostinazione. Era però, questo, un argomento che solo lui conosceva. Quell’anziano contadino, invece, chiacchierando sotto l’ippocastano, era giunto inconsapevolmente a parlare di quel suo interesse come se lo conoscesse da tempo. Coincidenze. In tutti i luoghi poco frequentati, ricchi di presenze storiche e di diversità naturali, sopravvivono miti, favole, tracce di leggende e di rituali ormai quasi perduti. E si riaffacciano quei timori, quelle impressioni visive che anticamente facevano delle selve e delle gole dei monti luoghi al tempo stesso attraenti e repulsivi, imbevuti di mistero, popolati di demoni, di creature fantastiche, regni di Pan e delle sue terrifiche suggestioni.

    - A proposito – aveva ripreso Monsieur Bernard - se queste cose vi interessano davvero, fra qualche giorno dovrò recarmi da un vecchio amico. Vado tutti gli anni a trovarlo e passerò vicino ad una regione che sicuramente vi potrebbe incuriosire.

    Edgar aveva annuito vagamente, ancora preso dalle sue riflessioni.

    - Bene, potremo darci un appuntamento, allora. Sempre che vogliate venire con me.

    - Sì, sì, molto volentieri – rispose. Al massimo avrebbe perso una mattinata, ma non ne era poi tanto sicuro.

    Così si era fatto descrivere accuratamente la strada da seguire e avevano fissato il giorno, il luogo e l’ora dell’incontro.

    - Troverete un grande prato. Io vi aspetterò sotto un albero, perché il sole è ormai forte. Ci vedremo là dove la pietra resta solo pietra. Quando sarete sul posto capirete.

    Edgar e il vecchio parlarono anche di altre cose, conversando per diversi minuti ancora, poi Monsieur Bernard disse che dovevano rientrare, si era fatto tardi e non desideravano disturbare oltre. Chiamò allora sua figlia salutando con una timida stretta di mano.

    Annette ricomparve correndo.

    Negli occhi aveva tutto il sole di quella terra luminosa.

    3.

    Maggio 2015.

    È la seconda volta che vedo Annette, la figlia di Monsieur Bernard, che abita a Les Lézardes, la fattoria sulla collina di fronte. Da quando sono venuto ad abitare qui l’ho appena conosciuta e oggi l’ho ancora intravista nei pressi della casa. In soli due giorni mi è comparsa davanti tre volte. Non so chi sia. Ho come l’impressione, però, ch’ella faccia parte di questi luoghi. L’ultima volta non mi ha parlato, anzi, ne ho colto solo la sagoma in controluce, sulla porta della cappella. Ero entrato per visitare quel monumento così antico e non so da quanto tempo ero fermo sotto le volte di pietra, in quel silenzio pieno di echi. Quando mi sono voltato l’ho vista stagliarsi contro la luce del giorno, in

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