Io e Bersca
By Maria Suppa
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Ma la vita è una tentazione irresistibile: saranno lividi e lacrime però a segnare gli errori della sua ingenuità.
Pagine di metamorfosi, intrise di vibrazioni e speranze, opportune per la possibilità di una rivincita.
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Io e Bersca - Maria Suppa
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1
Driiiiiiiiiiiiinnnnnnnnn, driiiiiiiiiiiiinnnnnnnnnnn, driiiiiiiiiiiinnnnnnnn.
«Smettila stupida sveglia. Ti odio!»
Sono le cinque e mezza del mattino, la mia sveglia mi ricorda che devo andare a lavoro. A quest’ora non la sopporto. Già devo subirla tutta la notte con il suo TIC TAC, TIC TAC, TIC TAC. Se riesco ad addormentarmi subito, è un conto, ma quando la mia insonnia si fa viva rendendomi le notti lunghe e isteriche, quel suo ritmo mi penetra nel cervello tanto da farmi venire dei tic nervosi, e io, come la gallinella che è al suo interno, inizio a muovere la testa, su e giù, e divento gallina anch’io. Fino a quando il mio buonsenso e la mia capacità di trattenere i miei impulsi animaleschi riescono a sopraffare all’idea di farla fuori, lei è lì, tranquilla, a fare quello per cui è nata: cercare di beccare uno dei tre semini che giace tra le sue zampe. Una vita sprecata a farsi venire la cervicale, su e giù con quella testolina, per beccare un minuscolo semino. Un semino che non riuscirà mai a mangiare. Tanto vale lasciar stare.
Bloccati, rompi questo meccanismo e vivi in santa pace. Tanto non riuscirai mai a mangiare nulla, almeno vivi a digiuno senza fare troppi sforzi inutili. Sei proprio una stupida gallina!
penso ogni tanto guardandola. Quando i miei nervi, ormai a pezzi, per la brutta nottata, con gli occhi aperti come biglie di rosso colorate, e la sveglia segna le tre e il sonno chissà dov’è andato a far baldoria, con uno scatto felino apro il cassetto e, con un colpo netto, la butto al suo interno e lo richiudo sbattendolo così forte da incassarlo direttamente nella parete. Di solito va a finire sempre così. Dopo anni di ripetuto mal gesto ai danni dei due poveri malcapitati e perciò di tante mie notti lunghe e disturbate, rimango incredula della resistenza di entrambi. Neanche un graffio o una vitina fuori posto.
Al risveglio, intontita e mal ridotta da far paura a uno zombi, mi ricordo dell’accaduto e me ne pento. Riapro piano piano il cassetto per non disturbarla, nel caso stesse dormendo, e invece è lì, a far ancora su e giù con la testa per acchiappare quel benedetto seme. Mi viene voglia di smontarla quella sveglia e ficcarle in becco quel pasto, così faccio un’opera di bene anch’io, sfamando una povera gallina affamata.
A quest’ora è proprio dura svegliarsi!
Lavoro in una fabbrica che produce elettrodomestici. Io sono nel reparto di montaggio; praticamente inserisco nelle lavatrici una scheda con vari chip e fili colorati che ne permettono il suo funzionamento. Non è un gran lavoro ma mi accontento. Almeno io ce l’ho. È tanto noioso però; anche se siamo in tanti all’interno della grande sala, il forte rumore delle macchine non permette un dialogo tranquillo, ma ogni tanto, anche a gesti ci facciamo capire e la giornata passa tra risate, momenti di pura agonia mentale e altri in cui, per evadere da un carcere retribuito, fantastico di essere un’altra persona... ma proprio un’altra!
Ho venticinque anni appena compiuti e non mi piaccio tanto, anzi per niente. Già il nome è un programma. Bernarda. Ringrazio mia nonna, che ha lo stesso nome, ogni giorno della mia vita. È lei che, appena saputa la bella notizia del mio concepimento, abbracciando mia madre le disse:
«Grazie per avermi fatto il regalo più bello che abbia mai ricevuto, la mia nipotina Bernarda!»
Mia madre, rimase impassibile e guardò mio padre che, essendo succube di nonna, non fece altro che abbassare la testa al suo sguardo che gli chiedeva aiuto, acconsentendo così, alla nascita del mio primo, enorme e onnipresente motivo di umiliazione che porterò sempre con me. Perché Bernarda non è solo un nome non proprio facile da pronunciare, poco carino da sentire e per niente dolce nelle sue sillabe, ma è soprattutto il nomignolo della nostra parte più intima, quella nostra, quella femminile! È il ghigno su ogni volto maschile nel pronunciarla, con conseguente risata sarcastica. È la barzelletta sempre presente nelle serate in cui gli uomini, in massa, aumentano in percentuale il tasso della cafoneria e grossolanità del genere umano.
Sono alta un metro e cinquantanove per settantadue chili. Prima avevo i capelli lunghi e castani, ma giacché non godo di un fisico bestiale e per non far notare solo quello, li ho fatti tagliare cortissimi e mi sono fatta bionda. Il viso non è male. Occhi grandi e scuri, e labbra carnose. Almeno quello. Vivo da un paio di anni fuori di casa, ma siccome non mi posso permettere un appartamento da sola, lo condivido con altre due ragazze. Non mi andava più di stare con i miei. Ho una sorella, più piccola di un anno e molto più carina di me. Amata e lodata dai miei genitori perché, al contrario di me, ha voluto proseguire negli studi, iscrivendosi alla facoltà di legge e poi, grazie alla sua bellezza, partecipa a tutti quei cast, dove sculettare e gonfiare i labbroni con movimenti sensuali è l’unica cosa da fare per essere selezionati e poter un giorno diventare famosi. Con i tempi che viviamo, i miei non hanno ancora capito che ci vuole ben altro per varcare la soglia televisiva e non si chiama di certo bravura o fortuna. C’è chi lo chiama bunga bunga in questo periodo. Sarà. Io so solo che devo subire, nei pochi pranzi consumati a casa loro, tutte quelle smancerie e premure rivolte a mia sorella. Ma anche lei non è stata proprio fortunata in quanto a nome. Peta. Che famiglia disgraziata che siamo! Bernarda e Peta! Ma come gli è venuto in mente di rovinarci così la vita sin dalla nascita? Se io vengo derisa per il mio ridicolo nome, figuriamoci mia sorella, che grazie all’ultima vocale, si salva in qualsiasi territorio nazionale, tranne che in Toscana, dove è proprio il termine peta, nel loro dialetto, che sta a indicare una flatulenza. Per risolvere certi problemi, abbiamo trovato di comune accordo, delle soluzioni. Mia sorella evita di andare in Toscana e si fa chiamare Pelta, mentre io, Bersca. Quando ci chiedono l’origine dei nostri nomi, diciamo che il nostro bisnonno era vissuto in Grecia oppure che sono nomi di origine latina, o di piante marine o di stelle cadenti. Tanto la gente che ne sa.
Le mie coinquiline sono più grandi di me, molto più grandi. Una ha quarantacinque anni e l’altra trentanove. La prima cosa che mi dissero quando mi presentai a casa fu:
«Noi abbiamo delle regole ferree, niente uomini a casa nostra! Neanche se fossero parenti!»
Ci rimasi un po’ male sentendo le parole delle due bigotte, ma, pensandoci bene, non avevo di questi problemi, visto che il mio unico fidanzatino risaliva ai tempi delle scuole medie. Se poi potevo definirlo così. Ci vedevamo solo al mattino prima del suono della campanella e nell’intervallo. Momenti veloci e sporadici dove esploravamo i nostri corpi con molta cautela e imbarazzo. Sembravamo due scimmiette intente nelle loro quotidiane pulizie corporee. Pochi i baci e solo a stampo. Ci ha provato ad allungare la lingua ogni tanto, ma mi faceva talmente schifo quella cosa umidiccia, che mi rifiutavo sempre di farlo. Lui ci rimaneva un po’ male ma poi aveva tanta di quella roba da vedere e toccare che ci passava sopra. Io ero più bruttina di adesso, piena di brufoli in faccia e molto rotonda nelle forme, ma non mi creava imbarazzo perché anche lui non era mica un Brad Pitt. Magro, con denti grandi e sporgenti, sembrava un coniglio a guardarlo bene. Un coniglio con gli occhiali. La storia finì subito perché mi ero stufata di quei tocchi incerti fatti di mani tremanti e sudaticce. Poi basta. Mai più un uomo. Fino a poco tempo fa.
Per andare a lavoro ci metto almeno un’ora. Per questo mi sveglio alle cinque e mezza. Mi ci vogliono dieci minuti a piedi per arrivare in stazione. Se aspettassi l’autobus ci metterei una vita. Mezz’ora di treno e poi ancora un quarto d’ora di tram. Praticamente arrivo in fabbrica che sono già stanca. Devo timbrare il cartellino alle sette e mezza, perciò, uscendo di casa alle sei e se tutto procede secondo i miei calcoli e le mie aspettative mattutine, dovrei essere lì per le sette meno cinque. Mi rimane poco più di mezz’ora, che consumo al bar assieme a qualche collega che arriva in anticipo come me.
Mi bastano trenta minuti per prepararmi. Non ci crede nessuno, ma io sono molto organizzata e ci riesco perfettamente. Mi preparo i vestiti da mettere, la sera prima. Non perdo molto tempo, sono sempre un jeans e una maglietta, scarpe da tennis, mutanda e calzettoni. Anche la doccia la faccio la sera prima. Il reggiseno è già inserito appena metto il pigiama. Serve di notte a reggere il mio pesante seno, così non mi ritrovo tra un po’ di anni con le tette mosce e cadenti. In più non perdo tempo al mattino per abbottonarlo. È sempre difficile farlo. Non ho lunghe braccia, e vista la circonferenza del mio corpo non riesco mai ad arrivare a quei maledetti gancetti. Così, quando lo indosso, lo abbottono dal davanti, gli faccio fare un giro all’indietro e come con una canotta, tiro sulle spalle le bretelle e il gioco è fatto.
Il mio risveglio è sempre il solito, come la mia esistenza.
Suona la sveglia. Mi tiro su blaterando all’impazzata, sottovoce, contro chi non so, ma sicuramente è qualcuno o qualcosa che mi sta proprio sulle scatole. Ad occhi chiusi vado in bagno, senza far rumore. Le brutte zitellone dormono, guai a svegliarle! Il bagno è sempre libero a quell’ora, loro insegnano nella scuola di fronte. Dopo essersi lavate, non hanno tanto da fare per migliorare il loro aspetto. Sono proprio bruttine. Quella bruttezza irrecuperabile. Mi dispiace pensarlo ma ne sono felice. Almeno a casa mia mi sento una figona! Penso anche a quei poveri bambini a scuola. Come crescere con dei traumi. Se mio figlio dovesse avere una maestra così, lo ritirerei subito da scuola. Ma scherziamo! Avere incubi notturni è una delle cose più brutte che ti possono capitare. Ne so qualcosa io! Sarà forse la loro presenza in casa che mi crea tutte queste continue ripercussioni?
Dopo una veloce doccia, mi trucco per bene. Mi piace farlo. Tutti mi dicono che ho dei begli occhi, perciò li rifinisco con un po’ di matita e di ombretto. Anche il rossetto non mi manca mai.
Corro di nuovo in camera e mi vesto. Spalanco la finestra così faccio areare la stanza. Il letto non lo sistemo mai. A cosa serve? La notte ci devo ridormire e poi in camera mia non ci va mai nessuno. Sarebbe solo una perdita di tempo. Prendo la borsa, chiavi e sigarette e vado in cucina. Luce dei miei occhi, dolce stimolo per le mie cellule sensoriali olfattive, delizia per le mie papille gustative. La mia moca. Il mio caffè.
Una tazzina di minuscolo liquido nero può mandare in estasi una persona? Ebbene, sì! Già nel prepararlo è tutta un’eccitazione. È come se avere tra le mani quel meccanismo metallico mi faccia sentire importante. Fiera di essere una delle poche persone in piedi a quell’ora, che si sacrifica per mandare avanti un’azienda, che ha tutte le responsabilità del mondo intero (idiozie passeggere per fortuna). Tutti che dormono sotto calde lenzuola, persi in sogni lontani, con bave alle bocche e occhi sporchi e appiccicaticci. Io invece in piedi, persa nel freddo del primo mattino, lavata e vestita, con il mondo che mi aspetta. In fondo basta poco per sentirsi delle eroine!
Riempio il piccolo involucro bucherellato, di caffè, e già il profumo mi inebria la mente. Chiudo l’aggeggio di acciaio e accendo il gas. Quel piccolo fuocherello fatto nascere da un semplice clic, mi fa pensare ai nostri sfigati antenati che dovevano passare giornate intere a sfregare su secchi legnetti, prima di poter cuocere qualcosa. Che fortuna essere nati in questi anni.
Il dolce suono che fuoriesce dalla moca mi prepara al magico evento. Apro con delicatezza il coperchietto per vedere meglio quello spettacolo. È come se un vulcano fosse in eruzione e la lava venisse fuori a grandi schizzi. Spengo il gas e guardo la sveglia.
Santa polenta, sono quasi le sei! È tardissimo!
Mi riprendo dalla melodica trama mentale e verso di corsa il caffè nella tazzina. Siccome la fretta è una brutta consigliera e compagnia... sistematicamente, metà del contenuto lo verso sulla cucina e devo subito pulire. Chi la sente poi la brutta copia delle sorelle Kessler! Recupero subito con uno straccetto