Quando in Italia si facevano i computer
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Quando in Italia si facevano i computer - Giorgio Garuzzo
Giorgio Garuzzo
quando in Italia
si facevano i computer
Da Adriano Olivetti a Cuccia e De Benedetti: sviluppo e declino dell’industria italiana dell’informatica elettronica, tra miracolo economico, autunno caldo e crisi, nelle memorie autobiografiche di un uomo d’azienda
Prefazione di Giulio Sapelli
© 2015 - e-book pubblicato in proprio dall’Autore – Distribuzione gratuita
Ove non diversamente indicato, le foto sono riprodotte da Wikipedia o da altri siti internet liberamente accessibili, o in disponibilità dell’Autore.
Realizzazione grafica di Martina Galleri.
In copertina: piastrina portacircuiti universale impiegata nelle apparecchiature di collaudo degli elaboratori elettronici della serie GE 100
Introduzione
di Giulio Sapelli
Dalla Valle Po alla General Electric: per una storia della tecnologia italiana.
Giorgio Garuzzo ci sorprende ancora una volta con un nuovo libro. E’ molto diverso da quel vero e proprio capolavoro che fu il libro sulla Fiat, edito da Fazi e recentemente tradotto in inglese da Springer. Un libro che tutti coloro che amano o che studiano o che lavorano nell’industria dovrebbero leggere. Il fascino di quel libro risiedeva nell’intreccio che l’autore stabiliva tra le vicende proprietarie e manageriali della più grande industria privata mai esistita in Italia e lo sviluppo tecnologico e manageriale dell’industria automobilistica mondiale. Non a caso il titolo di quel libro era: Fiat: i segreti di un’epoca
. Anche in questo nuovo libro l’approccio metodologico a prima vista appare uguale, già dal sottotitolo: Sviluppo e declino dell’industria italiana dei grandi elaboratori elettronici
. Ma qui tutto il libro è percorso da una più intima vena sotterranea che rampolla con pagine freschissime, insieme commoventi ed eloquenti. E’ la vena di un’esperienza personale che questa volta disvela la continua formazione della personalità, in una forma junghiana, per cui tale processo di individuazione dura tutta una vita.
Il racconto inizia secondo i canoni tipici di un romanzo di formazione alla Wilhelm Meister. C’è un giovane che è nato a Paesana nell’alta Valle Po, là dove nasce il Po, e che si laurea in Ingegneria in quella scuola straordinaria che è stata ed è il Politecnico di Torino. E’ un giovane pieno di speranza e che ha il carattere roccioso dei montanari. Siamo nel 1961, quando per un giovane ingegnere che si affacciava alla vita lavorativa trovare un’occupazione era assai più facile di quanto non accada oggi. Ma l’incontro che fa il giovane della Valle Po, che già rivelava doti eccezionali dal punto di vista della capacità intellettuale e della fermezza del carattere, è un incontro per molti versi sconvolgente. Il colloquio d’assunzione si svolge in forma inconsueta. Colui che potrebbe decidere del suo destino sta seduto sul tavolo con le gambe penzoloni e le domande che gli rivolge sono relative a come occupa il suo tempo libero per capire se ha amore per la cultura o se è soltanto un semplice laureato in ingegneria anche se con voti brillantissimi. Il giorno dopo eccolo nel pieno dell’innovazione tecnologica che quel signore con le gambe penzoloni in certa qual forma rappresentava. Eccolo nel cuore della magica Olivetti dove, pochi mesi prima a distanza di poco l’uno dell’altro, erano morti sia Adriano Olivetti sia il famosissimo e misterioso ingegner Tchou, geniale creatore dell’informatica moderna. L’autore confessa nel libro di averli amati senza averli mai conosciuti. Io posso dire lo stesso, pur avendo avuto un’esperienza molto diversa e infinitamente molto meno importante di quella che ha avuto Garuzzo in un’impresa che è stata una meteora fiammeggiante. Non solo nel cielo italiano, come dicono alcuni, ma nel cielo del mondo tutto, perché di cielo ce ne è uno solo. Anche agli antipodi. Garuzzo si pone proprio agli antipodi rispetto alla meteora olivettiana, e questo per due motivi. In primo luogo perché è un tipo umano politically incorrect. Ed è per questo che, anche se ci conosciamo poco, credo che ci vogliamo molto bene. Infatti Garuzzo non ci fa la solita filastrocca degli intellettuali italiani di cui francamente ne abbiamo piene le tasche. Ci fa invece la storia della struttura della produzione che dava vita al plusvalore che la genialità umanistica di Adriano trasformava sia in continuità dell’investimento tecnologico sia in creazione di cultura. Ed è questo che avvince del libro. Il secondo motivo è che in questo libro si parla di transistor e di elaboratori senza annoiare. E come si possa parlare, con grande obiettività e severità, appunto come dice il titolo, della distruzione di una grande impresa dopo la morte del fondatore, delle divisioni nella sua famiglia, dell’ignoranza e della subalternità dell’allora gruppo di comando dell’ industria e della finanza italiana, prone rispetto alla nuova divisione internazionale del lavoro che emergeva dopo la seconda guerra mondiale. Garuzzo descrive tutti questi avvenimenti con nomi e cognomi e quindi si spende in prima persona.
E’ una storia che da storico-generale diviene personale, con pagine sulla General Electric e il managerial style americano, che io credo lasceranno il segno. Il libro si spinge praticamente sino ai giorni nostri. Anche qui Garuzzo parla della sua amata Olivetti forse con meno dettagliata precisione con cui lo ha fatto della sua altrettanto amata Fiat ma la caratteristica stilistica è la stessa. Agli attori che si muovono sul palcoscenico dà nomi e cognomi, ma i nomi e cognomi sono quelli veri. Insomma dice la Sua. E lo fa con passione, disvelando pagine inedite della storia industriale europea non solo italiana. Le più rilevanti sono quelle che riguardano la trasformazione dell’Olivetti in compagnia di telecomunicazione. Devo dire che ho conosciuto gran parte dei personaggi di cui Garuzzo parla. A partire dal signore con le gambe spenzolate dal tavolo che lo assunse per finire con i manager e il Proprietario di cui parla nelle ultime pagine. E dato che come Lui non riesco a dire che un vino è buono, anche se è caro, quando è cattivo, devo affermare in tutta coscienza che gran parte dei giudizi personali che traspaiono in merito agli attori che agiscono sul palcoscenico, ebbene quei giudizi non li condivido, in tutto o in parte. Questo non toglie tuttavia che l‘ordito della trama che Garuzzo fa rivivere sia quello giusto, e che questo libro rappresenti magnificamente quarant’anni di una straordinaria storia italiana. Certo, è la storia di una sconfitta. Ma se una nazione fa scaturire dal suo seno personaggi come Giorgio Garuzzo, ebbene, la speranza non può essere perduta.
Giulio Sapelli
Opere citate nel testo
Bellisario, Marisa
1987, Donna & Manager - La mia vita
, Rizzoli
Beltrami, Ottorino (a cura di Alberto De Macchi e Giovanni Maggia)
2004, Sul ponte di comando dalla Marina Militare alla Olivetti
, Mursia
Betti, Renato
2005, Qui Olivetti ELEA, 1961
, Università Bocconi, reperibile a: http://matematica.unibocconi.it/articoli/qui-olivetti-elea-1961
Bodei, Silvia
2014, Le Corbusier e Olivetti – La usine verte per il centro di calcolo elettronico
, Fondazione Adriano Olivetti, Quodlibet
Bricco, Paolo
2014, L’Olivetti dell’Ingegnere
, Il Mulino
Calogero, Beppe
s.d., Ricordi e aneddoti dei Laboratori di Ricerche Elettroniche Olivetti a Barbaricina di Pisa, a Borgolombardo e a Pregnana milanese
, reperibile a:
http://blog.ubiquity.it/ricordi-e-aneddoti-dei-laboratori-di-ricerche-elettroniche-olivetti-a-barbaricina-di-pisa-a-borgolombardo-e-a-pregnana-milanese/, ed anche a:
http://www.olivettiani.org/dwd/Ricordi%20di%20Beppe%2017x24%20sito.pdf
de Tullio, Jacopo,
2013, Un ricordo di Mario Tchou
, Università Bocconi, reperibile a: http://matematica.unibocconi.it/articoli/un-ritratto-di-mario-tchou
de Tullio, Jacopo e Betti, Renato
s.d., Il polo Olivetti di Preganan Milanese
, reperibile a: http://matematica.unibocconi.it/articoli/il-polo-olivetti-di-pregnana-milanese
Filippazzi, Franco
2008, ELEA 9003: storia di una sfida industriale - Gli elaboratori elettronici Olivetti negli anni 1950-1960
, Università di Udine, 2008, reperibile a: http://www.scribd.com/doc/16394680/filippazzi-08 e http://nid.dimi.uniud.it/history/papers/elea.pdf
Fubini, Simone
2015, Oltre le occasioni perdute
, Egea
GE 115 – System Software
reperibile a:
http://archive.computerhistory.org/resources/text/GE/GE.GE115SystemSoftware.1967.102646096
Garuzzo, Giorgio
2006, Fiat - I segreti di un’epoca
, Fazi (traduzione inglese: Fiat, The Secrets of an Epoch
, Springer, 2014)
Giudici, Giovanni
1998, Ivrea: l’utopia dell’ingegner Adriano
, reperibile a: http://matematica.unibocconi.it/articoli/ivrea-lutopia-dellingegner-adriano
Maestrini, Piero
s.d., La calcolatrice elettronica pisana (CEP)
, reperibile a: projects.cli.di.unipi.it/Macchina_Ridotta/doc/StoriaDellaCEP.pdf
NRG
a cura di Novara Francesco, Rozzi Renato e Garruccio Roberta, Uomini e lavoro alla Olivetti
, Bruno Mondadori, 2005
Perotto, Pier Giorgio
1995, Sperling e Kufer, reperibile a: http://www.piergiorgioperotto.it/libriperotto/programma%20101/pg1.htm
Rao, Giuseppe
(1) 2008, Speciale: Mario Tchou e l’Olivetti Elea 9003
, Storia Informatica, reperibile a:
http://www.storiainformatica.it/olivetti/28-company/olivetti/476-mario-tchou-e-l-olivetti-elea-9003
(2) 2009, Accadde 50 anni fa…
, Università Bocconi, reperibile a: http://matematica.unibocconi.it/articoli/accadde-50-anni-fa
Soria, Lorenzo
1979, Informatica: un’occasione perduta
, Giulio Einaudi Editore
A Giorgio Vittorio e Carlotta Mela
e tutti coloro che verranno dopo di loro,
perché conoscano qualcosa
di quello che accadde prima di loro
Premessa
L’avventura dell’Olivetti nell’informatica elettronica tra gli anni 1950 e 1960 ha suscitato e suscita ancora molta curiosità. La si legge come un’espressione dell’italica capacità di fare cose grandi e nuove, si soffre per la subitanea e prematura scomparsa dei demiurghi Adriano Olivetti e Mario Tchou, si intravvedono trame oscure che culminano nell’abbandono del comparto al momento della sua maturazione, o, più semplicemente, ci si domanda se sarebbe stato possibile che protagonisti diversi da coloro che quell’avventura affossarono avrebbero potuto pilotare l’Olivetti a divenire sin da allora un attore primario sulla scena internazionale nel campo dei mainframe computer, o delle successive diavolerie informatiche quali personal computer, server, tabloid, e così via.
Il mio è un testo autobiografico che rivisita le personali esperienze di un giovane progettista presso il Laboratorio di Ricerche Elettroniche dell’Olivetti nel suo percorso di lavoro e di carriera tra il 1961 e il 1972. Ho cercato di inserire quei momenti soggettivi in un contesto più vasto, sforzandomi di dare un senso alla sequenza degli eventi vissuti, in modo da fornire al lettore un percorso storico
che si snoda dagli inizi della mitica fondazione di Adriano Olivetti a Barbaricina nelle vicinanze di Pisa, al suo trasferimento a Borgolombardo e poi a Pregnana Milanese, alla cessione (forzata) alla General Electric, sino all’insuccesso di quest’ultima in casa propria in America che ne provocò l’abbandono finale nelle mani della Honeywell. In questo coacervo non mi sono tirato indietro nel dare un’opinione su coloro che nel bene e nel male influenzarono il corso degli eventi, quindi parlo di Adriano Olivetti e di Mario Tchou ma anche dei personaggi del cosiddetto Gruppo di Intervento
del 1964, e poi dei miei capi e dei miei colleghi. E, con la competenza che mi deriva dall’aver vissuto le cose dall’interno, mi arrischio persino a dare un giudizio su ciò che avrebbe potuto essere, e non fu.
In primo piano nella mia storia stanno i ricercatori ed i progettisti che parteciparono al gruppo di reserch and development (R&D) più poderoso che l’Italia abbia mai avuto in campo elettronico, e forse in assoluto, e le macchine che costoro idearono, e costruirono, e misero sul mercato: le Elea 9003 e 6001, le GE 115 e 130 e la Programma 101. Ho proposto altrove1 che nel nostro Paese si dovrebbe istituire una hall of fame a memoria delle sue grandi intraprese ingegneristiche, e tra queste i nomi di quei computer avrebbero sicuramente un posto d’onore, anche se non mi illudo che le straordinarie realizzazioni del passato possano muovere a commozione gli sminuiti epigoni d’oggi.
Come per ogni fenomeno umano, anche gli eventi dell’industria sono da porsi nel quadro più generale dei tempi in cui questi avvennero: l’informatica elettronica italiana si snoda tra l’età eroica dell’industrializzazione del Paese e delle migrazioni di massa dal sud, dalle campagne e dalle montagne negli anni 1950, il cosiddetto miracolo economico
, ed il periodo di sommovimenti dell’ autunno caldo
nel 1969. Avendo vissuti entrambi i momenti sulla mia pelle non ho potuto fare a meno di porli a sfondo della mia narrazione.
Il libro si conclude con un salto generazionale, un epilogo vissuto molti anni dopo, nel 1996, per mia scelta nobile ma sfortunata, negli ultimi convulsi giorni dell’esistenza della Casa di Ivrea, una fine ingloriosa per quella che era stata nel dopoguerra, ai miei occhi come a giudizio di molti, la più prestigiosa Azienda italiana.
La struttura del racconto si adegua, metodologicamente, a quanto ho scritto anni or sono nel mio libro autobiografico sulla Fiat tra il 1976 e il 19962:
Mi rendo conto che le diverse materie (temi scottanti
condizione di lavoro e di vita dei manager delle grandi aziende in Italia e questa lacuna fa sì che fatti, persone e complessi di enorme importanza per il Paese siano quasi sconosciuti, salvo che ai pochi che ne hanno avuto conoscenza diretta. Da tale punto di vista d’insieme penso che sarebbe un arricchimento per la cultura italiana se i dirigenti o i lavoratori raccontassero più frequentemente le loro personali esperienze, come avviene nei paesi di tradizione industriale anglosassone.
In Fiat, però, fui molto vicino al top management sin dal mio arrivo, ed ho potuto raccontare le vicende di prima mano, attenendomi al principio di riportare fatti che avevo vissuto di persona o che mi erano stati riferiti al momento dai protagonisti. Non così in Olivetti, dove entrai come ingegnere progettista appena laureato, o in General Electric, dove cercai di darmi da fare nei termini più operativi possibili, in entrambi gli ambienti non ammesso alla diretta conoscenza delle cose segrete: per dare un senso logico al racconto, ho quindi riportato, per sintesi, notizie desunte da fonti già disponibili in libri o in internet, il più possibile appoggiate da testimonianze di chi c’era. Inoltre, a differenza dai miei anni trascorsi in Fiat, ho conservato pochi documenti e nessun appunto di allora: i miei racconti devono poggiarsi sui ricordi e mi scuso se qualcuno potrà trovarvi lacune o inesattezze.
Non nascondo che nel pubblicare questo testo ho l’intento di ricavare dalle note autobiografiche una didattica, ovviamente diretta ai giovani d’oggi. Se qualcuno di loro avrà la pazienza di leggerlo potrà forse rendersi conto che, al di là dei cambiamenti tecnici avvenuti in oltre mezzo secolo (un esempio gigantesco: la capacità di memoria o di elaborazione dei computer), i problemi della gestione dell’industria come del sociale
permangano sempre gli stessi, e come ci sia una responsabilità precisa da parte dei membri dell’oligarchia dominante (di ogni tipo: finanziaria, sindacale, mediatica, giudiziaria, politica, ecc.), che trascende le incombenze specifiche e momentanee di ognuno, la cui violazione può forse portare ad arricchimento o notorietà o potere personale (dei ricchi come dei meno ricchi, dei noti come dei meno noti, dei potenti come dei meno potenti) ma con un prezzo pesante a carico della collettività. Forse una rilettura senza pregiudizi ideologici della storia dell’Olivetti (come di altre disavventure dell’industria italiana) può aiutare a rispondere ad una domanda epocale: quando mi laureai, nel 1961, ricevetti due dozzine di offerte di lavoro, senza sollecitarle; oggi la disoccupazione giovanile è terribile, anche per i neo-laureati; perché?
Cap. 1 - Miracolo economico e primo impiego (1961-1962)
Una selezione inusuale
Dopo la laurea in ingegneria elettronica del 23 novembre 1961 mi arrivarono per posta senza che ne avessi fatto richiesta due dozzine di offerte di lavoro, tra cui quelle di Montecatini, Edison, Stipel, Pirelli, Falk, IBM e Finsider: era una cosa normale, allora, per poco che uno uscisse dalla scuola nei tempi giusti con una ragionevole votazione3. Me la presi comoda un paio di mesi per valutarle. Incontrai qualche pretendente ma non mi presentai a Fiat che godeva di cattiva stampa tra i giovani tanto da essere stata costretta ad aumentare il primo stipendio di un ingegnere da 60.000 lire al mese a 90.000 per non prendersi solo gli scarti: Non mi vedranno mai in quel posto di meccanici intruppati
dissi agli amici. Già in allora l’immagine pubblica di Fiat non era delle migliori, come accertai vent’anni dopo4: il destino avrebbe provveduto a fare giustizia della mia giovanile presunzione. Qualche selezionatore insensibile alla mia eloquente storia scolastica mi propose test tecnici che non gradii per la loro superficiale frettolosità; quello dell’ENI incappò in un infortunio perché mi propose una domanda su qualcosa che era collegato alla mia tesi di laurea: ne sapevo molto più di lui e lo subissai; si riscattò mandandomi contemporaneamente due lettere di assunzione, una per la casa madre e l’altra per l’Agip.
Di Olivetti mi innamorai a prima vista. Il giovane selezionatore, Riccardo Felicioli, mi ricevette in un ufficio all’ammezzato di piazza CLN a Torino di fronte alle statue fluviali del Po e della Dora, si sedette sulla scrivania spenzolando le gambe, mi guardò fisso e mi chiese: Ma lei la domenica cosa fa?
e poi Cosa legge di solito?
. La politica che Adriano Olivetti aveva impostato per il personale richiedeva esplicitamente che i neo-laureati selezionati coltivassero interessi extraprofessionali per non essere soltanto aridi tecnocrati5. Ci inoltrammo in qualche erudita discussione poi mi mise un braccio sulle spalle e mi disse, sicuro di sé: Lei va bene per Borgolombardo, con i progettisti dell’Elea, il nuovo grande calcolatore elettronico. Lo stipendio per il primo impiego è di 120.000 lire al mese. L’aspetto domani ad Ivrea
. Il giorno dopo avevo passato la visita al centro medico, la cui funzionalità ed eleganza mi impressionarono. La decisione era presa e potevo confermarla al gran capo del personale, Nicola Tufarelli, che firmò la mia lettera di assunzione. Lo avrei ritrovato in