Per Libri e per Biblioteche: scritti di bibliografia
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a cura, e con uno scritto, di massimo gatta
Per leggere, Dioguardi deve viaggiare perché per andare dal noto all'ignoto ci vuole tempo, e il viaggio è il modo migliore di avere tempo da perdere.
Insomma, comunque li guardiate, anche questi saggi sovente svagati, vivono sotto l'insegna di un movimento continuo, e se pensavate che l'amatore dei libri di pregio fosse qualcuno che sta seduto in ombrose biblioteche, eccone invece qui uno che scutrettola e va a zig zag per i boschi del sapere come uno scoiattolo.
Insomma, non dirò che Dioguardi sia un lettore con la sindrome della restlessleg, ma certamente il suo modo di leggere è manifestazione di energia.
dalla premessa di Umberto Eco
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Per Libri e per Biblioteche - Gianfranco Dioguardi
d’Hadrien
premessa
di umberto eco
C’è una vecchia storiella in cui appaiono un gesuita e un domenicano che stanno facendo entrambi gli esercizi spirituali e passeggiano recitando il breviario. Il gesuita fuma beatamente e il domenicano gli ricorda che è proibito. «No, gli risponde il gesuita, io ho chiesto il permesso al direttore degli esercizi». Il domenicano reagisce dicendo che anche lui lo aveva chiesto, ma gli era stato negato. Allora il gesuita gli chiede di ripetere che cosa aveva domandato al direttore: «Ho domandato se posso fumare mentre prego, risponde il domenicano, e quello ha gridato che quando si prega non ci si può perdere in attività peccaminose!».
«Ma tu non dovevi chiedere se potevi fumare quando preghi, bensì se potevi pregare mentre fumi. E ti avrebbe risposto, come ha fatto con me, che qualsiasi momento è buono per pregare».
Mi accorgo che sono più contorto di un gesuita, perché dovrei dire che questa storia mi è venuta in mente mentre leggevo le pagine di Dioguardi che sto presentando, ed invece è che leggendo queste pagine ne sono venute in mente altre, sempre di Dioguardi, ed è ripensando a quelle e all’impressione che avevo provato leggendole la prima volta, che mi è di colpo tornata in mente la storiella dei due devoti fumatori. Sto pensando a Viaggio nella mente barocca. Baltasar Gracián ovvero le astuzie dell’astuzia, che Gianfranco Dioguardi aveva pubblicato nel 1986 presso Sellerio. E siccome questo libro di quattrocentocinquanta pagine è tutto una dotta e spessissimo eruditissima riflessione su Gracián, mi aveva colpito sin dall’inizio che l’autore, invece di ricostruire vita e opere del suo autore, ricostruisse i momenti in cui aveva disordinatamente scoperto e l’autore e le sue opere, talché il volume iniziava con un salto dalla sede dell’Alitalia a Boston alla Public Library, poi le riflessioni su Gracián si arrestavano a causa di un atterraggio a New York, quindi la storia riprendeva a Los Angeles, e insomma un serio accademico avrebbe potuto chiedersi, come il domenicano della barzelletta, chi avesse autorizzato Dioguardi a interrompere uno studio sulla mente barocca (che è già cosa complicata di suo) con irrilevanti riflessioni personali sui suoi viaggi ed atterraggi, o sulle noie che gli era costato ottenere la tal copia.
Ma candidamente Dioguardi avrebbe potuto rispondere, come il gesuita, che lui non era un erudito che perdeva tempo a viaggiare, bensì un viaggiatore che guadagnava tempo erudendosi tra una sala d’attesa e un decollo, e che quindi non aveva insipidito le pagine di un trattato con pettegolezzi turistici bensì insaporito le pagine del suo Moleskine con altre riflessioni accademiche. Così infatti pare Dioguardi, un signore che ha per scrivania vari aeroporti. Difatto gli amici non hanno mai capito dove abiti, se a Bari, a Parigi, a Milano o dove altro mai; e la domanda non è drammatica per quanto riguarda la sua scrittura, perché davvero si può scrivere dovunque, ma per quanto riguarda il luogo misterioso in cui tiene i suoi tesori di collezionista librario, che certo non possono stare al Lost and Found di Timbuctu o di Bahia Blanca.
Si ha l’impressione che Dioguardi, se non si muovesse così di frequente, non leggerebbe, così che i suoi diari di lettura sono sempre anche diari di viaggio. E per non farla troppo lunga, e anche perché chi ha ricevuto l’incarico di scrivere la prefazione a QUESTO libro che avete tra le mani è a QUESTO che deve scriverla e non a un altro, basterebbe qui aprire il capitolo «Nei sentieri inusuali della mia biblioteca» per capire quanto valga per Dioguardi la metafora del viaggio: per trovare un libro in casa egli deve muoversi come se lo cercasse tra una stazione e un albergo ‑ e d’altra parte il viaggio intorno alla propria camera è topos letterario già collaudato.
Talora il viaggio non è spaziale bensì temporale, come accade nella rivisitazione che fa delle sue letture infantili, ma nell’Omaggio a Sciascia il nostro autore mette subito in chiaro quale sia il suo kantismo nativo quanto alle sue intuizioni pure, spazio e tempo: la vita altro non è che un viaggio che si svolge nel tempo, e subito dopo la metafora del viaggio viene ripresa in senso lato, come movimento da uno stato conosciuto a un altro sconosciuto, e non può non venire in mente al lettore che se questo vale per il viaggio nello spazio esso vale anche per quel viaggio dal noto all’ignoto che è la lettura (e ogni processo di acquisizione di conoscenza).
Per leggere, Dioguardi deve viaggiare perché per andare dal noto all’ignoto ci vuole tempo, e il viaggio è il modo migliore di avere tempo da perdere.
Insomma, comunque li guardiate, anche questi saggi, sovente svagati, vivono sotto l’insegna di un movimento continuo, e se pensavate che l’amatore dei libri di pregio fosse qualcuno che sta seduto in ombrose biblioteche, eccone invece qui uno che scutrettola e va a zig zag per i boschi del sapere come uno scoiattolo. Insomma, non dirò che Dioguardi sia un lettore con la sindrome della restless leg, ma certamente il suo modo di leggere è manifestazione di energia.
viaggio fra i libri
Verso Utopia
Eccomi di nuovo a preparare il viaggio, a costruirne il programma cercando di confrontarmi con l’ignoto futuro per tentare di contenerne al minimo gli imprevisti. Questa volta mi dirigerò verso i territori sconfinati di Utopia cercando di materializzarne gli aspetti. Cercherò dunque di rendere tangibili Le città invisibili che su di essi si erigono, così perfettamente disegnate da Italo Calvino. Mi procurerò l’atlante per identificarne le connotazioni: L’atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. [...] Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere
. Così come ricordava proprio Calvino che suggeriva di rendere palese la invisibilità delle sue città sulla base della ipotesi che ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono
. Andrò alla ricerca della città che non si cancella dalla mente (perché) è come un’armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare
. Mi soffermerò anche a immaginare una mia propria città, magari che assomigli ad Ottavia
, la città rete, anzi la città-ragnatela
così descritta da Calvino: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto. [...] Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge
.
O forse, più probabilmente, viaggerò verso vere e proprie isole che possano interpretare il concetto di Utopia come lo immaginava Tommaso Campanella (1568-1639) quando ipotizzava di attuare la migliore forma di governo nella sua Città del Sole che sottotitolava Cioè Dialogo di Repubblica nel quale si dimostra l’idea di riforma della Repubblica Cristiana conforme alla promessa da Dio fatta alle sante Caterina et Brigida. Saggio questo, che fu scritto in italiano in due stesure (del 1602 e del 1611) e in latino in almeno altre due redazioni (del 1613 e del 1631), ma che fu pubblicato in latino a Francoforte nel 1623 e in traduzione italiana soltanto nel 1836.
Magari sceglierò la più classica Utopia, quella che Thomas More, ovvero Tommaso Moro (1478-1535), aveva ideato fin dal 1516 in un immaginoso disegno organizzativo. L’aveva chiamata Utopia, ovvero città che non esiste, e nel saluto introduttivo indirizzato a Pieter Gilles, esprimeva la coscienza che il suo discorso si sarebbe rivolto a persone che in genere lo avrebbero lasciato inascoltato:
Sono così diversi i gusti della gente, così bizzarri i caratteri di certuni, così astiosi gli animi, così assurdii giudizi, che quanti si abbandonano con ridanciana leggerezza al loro estro finiscono per non ricevere accoglienze granché peggiori di coloro che si consumano per dare in luce qualcosa che possa tornare utile o gradevole agli altri, che pur non mostrano né interesse, né gratitudine. I più mancano di cultura, molti la disprezzano. Il barbaro respinge come intollerabile tutto ciò che non sa di assoluta barbarie. I saccenti disprezzano come volgare tutto ciò che non brulica di termini in disuso. Taluni apprezzano solo quello che è antico, i più soltanto le cose proprie.
In quel libro, fra l’altro, Moro faceva emergere una scienza nuova che riguarda i problemi urbani e in particolare la necessità di attuare una manutenzione programmata per la conservazione degli edifici della città. In termini straordinariamente attuali il filosofo così scriveva:
In primo luogo, la costruzione o la manutenzione dei fabbricati richiede dappertutto un impiego così massiccio e continuo di mano d’opera, perché l’erede imprevidente lascia andare in rovina a poco a poco quello che suo padre ha edificato, così che il suo successore sarà costretto a rifare daccapo con grossa spesa ciò che egli con una minima avrebbe potuto preservare.
Poi spiegava come il problema fosse stato ben affrontato nell’isola di Utopia
:
Al contrario, presso gli Utopiani, dove tutto è regolato e si tutela il pubblico interesse, accade ben di rado che si destini una nuova area per innalzarvi abitazioni; e non soltanto si provvede sollecitamente a riparare i guasti in atto, ma si prevengono anche quelli che potrebbero succedere. Accade così che, con un minimo di fatica, gli edifici durano lunghissimo tempo e gli addetti a questo genere di lavoro si trovano talvolta senza niente da fare, nel qual caso si ordina loro di sgrossare travi o squadrar pietre standosene a casa, in modo che, se capita l’occasione di fabbricare, l’edificio venga sù più in fretta.
Dunque, secondo la concezione di Tommaso Moro, la manutenzione da programmare era un aspetto fondamentale per realizzare Utopia e con essa la corretta gestione della città.
Alle prese con la destinazione del mio percorso mi sforzo di razionalizzare il futuro, ma sono al tempo stesso convinto che il meraviglioso
del viaggio sta proprio in quel dover affrontare l’ignoto che sempre porta con sé la certezza dell’imprevedibile. Mi torna alla mente il viaggiatore più celebre, e le sue contraddizioni: Ulisse aveva sempre presente la tranquilla sicurezza di Itaca, meta del ritorno, in contrasto con la turbolenza del suo viaggio che, come racconterà Kavafis in una sua bella poesia, sarà lungo e avventuroso, fertile in avventure e in esperienze
.
Ma mi trovo anche a ripensare a Leonardo Sciascia e al suo Il mare color del vino dove scriveva: Un viaggio è come una rappresentazione dell’esistenza, per sintesi, per contrazione di spazio e tempo; un po’ come il teatro, insomma: e vi si ricreano intensamente, con un fondo di finzione inavvertito, tutti gli elementi, e le ragioni e i rapporti della nostra vita
. Affermazioni che ben definiscono la funzione del viaggio, proponendone la sua valenza spaziale e temporale con il fascino della continua scoperta, con il gusto dell’ancora non conosciuto.
Nell’immaginazione mi si contraggono i tempi del percorso, mentre si dilatano gli spazi allontanando i suoi contorni fino ai confini del mondo, che non so perché io sempre identifico nel Sud di luoghi lontani, così che possano essi stessi interpretare il concetto di Utopia.
Mi vengono in mente le terre ultime dei grandi continenti: il Sud dell’Africa con il Capo di Buona Speranza, così emblematico nel suo nome immaginato per ispirare fiducia, o il tempestoso Capo Horn che guarda la Terra del Fuoco, al confine con la Patagonia estremo lembo dell’Argentina. " La Patagonie qui convienne à mon immense tristesse...", come racconta Blaise Cendrars in una frase posta in epigrafe da Bruce Chatwin al suo In Patagonia, scritto per condividere i viaggi in quei paesi così difficili da raggiungere.
E ritrovo quelle immagini meridionali attraverso il ricordo della bella poesia di Borges, Il Sud, che fa riferimento a tutti i Sud del mondo sovrastati da cieli immensi e luminosi: Aver guardato/ le antiche stelle,/[...]/ quelle luci disperse/ che la mia ignoranza non ha imparato a nominare/ né a ordinare in costellazioni
.
L’emozione che sempre accompagna la preparazione del viaggio si trasforma subito in un’ansia che mi impedisce di pensare in modo razionale e con sufficiente attenzione al futuro, quasi voglia impormi un rito di tipo scaramantico per esorcizzare l’incognito, quell’incognito futuro reso ora ancor più indecifrabile dal mistero che sempre accompagna il viaggio.
Adeguo così il mio comportamento a quello dei marinai di Francesco Algarotti:
I marinai non vogliono che si parli gran fatto del vento, del cammino che si ha a fare; sono pieni di certe loro osservazioni, di ubbie; simili anche in questo a’ giocatori. Gli uni e gli altri vorrebbero pur formarsi delle regole nelle cose più soggette al caso... [1]
A temperare lo stato emozionale interviene la gioia che nasce dalla consapevolezza di apprestarsi a vivere con intensità un pezzo di esistenza grazie alle novità che il viaggio arrecherà, identificando la conoscenza in una sorta di contrazione dello spazio nel tempo, o forse del tempo nello spazio.
Così penso al momento magico della partenza caratterizzato dal commiato, sinonimo di commeare
, che significa permesso di andare
ma anche di tornare. Ed ecco allora che all’ansia del partire si unisce l’aspettativa del ritorno, che conferirà un senso più compiuto al viaggio. Tornare dovrò - almeno lo spero - e sarò allora arricchito di nuove conoscenze, di esperienze tutte da raccontare a chi, con affetto, mi ha saputo e voluto aspettare. I momenti che precedono la partenza si velano sempre di nostalgia e finiscono per riproporre le emozioni - così come le ricordava Dante - che accompagneranno durante il viaggio il calar del sole: Era già l’ora, che volge il disio/ ai navicanti e ’ntenerisce il core
.
Mi appresto dunque ad abbandonare la città che mi ospita e nel momento di partire, qualsiasi mezzo di viaggio possa usare, mi torna in mente la poesia che Ungaretti dedicò al Silenzio: Conosco una città/ che ogni giorno s’empie di sole/ e tutto è rapito in quel momento./ Me ne sono andato una sera./ Nel cuore durava il limio/ delle cicale./ Dal bastimento/ verniciato di bianco/ ho visto/ la mia città sparire/ lasciando/ un poco/ un abbraccio di lumi nell’aria torbida/ sospesi
. È una poesia che mi ripropone la più classica delle partenze, quella fatta per nave tipica di chi è destinato a raggiungere un’isola: una partenza lenta, struggente quanto può esserlo il viaggio per mare. Abitua pian piano alle condizioni nuove, alle nuove terre nelle quali ci si ritroverà. Interpreta, di fatto, ancora il pensiero di Kavafis: Devi augurarti che la strada sia lunga/ che i mattini d’estate siano tanti/ quando nei porti - finalmente, e con gioia -/ toccherai terra
. E così, quel viaggio sembra voler enfatizzare il suggerimento finale del poeta greco "impara una quantità di