Le belle ragazze in fiore
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Le belle ragazze in fiore - Daniela Pavan Verago
Portugallia)
I
Era il ventinove agosto del 1968. La giornata era stata molto calda e solo verso sera s'alzò un po' di vento a rinfrescare l'aria.
Giuliana era uscita con alcuni suoi amici, venuti a trovarla da Torino.
Con Claudio, il suo ex-ragazzo, aveva da poco rotto i rapporti. Era il figlio della signora Wally, la parrucchiera dove lavorava. Non era stato il suo primo ragazzo ma, di certo, la relazione più lunga che avesse mai avuto. Stavano insieme da circa un anno e Claudio era venuto parecchie volte a mangiare a casa nostra. Era un bel ragazzo, statura media, occhi verdi, capelli castani; parlava molto lentamente, dava l'impressione di essere una persona molto sicura di sé e di una certa cultura.
Giuliana lo adorava, ma non facevano che litigare per una stupidaggine qualsiasi, una parola detta a sproposito, una battuta da evitare, una risata sguaiata. Claudio la rimproverava spesso, anche in presenza dei miei genitori. Non l'accettava così com'era, voleva plasmare dalla materia informe la sua donna perfetta. Dava per scontato che mia sorella dovesse cambiare.
In un primo momento lei lo ringraziava delle correzioni e gli diceva sempre come una bambina: «Allora insegnami tu come devo fare».
Poi cominciò a capire che era troppo faticoso stare con Claudio, che sotto molti aspetti non aveva il diritto di chiederle di cambiare, dimenticare, rinunciare. Giuliana era così perché le circostanze, la vita, la sfortuna, la sua famiglia, erano così e lui, nel chiederle di cambiare, avrebbe dovuto avere un po' più di comprensione, di pazienza, di pietà. Forse non era amore. Claudio era innamorato di una bambola, che credeva non avesse né cervello né carattere, da poter trasformare o re-inventare come voleva lui. Invece mia sorella era molto intelligente e si era calata nei panni di una ragazza semplice ma determinata che, pur con la sua scarsa cultura e la sua estrazione sociale, aveva la sua prorompente bellezza e risultava molto affascinante. Lei preferiva definire tutto questo il suo destino.
A minare ulteriormente il loro rapporto c'era stata una futura suocera che lei detestava, e con la quale andava d'accordo solo per far piacere al suo amore.
Una volta rotto il rapporto con Claudio aveva pensato bene di licenziarsi e di dire il fatto suo alla cara signora Wally. Gli amici, con i quali era uscita quella sera d'agosto, erano appunto colleghi di Torino che erano venuti a consolare e informare su alcune nuove proposte di lavoro in città.
C'era la festa del Patrono a Cumiana e stavamo per scendere tutti in piazza a divertirci. Io andai a chiamare Pina e Francesco e uscimmo in compagnia. Mamma restò a casa da sola, come sempre.
Se avesse voluto ce ne saremmo andate insieme alla festa. Le avrei consigliato di mettersi il vestito nuovo che le aveva fatto Giuliana, l'avrei pettinata e persino truccata un po', leggermente.
Ma lei restò ad aspettare papà per recarsi con lui alla festa e ritornare indietro di tanti anni alle feste che facevano nella loro casa di San Donà, con le sue amiche, le sue sorelle, e il suo uomo ancora innamorato. La mia famiglia era emigrata dal Veneto al Piemonte da parecchi anni; mio padre faceva l'operaio alla Nuova Fast di Cumiana. Avevamo affittato ad alcuni parenti la nostra casa a San Donà di Piave e ci eravamo ripromessi di tornare al nostro paese, non appena avessimo avuto i soldi per farlo. Ma il cuore della mamma era rimasto laggiù.
Non aveva voglia di allegria, di confusione, di gioia. Era lontana da noi, sola, divorata dalla certezza di un tradimento.
Un tradimento che sembrava quasi aver voluto, se non provocato lei stessa. Certo, papà era cambiato dopo quel nostro trasferimento, ma lui aveva sofferto molto meno della mamma per quello sconvolgimento, riuscendo anche a trovarsi un nuovo amore: Angela, una sua collega, che lavorava con lui alla Nuova Fast, in un altro reparto vicino al suo.
Ognuno di noi aveva cercato di sopportare il dolore di quella trasferta ricavandosi degli spazi, degli angoli di serenità dove riporre i propri ricordi della vita passata in Veneto. Ricordi dei nonni, delle zie, dei primi amori, che piano piano avremmo scordato, ma che nel tempo ci sarebbero serviti a sopravvivere.
Nel suo angolo papà aveva fatto entrare solo Angela. Mia madre, alla fine, aveva dovuto accettare la realtà che ancora una volta era crudele con lei. Perdendo l'unico amore della sua vita, lei aveva iniziato a sognare, farneticare, impazzire di dolore. Così quella sera restava ad aspettare, bevendo, una persona che sapeva non sarebbe mai arrivata. Io non volevo arrabbiarmi, farla ragionare, pregare come sempre. Volevo divertirmi, non vederla più e per un po' scordarmi di tutto.
C'era una gran folla. Bella gente, vestita bene. La terrazza del bar Centrale era tutta occupata; parecchi miei compagni di scuola erano seduti ai tavoli con le loro famiglie.
La festa stava volgendo al termine: si erano già succeduti diversi giochi, la corsa nei sacchi, la gara di abilità con le carriole, l'albero della cuccagna, quando dall'altoparlante gli organizzatori ci informarono che era in corso, nei giardini pubblici, la selezione per Miss Cumiana. Ci fu letteralmente uno spostamento: un fiume di gente si diresse ai giardini.
Nella pista di pattinaggio era stato allestito un palcoscenico davanti al quale sedeva la giuria composta di donne e uomini del paese che riconobbi anch'io. C'era il farmacista dottor Ferrero, il fruttivendolo, il lattaio, un impiegato delle poste, il vice sindaco con la moglie e alcune signore che abitavano nel nostro condominio, con i relativi mariti.
C'era molta allegria.
Le concorrenti stavano sfilando sul palco tenendo in mano un numero, quando vidi tra di loro camminare impettita Giuliana. Fui presa da una dolcissima sensazione d'orgoglio: era proprio la più bella, ed era mia sorella. Feci un salto di gioia e informai tutti quelli che mi stavano intorno che il numero dieci era mia sorella. Aveva un bel vestitino bianco, che si era cucita lei, un po' scollato, un po' corto, come era di moda, ma dignitoso, non di certo volgare e sfacciato come alcuni vestiti di altre concorrenti. Pina, Francesco e io facemmo un tifo da stadio per lei.
Dopo varie votazioni rimasero in sei.
Le fecero sfilare per l'ultima volta fra gli applausi e gli apprezzamenti, anche pesanti, degli spettatori.
Poi fu chiesto un attimo d'attenzione e di silenzio, e a partire dalla terza classificata iniziarono la premiazione. Vinse Giuliana, la più bella!
Io mi misi a piangere dalla gioia e cercai di farmi strada per andarla ad abbracciare, ma non mi fu possibile. Era felice e piangeva anche lei. Aveva un enorme mazzo di rose rosse in mano e sistemandosi la fascia con la scritta Miss Cumiana 1968, cercava con lo sguardo qualcuno tra la folla: forse me, o papà, o la mamma.
C'ero solo io e la chiamai, gridai forte il suo nome e mi sentì, mi vide. Ci scambiammo un saluto con la mano, e riuscii anche a dirle: «Brava».
Lei mi guardò a lungo e si mise a piangere disperatamente. Per la gioia, pensarono tutti. Invece lei e io sapevamo che era per l'abbandono, la solitudine in cui eravamo costrette a vivere, che ci scendevano quelle lacrime dagli occhi. Tra quel pubblico noi avremmo voluto avere anche i nostri genitori, i nonni, le zie, i compagni di scuola, Giorgio, Giovanni, qualche vicino, qualcuno che ci conoscesse davvero, che ci avesse viste bambine e sapesse veramente chi eravamo. Io tornai subito a casa, per dirlo alla mamma. Giuliana andò a festeggiare al bar vicino con i suoi amici e la gente che la circondava. Poi, ne ero sicura, sarebbe venuta a casa anche lei, con quell'enorme mazzo di rose rosse.
Invece il mio ritorno a casa fu un disastro perché non mi ero resa conto che era tardissimo. Era quasi l'una di notte e non ero mai rientrata così tardi la sera, avevo solo quattordici anni. Ma era una sera speciale.
Se la mamma m'avesse dato la possibilità di spiegare che era stata una bellissima serata, che Giuliana…
Ebbi solo il tempo di vedere la porta di casa aprirsi che sentii arrivarmi addosso un uragano.
Mia madre sembrava impazzita e mi stava massacrando di botte, sulla testa, sulle braccia, la schiena, e calci sulle gambe. Un ceffone lo presi in pieno viso e poi botte, botte, botte. Non ebbi neanche il tempo di chiudermi a riccio, come facevo di solito. Si fermò quando fu stanca ed ebbe finito di inveire contro di me e contro mia sorella.
Perdevo sangue dal naso e dalle labbra, mi sedetti in cucina, tirai fuori dalla tasca un fazzoletto, lo bagnai e cercai di tamponare le ferite. Quando mi chiese dove fosse quella sgualdrina
di mia sorella le dissi che sarebbe arrivata subito. Aggiunsi con un soffio di voce: «Ha vinto il premio di Miss Cumiana; ha pure la fascia con la scritta e un bel mazzo di rose rosse. Non potevamo venire a casa prima, la dovevano premiare».
Subito sembrò non sentirmi perché continuava a parlare da sola e a inveire contro quel gran puttaniere
di mio padre che, pure lui, non era ancora rientrato.
Poi si fermò, non disse più nulla. Mi aveva sentita, o forse no. Mi guardò. Si rese conto solo allora di ciò che mi aveva fatto. Era sicuramente pentita, ma troppo ubriaca e disperata per venirmi vicino e chiedermi scusa.
Non mi chiese scusa. Non lo fece mai.
Se ne andò a letto e fu un buon segno perché così risparmiò le botte a mia sorella.
Ma Giuliana era grande, ormai, sapeva come affrontare nostra madre. Le fermava la mano alzata, a volte rispondeva con insulti ai suoi insulti, o le diceva che si vergognasse di bere a quel modo e di picchiarmi come un cencio. Ma per anni anche lei le aveva prese senza reagire. Per un po' restai ad aspettare Giuliana, sperando che arrivasse prima di papà. Lui non mi aveva mai difesa e i segni delle botte non li vedeva: mia sorella sì, li vedeva e mi consolava, diceva di sopportare, che era solo perché beveva e che forse un giorno tutto sarebbe tornato come una volta.
Il viso mi bruciava. Andai in bagno a rinfrescarmi e, dopo essermi guardata allo specchio, decisi di andare a dormire. Ora la mamma non poteva più rovinare la festa di Giuliana.
Pensai che se mia sorella mi avesse vista ridotta a quel modo, gliela avrei rovinata io la festa.
Andai a letto e m'addormentai quasi subito.
Non la sentii rientrare.
II
L'indomani era tutto passato.
Io non portavo rancore alla mamma, anzi l'amavo come sempre e forse lei amava me.
Giuliana era così orgogliosa di quel titolo di Miss Cumiana e a pranzo ci raccontò le emozioni che aveva provato. Aveva conosciuto, fra l'altro, il signor Fautrero, il venditore di frutta all'ingrosso, che era il proprietario del deposito di mele e pere poco lontano da casa nostra.
Ci disse che le aveva fatto un mucchio di complimenti, come tutti, e che poi era stato proprio lui a volerla accompagnare a casa. Il signor Fautrero io lo conoscevo bene, e a dire il vero non mi era mai piaciuto.
Mamma mi mandava spesso a prendere le mele nel suo deposito, perché erano buone e costavano meno che al negozio di frutta e verdura in centro a Cumiana. In quel capannone, d'inverno, c'era un freddo incredibile e le porte restavano sempre aperte. Oltre al signor Roberto, così si chiamava Fautrero, c'erano due operai: un ragazzino, che forse pagava con qualche cesto di mele, e un vecchio che ugualmente avrà pagato poco, per quello che riusciva a fare. Il fruttivendolo aveva fama di essere avaro.
Gli operai non avevano il compito di vendere al dettaglio alla gente del vicinato, allora mi dicevano di andare a chiamare il signor Roberto a casa sua, distante un centinaio di metri dal deposito.
Suonavo e mi veniva ad aprire la vecchia madre: piccola, magra, curvata in avanti e sempre infreddolita, con scialle e guanti. Era d'autunno e d'inverno, nella stagione delle mele e delle pere, che il capannone restava aperto al pubblico.
La vecchia mi guardava, non salutava mai, e gridava: «Roberto, a je d'gent!». Si voltava e se ne andava via trascinando le gambe. Mi lasciava lì, sulla porta, senza chiedermi nulla.
Subito arrivava lui e molto gentilmente mi veniva a dare la frutta. Era abbastanza alto e magro, capelli biondicci ma quasi pelato, con un viso da adolescente, nonostante avesse ormai, a mio parere, più di quarant'anni.
Era timido e arrossiva per un nonnulla, specialmente quando c'era la signora Novena, che gli chiedeva sempre se era andato a donne la sera prima e quando si decideva a sposarsi. Era di sicuro un buon partito per Giuliana.
Si diceva che fosse molto ricco e che possedesse parecchie case, palazzi e alcuni negozi in centro a Cumiana.
Giuliana ci informò d'aver chiesto al signor Fautrero se le potesse affittare uno di quei negozi a un prezzo accessibile, per mettersi in proprio e aprire una attività di parrucchiera.
Ecco, l'aveva detto.
Mamma fece il gesto d'alzare le mani e disse subito che soldi da buttare loro non ne avevano. Papà si limitò a chiedere quanto voleva d'affitto. Giuliana disse una cifra, e tutti stentammo a crederla tanto era bassa. Aggiunse: «Voi mi dovreste solo anticipare qualcosa per l'arredamento e le prime spese e io, nel giro di pochi mesi, ve li restituirei».
Sentita la cifra e le condizioni anche mia madre sembrò ricredersi. Guardò la figlia e subito capì. Era talmente bella che quel tale cercava senz'altro di compiacerla e facilitarla nella sua impresa per avere qualcosa in cambio.
Pensò anche che forse un uomo più vecchio di lei, e più paziente, l'avrebbe aiutata a maturare.
Con Claudio era finita male perché erano tutti e due tanto immaturi. Giuliana aveva ormai ventitré anni e il signor Fautrero esattamente venti più di lei.
Roberto non mi sembrava il tipo di cui innamorarsi a prima vista, né piacevole da frequentare, né colto, o spendaccione. Non riuscivo a capire perché mia sorella lo pedinasse con tanta assiduità: erano sempre