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Benedicta, la figlia del boia
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Benedicta, la figlia del boia
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Benedicta, la figlia del boia

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About this ebook

Una ragazza bellissima, avvolta in una veste rossa come il fuoco, scalza in un campo di fiori. Sola di fronte a un uomo appena impiccato. È questa la visione che sconvolge la mente del giovane frate Ambrosius, inviato dai suoi superiori in una remota e pericolosa località delle alpi austriache. Quella splendida creatura, il suo nome è Benedicta, deve essere protetta dalle insidie della vita e il giovane Ambrosius non si sottrae alla missione. È la figlia del boia, perseguitata e irrisa da tutti per la professione del padre. Ma l'equilibrio mentale del frate deve combattere con la solitudine e una vocazione sempre più vacillante. Forse anche l'amore per Benedicta, un amore fatale. Splendida favola noir con finale a sorpresa, Benedicta, la figlia del boia è uno degli incubi più affascinanti nati dalla penna di Ambrose Bierce.
LanguageItaliano
Release dateJan 30, 2016
ISBN9788893040310
Benedicta, la figlia del boia
Author

Ambrose Bierce

Ambrose Bierce was an American writer, critic and war veteran. Bierce fought for the Union Army during the American Civil War, eventually rising to the rank of brevet major before resigning from the Army following an 1866 expedition across the Great Plains. Bierce’s harrowing experiences during the Civil War, particularly those at the Battle of Shiloh, shaped a writing career that included editorials, novels, short stories and poetry. Among his most famous works are “An Occurrence at Owl Creek Bridge,” “The Boarded Window,” “Chickamauga,” and What I Saw of Shiloh. While on a tour of Civil-War battlefields in 1913, Bierce is believed to have joined Pancho Villa’s army before disappearing in the chaos of the Mexican Revolution.

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    Benedicta, la figlia del boia - Ambrose Bierce

    Ambrose Bierce Benedicta, la figlia del boia

    1

    Nell’anno del Signore 1680, il primo di maggio, noi, Aegidius, Romanus e Ambrosius, monaci francescani della città di Passau, fummo inviati vicino a Salisburgo, al monastero di Berchtesgaden, su invito dal Padre Superiore. Io, Ambrosius, ero il più giovane dei tre: non avevo ancora compiuto ventidue anni.

    Sapevamo molto bene che il monastero di Berchtesgaden si trovava in una luogo selvaggio e impervio, tra le montagne, coperte da oscure foreste infestate dagli orsi e dagli spiriti maligni. Eravamo tristissimi all’idea di che cosa sarebbe potuto capitarci in un posto così terrificante. Ma il dovere di ogni cristiano è ubbidire alla Chiesa, e così, senza alcuna recriminazione, addirittura contenti, ci inchinammo davanti al volere del nostro beneamato e rispettato Superiore.

    Ricevuta la sua benedizione e dopo avere pregato un’ultima volta nella navata consacrata al Santo Patrono, ci infilammo dei sandali nuovi, sollevammo i cappucci e ci mettemmo in viaggio, accompagnati dagli auguri dei nostri fratelli.

    Eravamo animati da una grande speranza nonostante prevedessimo un viaggio lungo e difficile: ma questa virtù non è solo l’alfa e l’omega di ogni uomo di fede, è anche la forza della gioventù e la consolazione della vecchiaia. Dopo poco tempo, anche per questo, i nostri cuori dimenticarono la tristezza di quell'addio e cominciarono a rallegrarsi davanti allo spettacolo di panorami naturali nuovi e sempre diversi, visioni che ci procuravano la prima reale conoscenza della bellezza del mondo come l'Onnipotente l’ha fatto. L’aria, scintillante e piena di luce, somigliava al mantello della Madonna, il sole brillava come il Sacro Cuore, da cui sgorga ogni luce e ogni vita, e il cielo, sopra le nostre teste, era come un immenso e splendido oratorio sotto il quale ogni filo d’erba, ogni fiore, ogni essere vivente, cantava la grandezza di Dio.

    Passammo tra molti paesi, villaggi e città nel nostro cammino. Erano tutti animati da migliaia di uomini che si affaccendavano nel loro lavoro, una cosa che per noi poveri monaci era uno spettacolo strano, che ci lasciava stupiti e meravigliati.

    I nostri cuori traboccavano di felicità e gratitudine al cospetto di tante chiese che sorgevano davanti a noi, così piene della devozione di tante persone che ci acclamavano e si davano da fare per soddisfare anche la più piccola delle nostre necessità.

    Tutta la Chiesa era ricca e poteva contare su enormi sussidi, cosa che dimostrava che il favore dell’Onnipotente, nostro Signore e Guida, aveva proteso la mano su di lei. I giardini e gli orti dei monasteri erano ben tenuti a testimonianza delle cure continue dei paesani e dei nostri santi fratelli. Era bellissimo sentire le campane suonare a distesa per scandire le ore del giorno. Era proprio come respirare la musica stessa dell’aria mentre la freschezza cristallina del loro suono raggiungeva in bellezza un coro di cherubini che innalzava lodi al Salvatore.

    Dovunque andassimo, ci rivolgevamo al popolo nel nome del nostro Santo Francesco. Da tutte le parti ci accoglievano con grande gioia. Donne e bambini si spintonavano al bordo delle strade e ci avvicinavano per baciarci le mani. Qualcuno avrebbe pensato che non fossimo dei semplici servitori di Dio e degli uomini, ma i signori e i padroni di tutta quella magnifica regione. In ogni caso non permettevamo che il nostro spirito si inorgoglisse, e molto spesso ci impegnavamo in un duro esame di coscienza al fine di non allontanarci dalle regole del nostro Ordine e di peccare contro l’insegnamento del nostro sublime protettore.

    Io, Fratello Ambrosius, devo a questo punto rivelare, vergognandomi e pentendomi, che mi sono lasciato andare a pensieri colpevoli e ben troppo terreni. Ho avuto l’impressione che alcune donne cercassero di baciarmi le mani con più trasporto di quanto non facessero nel baciare quelle dei miei accompagnatori, cosa non possibile perché io ero molto più santo di loro. Sono ancora giovane e inesperto delle cose del mondo, e non ho ancora abbastanza interiorizzato né la paura e né comandamenti di Nostro Signore. Allorché vidi l’errore commesso da quelle donne e quando mi resi conto del modo in cui gli occhi di quelle ragazze indugiavano su di me, mi presi paura, e mi domandai se sarei stato capace di resistere alle tentazioni se mi si fossero presentate. Tremando di paura, ogni tanto mi dicevo che i voti, pregare e le penitenze non bastano per fare un santo. Bisogna avere un cuore così puro da trascurare il minimo accenno di tentazione ignorarlo quasi che non esistesse.

    Eravamo alloggiati nei monasteri durante le nostre soste notturne, luoghi dove eravamo sempre accolti con molte premure. Ci offrivano cibo e bevande in grande quantità, e non appena ci sedevamo a tavola, al posto riservato agli ospiti, i monaci cominciavano a circondarci chiedendo notizie sul mondo esterno. Eravamo privilegiati, avevamo avuto la fantastica possibilità di vedere e conoscere cose meravigliose.

    Quando venivano a sapere dove eravamo diretti, di solito compativano il fatto che eravamo obbligati ad andare a vivere in mezzo a montagne tanto inospitali. Parlavano di ghiacciai senza fine e di montagne innevate, di giganteschi speroni rocciosi, di torrenti impetuosi, di caverne e foreste colme di insidie. Parlavano anche di un lago, così terrificante e misterioso che non ne esisteva un altro uguale in nessuna altra parte della terra. Avevamo bisogno dell'aiuto di Dio.

    Dopo avere lasciato Salisburgo, il quinto giorno di viaggio, contemplammo un paesaggio strano quanto inquietante. Un mare di nuvole enormi, basse, grige e nere si stendeva davanti ai nostri occhi. Fra le nuvole e l’azzurro del cielo si vedeva una seconda volta celeste, di un bianco accecante. Uno spettacolo che ci sorprese molto e ci impaurì. Le nuvole erano come immobili e non riuscimmo a vedere un minimo movimento, anche guardandole per ore. Alla fine del pomeriggio, al tramonto, le nuvole si colorarono di rosso, brillavano e in modo meraviglioso e, alcune di loro, per un momento, sembrarono prendere fuoco.

    Nessuno può capire la nostra sorpresa quando capimmo che non erano nuvole: erano neve e rocce. Si trattava quindi delle montagne delle quali ci avevano così tanto parlato. Quel cielo di un bianco accecante non era altro che la cima innevata di quella catena montuosa che i Luterani dicono di poter spostare con la loro fede. Cosa di cui io dubito fortemente...

    2

    Arrivati all’entrata dello stretto sentiero che portava alle montagne, fummo presi dallo sconforto nel vedere qualcosa che somigliava veramente alla porta dell’inferno. Dietro di noi potevamo vedere quel magnifico paese che avevamo appena attraversato e che ora eravamo obbligati a lasciarci alle spalle per sempre. Davanti a noi solo montagne minacciose, foreste infestate da fantasmi che nascondevano ogni cosa e celavano pericoli per il corpo e l’anima. E mille sentieri, inospitali e selvaggi. Fortificammo i nostri cuori pregando e pronunciando gli anatemi contro gli spiriti maligni. Poi imboccammo quel sentiero nel nome di Dio, preparati a subire qualsiasi sventura ci fosse accaduta.

    Mano a mano che andavamo avanti, sempre con la massima cautela, alberi enormi rallentavano la nostra andatura e un fogliame inestricabile ci nascondeva quasi tutta la luce del giorno.

    Il buio si faceva sempre più fitto, profondo e gelido. Il rumore dei nostri passi e quello delle nostre voci, quando riuscivamo a parlare, veniva amplificato dall'eco che facevano le grandi rocce che fiancheggiavano la strada: era un suono così chiaro e insistente, ripetuto, identico, che facevamo fatica a credere di non essere seguiti da una ciurma di esseri invisibili che si prendevano gioco di noi e si burlavano delle nostre paure e dei nostri timori.

    Ci guardavano passare i grandi uccelli predatori appollaiati nei loro nidi, in cima agli alberi o lungo i dirupi. Ci osservavano con il loro sguardo minaccioso gli avvoltoi e i corvi, animali selvaggi che gracchiavano feroci sopra le nostre teste e che ci facevano gelare il sangue con il loro strepitare. Il nostro pregare non portava ad alcun risultato, non era utile, attirava solo altri volatili che aggiungevano le loro urla al già assordante fracasso.

    Rimanemmo stupiti nel vedere che molti alberi secolari, giganti della foresta, erano stati sradicati e scaraventati in fondo alle colline. Non potemmo che rabbrividire al pensiero della mano che aveva potuto compiere un simile misfatto.

    Di tanto in tanto costeggiavamo profondi precipizi e gli oscuri abissi che si aprivano sotto i nostri piedi erano davvero incredibili da vedere.

    Durante una tempesta fummo quasi accecati dai lampi e storditi dai tuoni, cento volte più forti di quanto avevamo mai sentito fino ad allora. Eravamo così impietriti dalla paura che ci aspettavamo da un momento all’altro di vedere sbucare da una roccia un demone fuggito dall’inferno, oppure spuntare dal bosco un orso inferocito che ci avrebbe impedito di proseguire. Ma quando più avanti ci imbattemmo soltanto in volpi e daini, i nostri timori si placarono. Comprendemmo che il nostro amatissimo Santo non era meno potente fra

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