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Fora me ciamo
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Fora me ciamo

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“Fóra me ciamo” è un’altra divertente raccolta di racconti che Mariano Castello, autore che amiamo accostare al grandissimo Luigi Meneghello, dedica alla sua fanciullezza, vissuta in una Schio campagnola, tanto diversa dalla cittadina in fervente crescita economica dei nostri giorni. Le storie, alcune delle quali già pubblicate sul Giornale di Vicenza, sono spassose, e diventano irresistibili soprattutto nei dialoghi, in cui l’autore dall’uso dell’italiano passa ad efficacissime espressioni dialettali o ad irresistibili strafalcioni, in particolare quando i personaggi si cimentano nel latino delle preghiere (indimenticabile il fia vorusta stua di zia Maria, davanti al quale è impossibile non scoppiare a ridere). Nei racconti di “Fóra me ciamo” non ci sono forzature: il libro offre un magnifico spaccato di una vita che scorre tranquilla, tra casa, scuola, lavoro e vacanza, in un mondo popolato da personaggi che diventano subito indimenticabili e che si muovono e parlano come obbedendo a un canovaccio della commedia dell’arte. Uno splendido affresco di una società fatta di gente operosa ma non frenetica, seria ma capace di divertirsi, rispettosa delle regole ma che non se ne fa sopraffare. E il lettore, ridendo e sorridendo, finirà con il commuoversi pensando a un mondo da rimpiangere non tanto per come era, quanto per il fatto che è passato.
LanguageItaliano
Release dateSep 24, 2014
ISBN9788884497055
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    Fora me ciamo - Mariano Castello

    Farm

    Nota dell’autore

    Le cose di famiglia non bisognava contarle in volta. Guai! Anche se non c’era niente di cui vergognarsi, dovevano restare dentro casa e basta! Mia madre diceva che non le erano mai piaciuti quelli che andavano in giro a squaquarare e, quando che si metteva in tola per magnare, tirava la tenda, perché magari c’era sempre qualcuno che contava quanti bocconi che metteva in bocca e che poi andava in giro a riferire. Quanti bocconi che metteva in bocca erano affari suoi e nessuno doveva saperlo, a parte quelli di casa che però non stavano lì a contarli. Non bisognava mia, ma se proprio proprio si voleva dire qualcosa a qualcuno, intanto bisognava conoscere la persona e poi che non fosse una persona ciacolona. Si parlava all’orecchio sottovoce, ma così sottovoce, che l’altro ogni tanto doveva domandare: Cossa ghetu dito? 

    No posso mia sbecare, parché le xe robe de fameja. Così si aveva l’impressione di dire e non dire, ma più di non dire che dire.

    In questo libretto sono raccolte alcune storie che appartengono alla mia famiglia: le ho fissate sulla carta prima che magari mi salti addosso l’arterio e rimanga anch’io, come è capitato a molti altri, completamente privo di ricordi. Avrei potuto scriverli per me stesso oppure per i miei figli, che qualche volta, per compiacermi, hanno finto di interessarsi ai miei libri. Alla fine, come sempre, li ho scritti per tutti coloro che vorranno leggerli, per quel po’ di vanità che non mi è del tutto estranea. Ma per favore, se vorrete leggere queste storie, leggetele a bassa voce o meglio leggetele solo con gli occhi. Da allora è passato mezzo secolo, ma sono sempre cose di famiglia ed è bene che non si sappiano tanto in giro.

    Anche per il decoro medesimo!

    m.c.

    I

    Mio padre mi spiegava...

    Mio padre mi spiegava come era stata quella volta che, pensando di vincere l’ultima guerra, l’avevamo invece persa (anche se i nostri avevano fatto tanti di quegli atti eroici da non saper neanche quanti). Lo sbaglio era stato di mettersi contro l’America. Mai mettersi contro gli americani mi diceva hai perso prima ancora di cominciare

    Al posto di stare con gli americani, che avremmo vinto, gnanca parlàrghine, siamo andati a infognarci con quel mato di Hitler, bon a ciacolare e basta. E dopo ci siamo messi anche contro la Russia, contro tutti insomma. Mio padre faceva un gesto con la mano come a dire che bisognava essere xo dai sberi. Non avevamo neanche da magnare, no osti; gli altri andavano con l’oroplano e noialtri a pie e ci siamo messi contro il resto del mondo.

    Bauchi dicevo io. "Altro che bauchi! Lo capiva anche un sèmo che non potevamo mica vincere. Per fortuna che quando che abbiamo visto che i mestieri si mettevano male per noialtri e si imbrojavano su, siamo stati svelti a ciamarse fóra e a metterci dalla parte dell’America.

    Tutti erano contenti e facevano festa perché pensavano che la guerra fosse finita; credevano che bastasse dire fóra me ciamo per essere fóra, come quando che se xuga. Sì, va là. E invece è stato allora che sono cominciati i dolori.

    Secondo mio padre Hitler era un imbessile: Te ghe conquistà in poco tempo no so quanti stati, basta no osti, contèntete. Ninte da fare! Aveva quel ciodo in testa di conquistare anche la Russia. Purtroppo in questa guerra contro la Russia ha voluto andare anche l’altro imbessile che avevamo noialtri e magari Hitler gli avrà detto: Varda che bisogna che te vegni anca ti, eh".

    Gnanca parlàrghine gli deve aver risposto il nostro.

    Sai quanti morti?

    Quanti?

    "Mah, non so mica quanti, ma tanti e tanti sono tornati indietro a pie: dalla Russia eh, no da Santorso, dalla Russia sono tornati indietro, sempre camminando, in mezzo alla neve e a un freddo fioldoncàn, con i Russi che ogni tanto gli tiravano dentro, puareti. Qualcuno è tornato mezzo congelato e, io credo, con i piedi mezzi consumati a forza di camminare.

    Ben insomma quando alla fine per fortuna ci siamo chiamati fuori, dicono che Hitler si sia inrabbiato talmente che sembrava un mato da ligare e i tedeschi si sono voltati contro noialtri. Ma che colpa ne avevamo noialtri se Badoglio si era messo con gli Americani? Che se la prendessero con Badoglio no osti, no con noialtri che non avevamo fatto niente. Per noi star sotto i tedeschi o gli americani era tanto compagno, bastava che ci dessero qualcosa da magnare.

    Ben, sai quanti morti hanno fatto i tedeschi che si erano girati contro gli italiani?

    Quanti?

    Mah, mio padre non si ricordava mica quanti, ma devono essere stati tanti che mai.

    Alla fine il Signore ha fatto che la guerra finisse, con i tedeschi che scappavano in Germania con tutto quello che avevano, anche con biciclette senza copertoni, ogni tanto rabaltandosi e prendendo téghe santissime.

    La gente era quasi tutta contenta, a parte i fassistoni, e diceva: Adesso speremo de star chieti par un fià, finché magari no vien su un altro mato e grandessón, che vole andar a fare un’altra guerra. Ma prima o dopo quelle persone lì el Signore le castiga.

    II

    La cosa più difficile era segnare di prima

    La cosa più difficile era segnare di prima, cioè quando arrivava il pallone al volo, dargli subito. Ma saper segnare di prima era anche quello che distigueva il vero xugadore dal bon da gninte.  

    Mio padre giocava mediano di spinta e una volta, sotto porta, aveva toccato di prima un pallone alto: gli era partita una svìrgola che per poco non portava dentro anche il portiere. I compagni avevano detto che era da basi, perché lui non era mica un attaccante, ma appunto un mediano di spinta. Spintonava infatti quando l’arbitro non vedeva e urtonava di gumio per farsi un po’ di largo in mezzo all’area, perché tutti avevano una paura troia di lui e lo marcavano stretto da fargli venir afano. Un mediano di spinta doveva correre avanti con la prima linea e poi correre indietro a aiutare i terzini se gli avversari venivano avanti. Aveva imparato ad andare indrio-culo, correndo con la stessa velocità che se andasse in avanti (come nei cine dei Salesiani quando li mettevano su roversi), perché con l’occhio bisognava sempre tèndare cosa che faceva l’attaccante avversario. Una volta era corso via all’ala destra e nessuno era stato buono a prenderlo e poi aveva tirato un cross per il centravanti che era Camillo Pasini, il quale aveva tentato di battere di prima: sì va là di prima, gli era partita una savatà che aveva mandato il pallone in strada.

    Se non sei buono a dare di prima, dalli di seconda, ignorante gli aveva detto mio padre. Per dare di prima infatti ci voleva tanta e tanta tennica, ma

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