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L'oriente allo specchio
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L'oriente allo specchio

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Nel 1978, quando Edward W. Said pubblicò Orientalismo, una svolta irreversibile modificò i paradigmi delle letterature comparate relativamente alla ricezione dell’“Altro” e dei suoi valori in un diverso sistema culturale. Scopo di Said non era tanto di spiegare cosa fosse il vero Oriente, né di candidarsi quale difensore culturalmente autorevole dell’islàm, ma di dimostrare la stretta connessione tra Potere e Sapere: se era poi vero che l’Occidente aveva elaborato nei secoli, sull’Oriente, una serie di stereotipi al fine d’esercitare ancora meglio il proprio predominio. Muovendo da queste premesse, dopo aver attentamente ricostruito il percorso storico e culturale che portò Said all’elaborazione della sua teoria, nonché l’ambiente d’origine e internazionale in cui quell’esperienza si sviluppò, Silvia Lutzoni, sulla scorta di una documentazione di prima mano talvolta ancora ignota in Italia, con dovizia di date nomi e opere, mostra in questo libro come l’Orientalismo abbia anche condizionato, in un processo di vera e propria autocolonizzazione, la letteratura araba contemporanea stessa, una letteratura criticamente rinunciataria, sensibilissima alle domande del mercato e quasi ansiosa, in certe sue esperienze anche molto celebrate in Occidente come quella di Tahar Ben Jelloun, di rispondere a tutte le aspettative di un lettore non arabo, autorevolmente rassicurandolo nei suoi pregiudizi e nelle sue acritiche certezze.
LanguageItaliano
PublisherSette Città
Release dateSep 27, 2012
ISBN9788878534544
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    L'oriente allo specchio - Silvia Lutzoni

    http://www.settecitta.eu

    INTRODUZIONE

    Non è facile dire che cosa abbia significato la Guerra dei sei giorni del 1967 per gli intellettuali arabi contemporanei. Per comprendere quale fu la portata delle sue conseguenze, basterebbe citare soltanto il termine con cui quella sconfitta viene tuttora definita, ossia come la Naksah, che indica in arabo una ricaduta. La riflessione che ne scaturì investì, infatti, non solo la classe politica, ma innescò un ripensamento del ruolo dell’intellettuale in tutti i paesi arabi, seppur con diversi esiti. Si ricordino soltanto, in proposito, le dichiarazioni di un allora giovane poeta e critico, Adonis, pubblicate dalla rivista libanese al-Ādāb, dove sosteneva che il pensiero arabo aveva sino a quel momento ignorato la realtà araba, che l’intellettuale, dentro quella realtà, non era mai stato un innovatore e non aveva «mai realmente mostrato la propria volontà di trasformare la società fino al punto di mettere in discussione se stesso e la sua identità».¹ Sembra improbabile che un’eco di quel dibattito possa essere giunta fino agli Stati Uniti dove, alla Columbia University, un giovane di origine palestinese, Edward W. Said, da pochi anni insegnava letterature comparate e letteratura inglese. Ma è lecito sostenere che quel conflitto sia stato altrettanto significativo e determinante per gli scritti del giovane studioso. Said aveva studiato prima nelle scuole coloniali del Medio Oriente, e nel 1951 era partito per il Massachusetts, dove avrebbe proseguito i suoi studi: esperienze che ne avrebbero, in un certo senso, obliterato temporaneamente l’identità, se è vero che fu proprio nel 1967 che si ritrovò a dover fare i conti con le sue origini, quando poté osservare il modo in cui la stampa nordamericana mistificava l’immagine degli arabi, mentre appoggiava incondizionatamente Israele. Fu in questo momento che cominciò a elaborare le tesi che avrebbe poi approfondito in Orientalismo,² libro scritto tra il 1975 e il 1976, dove sostiene che, partendo da una distinzione ontologica ed epistemologica tra Oriente e Occidente, si è costruito – in testi poetici, filosofici, economici, filologici e sociologici – un Sapere politico costituito da «l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente»:³ una gestione basata sia su rapporti di forza, sia su fattori culturali. Scopo di Said non era di spiegare cosa fosse il vero Oriente, né di porsi come difensore dell’islàm, ma di dimostrare l’esistenza di una stretta connessione tra Potere e Sapere: l’Occidente aveva, secondo l’intellettuale palestinese, elaborato una serie di nozioni sull’Oriente al fine di esercitare su di esso il proprio predominio.

    Non è difficile ipotizzare che Said si sia trovato a un bivio: si trattava di scegliere se contestare quegli stereotipi di esotismo, arretratezza, mollezza orientale e via dicendo – dimostrandone il carattere eminentemente politico – o di rassegnarsi ad essi, magari conformandosi, come sosteniamo abbiano fatto molti intellettuali arabi. D’altra parte, l’orientalismo era ed è qualcosa di più persistente di una mera collezione di mistificazioni: ragion per cui ha avuto una pesante influenza anche proprio sugli orientali. Ciò che sosterremo in questo libro è che vi siano degli autori arabi che, assimilato questo Sapere orientalista, finiscono per riproporlo nei loro scritti – specificatamente nella narrativa contemporanea – in un modo che è tanto più pericoloso quanto più si consideri il fatto che, appartenendo proprio alla cultura araba, questi scrittori si autorizzano come fonti credibili e autorevoli. Negli ultimi decenni sugli scaffali delle nostre librerie sono così comparsi libri che non smettono di presentarci l’Oriente come luogo supremamente misterioso, dove ogni esperienza sessuale è consentita, affollato di beduini a dorso di cammello o di odalische, quando non di uomini violenti, di terroristi e di donne oppresse e velate. Come non pensare, infatti, soltanto alle copertine dei libri di autori arabi, che immancabilmente ritraggono scene esotiche o donne velate? Il risultato è – e ci pare di poterlo affermare senza incertezze – che la nostra percezione del mondo arabo continua a essere condizionata da un sistema di pregiudizi tali da non favorire un incontro paritario.

    Per dimostrare tale tesi, abbiamo preso in considerazione i libri di autori provenienti da diversi Paesi del mondo arabo – Nord Africa e Medio Oriente – tutti scritti dopo la pubblicazione di Orientalismo. Non si è potuto fare a meno di domandarci se e come questo libro sia stato letto nei Paesi arabi, dove ha avuto diffusione sia in lingua originale che, in arabo, dopo la sua traduzione nel 1981. Ciò che è apparso chiaro è che taluni degli autori presi in esame ne avessero addirittura anticipato le posizioni, salvo rinnegarle, in seguito, con una copiosa produzione letteraria che si caratterizza proprio per l’esotismo spinto fino alle estreme conseguenze. È, infatti, il 1973 quando Tahar Ben Jelloun, autore di origine marocchina, nel suo primo romanzo intitolato Harrouda e ambientato in Marocco, scrive a proposito degli occidentali: «hanno tutti un’intenzione comune: sondare la nostra durata e appropriarsi del nostro desiderio; per questo ci tengono a salvaguardare le nostre peculiarità folkloristiche in una specie di esotismo prefabbricato».⁴ Ben Jelloun è, a nostro parere, il più clamoroso esponente dell’orientalismo arabo nel nostro Paese, e dunque il principale responsabile della folclorizzazione del suo mondo, il più noto e tradotto tra gli arabi in Italia insieme al Premio Nobel Naghib Mahfuz. Se per Said era il Potere a produrre volutamente delle narrazioni che proponevano triti stereotipi a fini politici, crediamo di poter sostenere, per quanto riguarda gli autori arabi, che a dettare questo tipo di narrativa sia, piuttosto, la necessità di adeguarsi, come sostiene l’intellettuale libanese Elias Khouri in un’intervista a noi rilasciata, alle esigenze del mercato editoriale occidentale, che non richiede buona letteratura, ma una letteratura che risponda al bisogno di rassicurazione del lettore.

    NOTA

    Per la traslitterazione dall’arabo si è scelto di utilizzare la forma semplificata per tutti i nomi propri, riportandoli con la stessa trascrizione dei testi in lingue occidentali da cui sono stati citati. Per quanto riguarda titoli di libri e termini arabi, si è ripreso il sistema adottato dalla rivista Oriente Moderno. Un trattino sopra le vocali indica le sillabe lunghe, i punti diacritici sotto alcune consonanti indicano la pronuncia enfatica. Il segno š equivale all’italiano di sciare, t si pronuncia come il th inglese di thing, ğ equivale all’italiano di giro, ġ ha il suono della erre arrotata francese, un apostrofo rovesciato indica il suono gutturale della lettera ‘ayn, un apostrofo normale indica la lettera hamzah. L’articolo al- non è mai assimilato ed è volutamente scritto in minuscolo.

    I

    1 PRIMA DI ORIENTALISMO

    1.1 IL CONTESTO AMERICANO

    Nel 1966 si tenne presso la Johns Hopkins University un convegno intitolato I linguaggi della critica e le scienze umane al quale presero parte, tra gli altri, Jacques Derrida, Jacques Lacan, Roland Barthes e Paul de Man. Il convegno, i cui contributi vennero pubblicati nel 1970 con lo stesso titolo, aprì le porte negli Stati Uniti al post-strutturalismo in tutte le sue varie ramificazioni, con una proliferazione di scuole e movimenti critici che provocò un acceso dibattito al quale seguì una moltiplicazione di teorie letterarie.⁵ Fu questo l’atto concreto che mise definitivamente in crisi il New Criticism, la scuola critica che annoverava tra i suoi maggiori esponenti John Crowe Ransom, Allen Tate e Cleanth Brooks, dove poi confluirono anche T. S. Eliot e Richard Palmer Blackmur, e che aveva dominato la scena letteraria americana dagli anni Quaranta del Novecento. Si ricorda qui il New Criticism, più che come indirizzo metodologico, come movimento che sviluppò una attenzione privilegiata per il close reading nel senso di una lettura ravvicinata dei testi, laddove ad essere propugnata era una nozione feticistica di testo, nella sua radicale autonomia e di letteratura come tipo speciale di linguaggio atto a veicolare un tipo speciale di sapere. In tale prospettiva, i New Critics si trovavano a coltivare un’attenzione al testo in un senso strettamente letterario, chiudendo drasticamente con quelle modalità tipiche di una critica tradizionale che invece, attribuiva grande rilevanza al contesto storico e sociale, alla biografia dell’autore, alle implicazioni morali e filosofiche e a fattori linguistici.

    Già alla fine degli anni Cinquanta, e precisamente nel 1957, però, il New Criticism aveva subito una prima e vigorosa scossa. Fu, infatti, proprio quello l’anno di pubblicazione di Anatomia della critica,⁶ del canadese Northrop Frye, libro dove, seppure se non veniva contestata l’idea di letteratura come linguaggio speciale, si sosteneva però la tesi che ogni narrazione dovesse sempre essere discussa all’interno di una narrazione più ampia. Frye non negava, insomma, l’importanza di un approccio storico, psicologico o filologico ai testi, ma affermava che tale approccio dovesse essere incluso nell’ambito di ciò che definiva «antropologia letteraria». Se citiamo Northrop Frye, il quale con la sua «critica archetipica» implicava un chiaro riferimento alla psicoanalisi di Jung, lo facciamo perché la sua impostazione indica chiaramente la strada su cui si stava incamminando in quel momento la critica letteraria statunitense: innanzitutto quella di un rinnovato interesse per la critica psicanalitica e simbolica – si pensi alle opere di Lionel Trilling, «Freud and Literature»,⁷ pubblicato nel 1940 in The Kenyon Review – che si andò poi a coniugare con il post-strutturalismo. In questa prospettiva di ritorno alla psicanalisi va collocata l’opera di Harold Bloom, outsider della Scuola di Yale, che del poststrutturalismo e decostruzionismo fu la vera fucina, il quale nel 1973 pubblicò L’angoscia dell’influenza,⁸ dove ricorreva a Freud per interpretare la letteratura alla luce del complesso edipico: quando è vero che il poeta è costretto ad un rapporto agonistico con la tradizione, di fatto riformulandola, per raggiungere la propria originalità creativa, superando, appunto, l’angoscia dell’influenza. Harold Bloom, d’altronde, grazie anche al suo notevole interesse per tutta la letteratura romantica, per la mistica antica e la religione, nel segno di una sicura ostilità nei confronti di un’idea del primato della ragione – ostilità che condivideva, anche se in modi diversi, con Northrop Frye e Paul de Man – spianò la strada alle tendenze anti-illuministiche che sarebbero arrivate dalla Francia.

    Nel segno di una certa ansia di aggiornamento, cominciarono così a diffondersi nei dipartimenti di letteratura delle università statunitensi teorie importate dall’Europa come quelle della Scuola di Francoforte, ma anche le teorie lukàcsiane, benjaminiane, la linguistica saussuriana, l’ermeneutica, la fenomenologia husserliana, fino ad arrivare allo strutturalismo e al poststrutturalismo con il pensiero genealogico di Foucault, e alle formulazioni decostruzionistiche di Jacques Derrida e di Paul de Man, anche se il decostruzionismo americano, rispetto a quello francese, si mantenne al riparo da ogni radicalismo politico. Sicché, se i New Critics avevano privilegiato il testo in sé per contemplarne magari la bellezza e i principi di coerenza interna e autonomia, il decostruzionismo lo farà in una direzione esattamente opposta, in vista della dissoluzione. In questo passaggio dagli uni agli altri, la lettura continuava a essere un atto molto ravvicinato, ma finiva per richiedere una vera e propria tecnologia, per una specializzazione che non si limitava più alla critica letteraria, ma si apriva alla psicoanalisi, la filosofia, la linguistica, la fenomenologia.

    La letteratura perdeva così la sua autonomia categoriale specifica per diventare un discorso tra i discorsi. Non sarà inutile aggiungere che, nonostante lo distinguesse l’approccio fortemente tecnicista alla letteratura, all’interno del movimento decostruzionista si fece notare una corrente che, invece, promuoveva letture politicamente informate: con particolare disposizione a partire dagli anni Settanta, quando si cominciò a ragionare sulla letterarietà del testo non all’interno della storia dei generi letterari, o degli stili, ma in quella del mondo. Gli studi anglo-americani, a dir la verità, già negli anni Cinquanta avevano mostrato interessi e preoccupazioni specifici nei riguardi di un discorso sulle Colonie e sull’Impero, sulle minoranze non solo etniche, sulla letteratura di genere, in vista anche della costituzione di un controcanone che contestasse il primato dell’uomo bianco maschio occidentale.⁹ Bisognerà ricordare, però, che questo processo non si avviò da posizioni marxiste: siamo in pieno maccartismo, non dimentichiamolo. Si trattò, invece, di preesistenti premesse nazionaliste: se è vero

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