Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

L'illusione biografica
L'illusione biografica
L'illusione biografica
Ebook242 pages1 hour

L'illusione biografica

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Suddivise in capitoli tematici che sembrano più obbedire ai canoni della sua personalissima estetica che a suddivisioni logiche, le composizioni di Fazìa sono insieme poesie e omaggi alla poesia. Messe sulla carta secondo schemi particolari, con allineamenti alternati a destra e a sinistra che obbligano l’occhio e la mente ad un esercizio cadenzato non troppo diverso da una coreografia, le poesie si dipanano tra ricordi di un estate che “accumula / colline sopra colline nelle periferie/ velate, /quinte lontane e dentro (azzurrine)/ onde meridiane”, accorati ricordi di un casto amore giovanile “Non ti ho mai dato un bacio, / Annì, non siamo stati abituati ai nostri sapori / del corpo” e accurate riflessioni sul confronto “Sulla tua / misuravo al telefono l'idea mia / della vita”... Sono frammenti d’anima felicemente prigionieri di immagini evocate, costruzioni sintattiche ardite, parole che diventano insieme suono e significato.
Eppure L’illusione Biografica è quanto di più lontano da un mero esercizio intellettuale. Anzi, in certe pagine ha più la connotazione di un gioco con le parole, dove si può cogliere una strana ironia, quasi che il poeta veda sempre sé stesso in prospettiva, con l’occhio di un altro, e stia attento dunque, pur nella cura stilistica estrema, a non prendersi troppo sul serio.
LanguageItaliano
Release dateSep 22, 2014
ISBN9788884497000
L'illusione biografica

Read more from Salvatore Fazìa

Related to L'illusione biografica

Related ebooks

Art For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for L'illusione biografica

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    L'illusione biografica - Salvatore Fazìa

    ultime

    dire

    Pensando io a ciò che m'era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l'arte del dire parole per rima… (Dante Alighieri, Vita Nova, cap. III, 1)

    Introduzione

                                                                      "…che l’io osi passare all’attacco per riconquistare

                                                                        ciò che ha perduto"

                                                                        (Freud)

    L’illusione dell’io,

    quest’io da palco, che in questi testi almanacca piccoli calcoli

    poetici, in frangenti sproporzionati

    ai miraggi del caso,

    ha la sua logistica nella stessa scena di realtà

    che la ospita: questa ha natura di un’altra complessità, che l’altra,

    quella dell’io,

    non riconosce. Per questo la specularità

    di questo piccolo sé, una volta riconosciuto - ombelicale alla situazione

    e frazionario nei tempi della sua stessa vertenza -

    incontra quinte di uno schermo,

    disarticolate e precarie, occasionali. E’ allora che la specularità

    - quando si riconosce nell’unica cosa

    che è in grado di emanare, che è la lingua,

    come superficie di specchio e nella sua azione di rima,

    il senso del suo visto ma imprevisto

    esserci - diventa l’unica forma assunta di riconoscimento e identità,

    il luogo stesso dell’io,

    e, alla fine, l’unica forma di attrazione e passatempo,

    di compagnia,

    e, al di là di questo motivo di conforto,

    intanto – anche - l’unica materia calcolabile come metrica

    della relatività del caso.

    Nessuna ambizione biografica

    e, al contrario, l’abitudine di un essere che dice io

    perché si sente un’isola all’aperto della vita,

    nella rinuncia ad altri patrocini, e si presenta più direttamente

    a giudizio. L’autore sa che una letteratura del genere,

    col suo sentore di luogo, l’orologio regolato sulle diversità dei tempi,

    l’audio aperto alle vociferazioni interiori, potrebbe

    disturbare chi legge, ferirne la coscienza ingenua, ingenuamente

    esposta invece in più direzioni…

    e, secondo le molte voci dell’esistenzialità generica e varia,

    dire io, e soprattutto

    dirlo facendo dipendere tutto l’assunto da una presunta unicità

    differente,

    potrebbe diventare un errore di economia simbolica, come si vede,

    prima ancora che di eleganza civile, al cospetto di una normale

    educazione di convivenza.

    Così, in linea di principio, non si dovrebbe pretendere

    l’attenzione degli altri ad un’epopea

    dalla casistica bloccata sempre sullo stesso numero civico.

    E, in effetti,

    non è questa la movenza pratica dell’autore,

    o non lo è nella misura in cui, qui, chi dice ‘io’

    lo dice nella modalità di chi, dentro o contro il palco del mondo, è

    in uno stato di isolamento estetico,

    non avendo cosa né posa, e, trovandosi a vivere,

    non ne ha condiviso scena e palinsesto, testo e allegoria,

    e allora, come succede,

    va almanaccando frammenti di vita, pezzi di memoria e circostanze

    ricostruite,

    non senza l’ausilio di certi mezzi

    che una civiltà ingegnosa e benigna ormai da tempo

    presta e fornisce per la cerimonia letteraria. Anche se, poi, si capisce

    che, in casi del genere,

    più si dice ‘io’ più si va a segno,

    essendo questo il miglior modo possibile di avvicinare

    la fabula alta di una storia poetica alla formula bassa di una cronaca.

    Che poi questo io sia proprio io,

    e che io sia questo caso,

    è un tutt’uno generico, pronominale e basta, essendo questo

    il gioco da sostenere, e, fin dall’inizio,

    dicendo ‘io’ per dire l’uno o l’altro, e ognuno. Essendo stato vero che

    dovevo, vivendo,

    parlarmi, e così ho fatto, dandomi dell’io, e così,

    scrivendo, ho continuato a fare. Bastando continuare, bastando dire

    e dicendomi:

    - «vissuto in mezzo alle frasi che venivo formando, e loro tramite,

    tenendomi sempre compagnia in ogni piega della vita,

    perché non approfittare e mettermi in proprio

    nell’evenienza anche della mess’in scena poetica, e ciò

    al solo scopo pratico che è l’io quanto ne resta?». Non è stato meglio, allora, e dopo tutto,

    dire: "ho visto questo e quest’altro, sono stato qui e là,

    ho pensato questo e quest’altro?" senza fingere

    il solito gioco di società, di versi e invenzioni letterarie, un altro,

    l’ennesimo, e - al posto della dichiarazione di verità -

    simulare

    l’ennesima opera d’arte che sapesse d’opera d’arte,

    inventata per un altro gioco di prestigio,

    sullo sballo della terza carta

    o nel tiro di un altro giro - tra puntate e sfide al destino,

    e un colpo ai dadi, relegando i lettori a fare semplicemente i lettori,

    gli astanti o i passanti,

    senza farsi prendere sul serio, perché così, giocando, la cosa

    resta un po’ tra parentesi - e allora è più bello?

    Io, poi, che dovevo comunicare che è stato proprio vero,

    dato che il primo a restarne male

    è stato il mio piccolo io, e con me è stato poi, dopo, e a suo tempo, il sé

    d’autore?

    Che d’altra parte il gioco lo fa per quel tanto che conta,

    ma tenendo conto di farlo o tentando di farlo

    a carte scoperte, mostrando sia come si fa sia come non si fa,

    perché è così che si rischia, c’è della posta in gioco, la si mostra,

    e può essere anche più bello. E dato che dovevo, allora – scrivendo -

    parlarmi, come facevo vivendo,

    e solo cantando un pò, qui e là, per via della distanza

    dalle cose, galleggiando (come) su di me e standone in superficie,

    sulla punta della lingua,

    ormai scoperto

    e alla vista di questa parola appariscente e occhiuta

    dell’io.

    Non pensando, non passando ad altro,

    al posto mio, e intanto, usando il pronome - così, come fossi

    in pro di un altro -

    mi faccio allora vivo,

    e sulla scena, stando in parola a un’estetica del piano di sotto,

    dove ho vissuto con gli altri e i loro pronomi,

    vivo ancora come fossi proprio io o un altro, e che solo la parola ‘io’

    può in qualche modo evocare, rimettere al mondo, in trasfigurazione

    e proprio contro il nome - abolendomi.

    Sono stato presto, infatti, infatuato, un trasfigurato,

    e, non avendo natura realistica, mi sono vissuto presto a parole,

    trovando nella grammatica questa opportunità di esserci

    senza nominarmi.

    In copertina, magari, meglio figurando come Io l’autore,

    e come titolo dicendomi:

    Adora il linguaggio, e perdona,

    che vuol dire: stai sul miraggio delle parole che pensi, il resto

    dimenticalo…

    - e D: perché allora hai scritto questo libro? -

    - R: valendomi di un solo diritto, quello di parte lesa

    che si fa sotto a chiedere versi come fossero cifre di un risarcimento -.

    Non è meno grave farsi sotto

    e denunciare l’incidente di un’esistenza che ha le proprie relazioni,

    di tempo, di luogo e di azione, ne osserva le leggi

    ma non le comprende, perché non c’è ritorno né mediazione:

    in un’estetica poi che ne ha vissuto tutta la meraviglia locale e oraria,

    ma i cui soli significati

    sono quelli che si riassumono adesso nelle cose cantate

    e nelle pose dei versi?

    Nella situazione alla fine di una familiarità desiderata (come)

    e di cui resta, a segno, il pronome come fosse

    il nomignolo d’un’infanzia

    vissuta in mezzo a leggende e altre ammirazioni

    che la vita per tradizione ha sempre alimentato? È così che l’io,

    affetto d’esistere,

    ha sperimentato da una parte l’infatuazione di esserci,

    - e, dunque, nessuna riduzione -

    dall’altra la scena di una fatalità non solo ideale, provando in proprio

    l’ingiustizia della relazione e il suo incidente. Quest’io,

    che ha sognato la sua apparizione e, con essa,

    i giochi recitativi e allusivi

    della sua stessa appariscenza, assieme alla natura, alla cultura,

    le scenografie interne della vita, e, in vista, i dettagli dello spettacolo,

    i giochi di società,

    le offerte continue… i giorni feriali e quelli della festa.

    Nello stesso tempo che l’umanità - precipitando

    nella vertigine dei suoi movimenti a spirale e in quell’abisso di artigli e

    tranelli

    che è la società -

    inventava per se stessa,

    evolvendo

    il labirinto caotico di una favola a perdere,

    di cui alla fine, se è vero, non c’è che l’io a restare,

    e a giocare, parlando,

    la parte del giocatore funambolo – e al solito - del trepidante solitario.

    sud

    Giocavo 

    alla mia disorientata divinità fin dalla mia incantata

    presentazione al tempio

    e poi, quando, per esempio, camminavo

    sugli scogli o in alto mare,

    io mi consacravo alla religione del mio cosmo universale,

    al suo impianto vago

    d’altare surrealista, al rischio d’una vocazione a me allora sconosciuto

    e raro, al mistero amaro inizialmente muto,

    all’oggetto caro

    mai visto, inutilmente misto (mi pareva) al desiderio disperato

    di conquista.

    Scogliera d’alba dentro il mare

    dove sono nato,

    mi pare.

    Non vengo dalla realtà,

    dal suo realismo

    malfamato.

    Dove sono nato io:

    nessuna realtà,

    non c’era

    nessun realismo

    rivelato.

    Non ero mai preparato

    allo spazio a cominciare dalla spiaggia e dall’aria che sostava

    visibile sul mare,

    e io mi ricordo lo strazio

    quando mi mettevo a pensare alla sabbia e alla sua materia elementare:

    vivevo la mia melensa rabbia

    per la lunarità della sua pelle

    rispetto all’acqua, all’aria e a quella densa mia sensualità visionaria.

    Non sapevo ancora

    di prendere passione

    al mio punto di deriva e non trovavo mai lo spunto

    e l’ora dell’adesione

    dato che la riva

    non stava mai ferma, col suo rumore,

    mai in situazione.

    La prima geografia d’arte

    e la mia parte

    di mondo - e drogata la sua scena

    di carta colorata -

    io non vedevo in fondo che la facciata varia di questo profondo

    sogno d’aria

    che mi dava alla testa.

    Sarebbe stata poi la mia festa segreta

    d’ogni giorno,

    quando cercando in quello che mi stava intorno,

    andavo sempre in estasi

    per via del sole, dell’aria, la sua tramontana visionaria.

    Quand’io visitavo il tempio e incontro all’annunciazione 

    entravo presto nella spiaggia,

    la mattina,

    fissavo mesto

    un po’ di luce e l’albumina che m’appariva al centro

    e sopra il mare,

    e, allora, per esempio, fermo al balcone

    della riva (come),

    spiavo dentro l’intenso covo d’aria e (come) in alto

    il senso d’oro

    della vita, in quella forma vaga e varia che ancora mi confonde

    e ancora mi avvita.

    Perdevo coscienza della specie

    la sera d’estate quando muto calcolavo l’esistenza

    vasta del mare,

    e non pensavo mai a quelli di casa mia che non amavo,

    per via d’una anomalia

    che non mi lasciava stare, ed io smaniavo

    a certi sentimenti inquieti e in solitudine,

    nell’ora attiva della festa

    e nella sera, dato che i miei mi lasciavano perdere alla finestra

    dov’ero,

    io che ero solo in fondo e solo dentro il mondo

    e contro il mare,

    e, Dio mio, dicevo,

    allora,

    Dio com’è andata male.

    Non so perché m’identificavo 

    sempre a Cristo,

    da quando non visto, per esempio, mi perdevo sulla spiaggia

    o poi che per la mia saggia

    solitudine mi trovavo un po’ sempre dietro le quinte

    d’una vita randagia,

    ed io vedevo divino

    quel mio stare al mondo e all’infinito orario, io che non aspettavo

    in fondo che il giro vario delle cose

    e guardavo gli altri

    e la scena delle pose, sicuro e quasi in alto e dentro il cielo

    piccolo d’ogni ora.

    Parlavo, allora, misto di storia e di memoria

    e mi cercavo, poi, non visto,

    ancora e sempre in quella gloria di Cristo e nella mia incantata scoria.

    Quand’io vivevo

    con la mia

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1