L'illusione biografica
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Eppure L’illusione Biografica è quanto di più lontano da un mero esercizio intellettuale. Anzi, in certe pagine ha più la connotazione di un gioco con le parole, dove si può cogliere una strana ironia, quasi che il poeta veda sempre sé stesso in prospettiva, con l’occhio di un altro, e stia attento dunque, pur nella cura stilistica estrema, a non prendersi troppo sul serio.
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Anteprima del libro
L'illusione biografica - Salvatore Fazìa
ultime
dire
Pensando io a ciò che m'era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l'arte del dire parole per rima…
(Dante Alighieri, Vita Nova, cap. III, 1)
Introduzione
"…che l’io osi passare all’attacco per riconquistare
ciò che ha perduto"
(Freud)
L’illusione dell’io,
quest’io da palco, che in questi testi almanacca piccoli calcoli
poetici, in frangenti sproporzionati
ai miraggi del caso,
ha la sua logistica nella stessa scena di realtà
che la ospita: questa ha natura di un’altra complessità, che l’altra,
quella dell’io,
non riconosce. Per questo la specularità
di questo piccolo sé, una volta riconosciuto - ombelicale alla situazione
e frazionario nei tempi della sua stessa vertenza -
incontra quinte di uno schermo,
disarticolate e precarie, occasionali. E’ allora che la specularità
- quando si riconosce nell’unica cosa
che è in grado di emanare, che è la lingua,
come superficie di specchio e nella sua azione di rima,
il senso del suo visto ma imprevisto
esserci - diventa l’unica forma assunta di riconoscimento e identità,
il luogo stesso dell’io,
e, alla fine, l’unica forma di attrazione e passatempo,
di compagnia,
e, al di là di questo motivo di conforto,
intanto – anche - l’unica materia calcolabile come metrica
della relatività del caso.
Nessuna ambizione biografica
e, al contrario, l’abitudine di un essere che dice io
perché si sente un’isola all’aperto della vita,
nella rinuncia ad altri patrocini, e si presenta più direttamente
a giudizio. L’autore sa che una letteratura del genere,
col suo sentore di luogo, l’orologio regolato sulle diversità dei tempi,
l’audio aperto alle vociferazioni interiori, potrebbe
disturbare chi legge, ferirne la coscienza ingenua, ingenuamente
esposta invece in più direzioni…
e, secondo le molte voci dell’esistenzialità generica e varia,
dire io, e soprattutto
dirlo facendo dipendere tutto l’assunto da una presunta unicità
differente,
potrebbe diventare un errore di economia simbolica, come si vede,
prima ancora che di eleganza civile, al cospetto di una normale
educazione di convivenza.
Così, in linea di principio, non si dovrebbe pretendere
l’attenzione degli altri ad un’epopea
dalla casistica bloccata sempre sullo stesso numero civico.
E, in effetti,
non è questa la movenza pratica dell’autore,
o non lo è nella misura in cui, qui, chi dice ‘io’
lo dice nella modalità di chi, dentro o contro il palco del mondo, è
in uno stato di isolamento estetico,
non avendo cosa né posa, e, trovandosi a vivere,
non ne ha condiviso scena e palinsesto, testo e allegoria,
e allora, come succede,
va almanaccando frammenti di vita, pezzi di memoria e circostanze
ricostruite,
non senza l’ausilio di certi mezzi
che una civiltà ingegnosa e benigna ormai da tempo
presta e fornisce per la cerimonia letteraria. Anche se, poi, si capisce
che, in casi del genere,
più si dice ‘io’ più si va a segno,
essendo questo il miglior modo possibile di avvicinare
la fabula alta di una storia poetica alla formula bassa di una cronaca.
Che poi questo io sia proprio io,
e che io sia questo caso,
è un tutt’uno generico, pronominale e basta, essendo questo
il gioco da sostenere, e, fin dall’inizio,
dicendo ‘io’ per dire l’uno o l’altro, e ognuno. Essendo stato vero che
dovevo, vivendo,
parlarmi, e così ho fatto, dandomi dell’io, e così,
scrivendo, ho continuato a fare. Bastando continuare, bastando dire
e dicendomi:
- «vissuto in mezzo alle frasi che venivo formando, e loro tramite,
tenendomi sempre compagnia in ogni piega della vita,
perché non approfittare e mettermi in proprio
nell’evenienza anche della mess’in scena poetica, e ciò
al solo scopo pratico che è l’io quanto ne resta?». Non è stato meglio, allora, e dopo tutto,
dire: "ho visto questo e quest’altro, sono stato qui e là,
ho pensato questo e quest’altro?" senza fingere
il solito gioco di società, di versi e invenzioni letterarie, un altro,
l’ennesimo, e - al posto della dichiarazione di verità -
simulare
l’ennesima opera d’arte che sapesse d’opera d’arte,
inventata per un altro gioco di prestigio,
sullo sballo della terza carta
o nel tiro di un altro giro - tra puntate e sfide al destino,
e un colpo ai dadi, relegando i lettori a fare semplicemente i lettori,
gli astanti o i passanti,
senza farsi prendere sul serio, perché così, giocando, la cosa
resta un po’ tra parentesi - e allora è più bello?
Io, poi, che dovevo comunicare che è stato proprio vero,
dato che il primo a restarne male
è stato il mio piccolo io, e con me è stato poi, dopo, e a suo tempo, il sé
d’autore?
Che d’altra parte il gioco lo fa per quel tanto che conta,
ma tenendo conto di farlo o tentando di farlo
a carte scoperte, mostrando sia come si fa sia come non si fa,
perché è così che si rischia, c’è della posta in gioco, la si mostra,
e può essere anche più bello. E dato che dovevo, allora – scrivendo -
parlarmi, come facevo vivendo,
e solo cantando un pò, qui e là, per via della distanza
dalle cose, galleggiando (come) su di me e standone in superficie,
sulla punta della lingua,
ormai scoperto
e alla vista di questa parola appariscente e occhiuta
dell’io.
Non pensando, non passando ad altro,
al posto mio, e intanto, usando il pronome - così, come fossi
in pro di un altro -
mi faccio allora vivo,
e sulla scena, stando in parola a un’estetica del piano di sotto,
dove ho vissuto con gli altri e i loro pronomi,
vivo ancora come fossi proprio io o un altro, e che solo la parola ‘io’
può in qualche modo evocare, rimettere al mondo, in trasfigurazione
e proprio contro il nome - abolendomi.
Sono stato presto, infatti, infatuato, un trasfigurato,
e, non avendo natura realistica, mi sono vissuto presto a parole,
trovando nella grammatica questa opportunità di esserci
senza nominarmi.
In copertina, magari, meglio figurando come Io l’autore,
e come titolo dicendomi:
Adora il linguaggio, e perdona
,
che vuol dire: stai sul miraggio delle parole che pensi, il resto
dimenticalo…
- e D: perché allora hai scritto questo libro? -
- R: valendomi di un solo diritto, quello di parte lesa
che si fa sotto a chiedere versi come fossero cifre di un risarcimento -.
Non è meno grave farsi sotto
e denunciare l’incidente di un’esistenza che ha le proprie relazioni,
di tempo, di luogo e di azione, ne osserva le leggi
ma non le comprende, perché non c’è ritorno né mediazione:
in un’estetica poi che ne ha vissuto tutta la meraviglia locale e oraria,
ma i cui soli significati
sono quelli che si riassumono adesso nelle cose cantate
e nelle pose dei versi?
Nella situazione alla fine di una familiarità desiderata (come)
e di cui resta, a segno, il pronome come fosse
il nomignolo d’un’infanzia
vissuta in mezzo a leggende e altre ammirazioni
che la vita per tradizione ha sempre alimentato? È così che l’io,
affetto d’esistere,
ha sperimentato da una parte l’infatuazione di esserci,
- e, dunque, nessuna riduzione -
dall’altra la scena di una fatalità non solo ideale, provando in proprio
l’ingiustizia della relazione e il suo incidente. Quest’io,
che ha sognato la sua apparizione e, con essa,
i giochi recitativi e allusivi
della sua stessa appariscenza, assieme alla natura, alla cultura,
le scenografie interne della vita, e, in vista, i dettagli dello spettacolo,
i giochi di società,
le offerte continue… i giorni feriali e quelli della festa.
Nello stesso tempo che l’umanità - precipitando
nella vertigine dei suoi movimenti a spirale e in quell’abisso di artigli e
tranelli
che è la società -
inventava per se stessa,
evolvendo
il labirinto caotico di una favola a perdere,
di cui alla fine, se è vero, non c’è che l’io a restare,
e a giocare, parlando,
la parte del giocatore funambolo – e al solito - del trepidante solitario.
sud
Giocavo
alla mia disorientata divinità fin dalla mia incantata
presentazione al tempio
e poi, quando, per esempio, camminavo
sugli scogli o in alto mare,
io mi consacravo alla religione del mio cosmo universale,
al suo impianto vago
d’altare surrealista, al rischio d’una vocazione a me allora sconosciuto
e raro, al mistero amaro inizialmente muto,
all’oggetto caro
mai visto, inutilmente misto (mi pareva) al desiderio disperato
di conquista.
Scogliera d’alba dentro il mare
dove sono nato,
mi pare.
Non vengo dalla realtà,
dal suo realismo
malfamato.
Dove sono nato io:
nessuna realtà,
non c’era
nessun realismo
rivelato.
Non ero mai preparato
allo spazio a cominciare dalla spiaggia e dall’aria che sostava
visibile sul mare,
e io mi ricordo lo strazio
quando mi mettevo a pensare alla sabbia e alla sua materia elementare:
vivevo la mia melensa rabbia
per la lunarità della sua pelle
rispetto all’acqua, all’aria e a quella densa mia sensualità visionaria.
Non sapevo ancora
di prendere passione
al mio punto di deriva e non trovavo mai lo spunto
e l’ora dell’adesione
dato che la riva
non stava mai ferma, col suo rumore,
mai in situazione.
La prima geografia d’arte
e la mia parte
di mondo - e drogata la sua scena
di carta colorata -
io non vedevo in fondo che la facciata varia di questo profondo
sogno d’aria
che mi dava alla testa.
Sarebbe stata poi la mia festa segreta
d’ogni giorno,
quando cercando in quello che mi stava intorno,
andavo sempre in estasi
per via del sole, dell’aria, la sua tramontana visionaria.
Quand’io visitavo il tempio e incontro all’annunciazione
entravo presto nella spiaggia,
la mattina,
fissavo mesto
un po’ di luce e l’albumina che m’appariva al centro
e sopra il mare,
e, allora, per esempio, fermo al balcone
della riva (come),
spiavo dentro l’intenso covo d’aria e (come) in alto
il senso d’oro
della vita, in quella forma vaga e varia che ancora mi confonde
e ancora mi avvita.
Perdevo coscienza della specie
la sera d’estate quando muto calcolavo l’esistenza
vasta del mare,
e non pensavo mai a quelli di casa mia che non amavo,
per via d’una anomalia
che non mi lasciava stare, ed io smaniavo
a certi sentimenti inquieti e in solitudine,
nell’ora attiva della festa
e nella sera, dato che i miei mi lasciavano perdere alla finestra
dov’ero,
io che ero solo in fondo e solo dentro il mondo
e contro il mare,
e, Dio mio, dicevo,
allora,
Dio com’è andata male.
Non so perché m’identificavo
sempre a Cristo,
da quando non visto, per esempio, mi perdevo sulla spiaggia
o poi che per la mia saggia
solitudine mi trovavo un po’ sempre dietro le quinte
d’una vita randagia,
ed io vedevo divino
quel mio stare al mondo e all’infinito orario, io che non aspettavo
in fondo che il giro vario delle cose
e guardavo gli altri
e la scena delle pose, sicuro e quasi in alto e dentro il cielo
piccolo d’ogni ora.
Parlavo, allora, misto di storia e di memoria
e mi cercavo, poi, non visto,
ancora e sempre in quella gloria di Cristo e nella mia incantata scoria.
Quand’io vivevo
con la mia