Paradigmi edipici. Letture teatrali settecentesche
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Paradigmi edipici. Letture teatrali settecentesche - Valeria Merola
Frontiere
Comitato Scientifico
Piero Bevilacqua
Lazzaro Rino Caputo
Stefano Catucci
Luigi Marinelli
Giuseppe Massara
Pietro Montani
Cosimo Palagiano
Luigi Punzo
Massimo Vedovelli
Norbert Von Prellwitz
Coordinamento
Giuseppe Massara
Responsabile di Redazione
Valeria Merola
Paradigmi edipici
Letture teatrali settecentesche
Valeria Merola
SETTE CITTÀ
Proprietà letteraria riservata.
La riproduzione in qualsiasi forma,
memorizzazione o trascrizione con qualunque
mezzo (elettronico, meccanico, in fotocopia,
in disco o in altro modo, compresi cinema,
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© 2009 SETTE CITTÀ
Via Mazzini, 87 • 01100 Viterbo
Tel 0761 303020 FAX 0761 1760202
www.settecitta.eu • info@settecitta.eu
ISBN cartaceo: 978-88-7853-184-0
ISBN ebook (epub): 978-88-7853-402-5
Progetto grafico e impaginazione Virginiarte.it
Prima edizione digitale: dicembre 2010
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
INDICE
PREMESSA
RINGRAZIAMENTI
CAPITOLO I
Paradigmi edipici: la salvezza nell’ambito dell’apparenza
CAPITOLO II
Il mito reso verosimile. Edipo tiranno di Pier Jacopo Martello
CAPITOLO III
Il senso di colpa: l’Edipo di Gasparo Gozzi
CAPITOLO IV
Il gioco delle parti: tra melodramma e commedia. Edipo, e Giocasta di Domenico Inzaghi
CAPITOLO V
L’Edippo attribuito a Foscolo
INDICE DEI NOMI
Per Enrico
PREMESSA
Nell’accostarsi alle riscritture del mito edipico, non si può non constatare l’inesauribile vitalità di un personaggio e di una vicenda che, complice la fortuna delle interpretazioni novecentesche, continua a porre quesiti e a rivelarsi fortemente radicata nell’immaginario collettivo. La lettura di testi settecenteschi che qui si propone assume in questa prospettiva una valenza di campionatura non esaustiva, volta principalmente a dimostrare, pur nell’analitica puntualità degli esempi, la capacità del mito di elevarsi al di sopra della contingenza spazio-temporale e della stessa identità testuale della creazione artistica: «vivi germi» che «ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità», secondo le parole di Luigi Pirandello (La tragedia di un personaggio).
La particolarità del mito di Edipo mette in rilievo l’attualità della dinamica tragica, individuando in essa una delle ragioni della sua fortuna fino ai nostri giorni. È il fascino del conflitto insanabile tra realtà e apparenza, dell’incapacità di conoscere se stessi, ma anche del sacrificio del capro espiatorio con le sue potenzialità purificatorie a legittimarne la presenza sulle scene di ogni epoca, che si pongono con esso in un dialogo continuo. L’interpretazione freudiana ha reso inevitabile il confronto, dimostrando il radicamento di quel contrasto inconciliabile nell’intimità meno conscia di ciascuno. Di qui non solo la fortuna letteraria, ma anche la frequentazione costante nel quotidiano, talmente importante da confondersi nelle sfumature del linguaggio e del senso comune, anche smarrendo la sua connotazione originaria.
Nell’ottica interdisciplinare dell’intersezione tra le arti – tra letteratura, teatro, arte figurativa, musica e cinema – e del dialogo continuo tra epoche distanti, questo studio sceglie di concentrarsi su testi eccentrici rispetto al canone, che propongono soluzioni innovative nella tradizione del paradigma.
RINGRAZIAMENTI
Nel licenziare un lavoro che, in modo vario a seconda dei momenti e delle fasi della mia ricerca, mi ha accompagnato per molti anni, desidero ringraziare innanzi tutto Franca Angelini e Giulio Ferroni, dai cui consigli e insegnamenti sono nate tante delle riflessioni. Sono molto grata al comitato scientifico della collana Frontiere e all’editore Emanuele Paris, per aver accolto il volume nel proprio catalogo. Un ringraziamento particolare va a Rino Caputo, per la sua generosa disponibilità intellettuale e a Giuseppe Massara, che con sensibilità e instancabile attenzione segue da anni il mio lavoro. Vorrei poi esprimere la mia gratitudine anche a Marco Dondero, Maria Cristina Figorilli, Carlo Serafini e Valeria G. A. Tavazzi. Per ringraziare la mia famiglia non credo ci sia invece bisogno di parole.
V. M.
Roma, settembre 2009
CAPITOLO I
PARADIGMI EDIPICI: LA SALVEZZA NELL’AMBITO DELL’APPARENZA
Lo scontro fra noi due, Pannichide, la lotta fra il veggente e la Pizia, divamperà ovunque; la nostra lotta è ancora emozionale e poco ponderata, tuttavia stanno già costruendo un teatro e ad Atene un poeta sconosciuto sta già scrivendo su Edipo una tragedia. Però Atene è una provincia e Sofocle sarà dimenticato, mentre Edipo continuerà a vivere come un argomento che ci pone degli enigmi"1.
Accogliendo la suggestione di Dürrenmatt, la fortuna del mito edipico potrebbe esser letta come conseguenza del fascino esercitato dalla struttura enigmatica, cui, anche se con modalità differenti, fa capo tutta la tradizione, sempre attratta dai tentativi del protagonista di penetrarne il mistero. È in quella che Vernant chiama «ambiguità e rovesciamento»², nella coincidenza tra l’agnizione e la catastrofe, ovvero nella duplicità, nella coesistenza in un solo individuo di proposizioni contrastanti che porta all’identificazione del protagonista con l’enigma, una delle ragioni fondamentali del potere mitico di Edipo.
Potremmo osservare il propagarsi dell’onda edipica secondo due movimenti propulsori, identificabili con l’opera di Sofocle e di Sigmund Freud, secondo la distinzione proposta da Guido Paduano. Con parametri e soprattutto durate differenti, le due codificazioni producono effetti di intensità tale da riscrivere la tradizione. Se a Sofocle spetta il compito di fondare letterariamente il paradigma, in Freud è riscontrabile la responsabilità di imprimergli una nuova direzione, con un andamento di matrice diversa. Alla tragedia politica e conoscitiva derivata dal mito classico e dalle sue interpretazioni, si aggiunge un’indagine nell’interiorità, che trae fondamento dalle dinamiche inconsce³.
Considerando il mito nella sua assolutezza, senza registrare le innumerevoli variazioni su di esso⁴, è possibile isolare alcuni elementi nei quali riconoscere le probabili ragioni di un tale radicamento nella coscienza collettiva. Quella di Edipo è innanzitutto una tragedia della paternità, nel senso del conflitto generazionale, implicito nel concetto stesso di progresso storico, traducibile nell’idea dei figli che uccidono i padri sostituendoli e negandone gli insegnamenti. Ma l’idea dell’evoluzione contiene in sé anche quella della tragicità dei padri che, come Laio, espongono i propri figli al rischio di morire e quindi, anche solo metaforicamente, li uccidono per invidia del loro futuro⁵. È in questa chiave interpretativa che Pier Paolo Pasolini legge la vicenda edipica, quando, nel suo film, mostra le mani del padre intente a stringere con violenza i piedini del neonato, colpevole di rubargli le attenzioni e l’affetto della moglie. Nel gesto fortemente simbolico messo in scena da Pasolini si compie il corto circuito tra presente e passato mitico e ancestrale, che dimostra l’attualità del mito⁶. Alla luce delle teorie freudiane, Pasolini mette in scena un «parricidio commesso in piena coscienza non dell’identità personale della vittima, ma dei tratti generazionali dell’autorità e della sopraffazione»⁷, leggibile come risposta necessaria all’infanticidio mancato e pienamente consapevole perpetrato da Laio⁸. Secondo Franca Angelini, la dinamica nevrotica del complesso sarebbe interpretata da Pasolini proprio in funzione della rivalità con il padre, scatenata dal porsi del bambino come spettatore di una «prima scena» freudiana, allusa simbolicamente dal ballo dei genitori, spiato in una lontananza quasi cinematografica⁹.
Nel tentativo di comprendere la fortuna del mito, sono utili le parole scelte da Peter Szondi per stigmatizzare la dialettica tragica per cui «la salvezza nell’ambito dell’apparenza si rivela nella realtà come annientamento»¹⁰. La vicenda edipica è interpretabile come tragedia della conoscenza, che vede nel protagonista sia il virtuoso dell’interpretazione sia il cieco¹¹. Il solutore dell’enigma della Sfinge, l’unico uomo capace di distinguere la realtà del messaggio dall’apparenza del significante, colui che grazie alle sue qualità intellettuali riesce a conquistare il regno e la regina è incapace di rispondere alla domanda che effettivamente si cela dietro le parole del mostro alato.
L’enigma della Sfinge è soltanto un simbolo della complessità di Edipo, che ne riflette la duplicità e il mistero. Da qui egli trae la definizione del proprio destino e quindi lo stimolo a interrogarsi su di esso. Ma anche l’inconciliabilità, il doppio, il rovesciamento che segnano la sua identità. Se l’apparenza asseconda l’ipotesi dell’enigma inteso nel suo senso letterale, ovvero come indovinello della Sfinge e indagine sull’assassinio di Laio, l’essenza rivela la natura enigmatica del protagonista stesso, che pur restando sempre uguale si scopre il contrario di quello che si credeva.
L’enigma di Edipo è allora in questo suo paradigma attraverso il doppio senso, le cui manifestazioni sono il parricidio e l’incesto. Macchiandosi delle colpe predette dall’oracolo, Edipo riveste i connotati della figura enigmatica, perché si rende inquisitore e oggetto dell’inchiesta, oltre che sovvertitore dell’ordine familiare. In quanto enigma vivente, Edipo riflette poi anche la dimensione misteriosa degli interventi divini attraverso gli oracoli, i prodigi e gli indovini. Pur mettendo in scena un sapere che trascende la razionalità, o almeno la sua immagine convenzionale, con questa dimensione il mito recupera il nesso di causalità. La logica in esso operante, giudicata ovviamente dal punto di vista della moderna civiltà occidentale, è quella ben nota del pensiero magico, della superstizione, del delirio paranoico.
Le ragioni del fascino esercitato da Edipo si possono individuare in una natura enigmatica che già si percepisce come tale nella identificazione del personaggio con un se stesso sconosciuto e attraverso di esso con tutto il genere umano. Il lettore di ogni epoca è attratto da questa riflessione sull’uomo e sulla sua complessità, vista nell’ambiguità del tragico. Edipo rivela il conflitto insanabile dell’individuo tra apparire ed essere, ma soprattutto l’inconciliabilità della volontà con una necessità superiore e imperscrutabile. Per questo è l’eroe per antonomasia, impegnato nella sfida disperata di un intelletto orgoglioso contro l’irrazionale. Il passaggio alla modernità è segnato dalla scoperta all’interno del personaggio di questa necessità.
In quanto appartenente all’immaginario collettivo, Edipo si svincola da un’identificazione che lo vorrebbe circoscrivere nell’opera di Sofocle. Pur essendo il tramite più importante e quasi l’invariante della sua trasmissione, la tragedia di Sofocle è solo una delle interpretazioni del mito, che la investe e la sorpassa, propagandosi nella cultura occidentale. Quella di Sofocle va considerata in primo luogo una codificazione di un materiale mitologico precedente, che offre il canone con cui si confronteranno le variazioni. Per questo essa è la più importante delle letture del mito, in quanto si propone come punto di riferimento per le successive. È la conclusione di Tiresia nel racconto di Dürrenmatt, che dopo aver mostrato la storia sotto nuovi punti di vista, teorizza la sua indipendenza dalla singola interpretazione. Nella caleidoscopica moltiplicazione delle prospettive di analisi del contenuto mitologico, Sofocle potrebbe probabilmente essere dimenticato. Il paradosso di Dürrenmatt, che ricostruisce la vicenda nel racconto dei suoi protagonisti, scoprendo ogni volta una versione nuova e contrastante con la precedente, rivela l’impossibilità di una definitiva determinazione del mito, che infatti trascende dalla singola interpretazione, per espandersi con la sua complessità enigmatica.
Adottando la definizione che Jean Rousset propone a proposito di don Giovanni¹², potremmo identificare anche questo mito come una combinazione di varianti e di invarianti, individuando nel parricidio e nell’incesto due condizioni indispensabili¹³. Entrambi invarianti, il parricidio e l’incesto sono elementi necessari perché si possa parlare di intreccio edipico. È dal loro intersecarsi che nasce la tragedia, con risultati differenti a seconda delle epoche e del clima culturale. Nella tragedia politica di stampo classicistico sarà infatti l’uccisione del padre ad imporsi come fondamentale nella valutazione della colpa del protagonista, lasciando la componente incestuosa sullo sfondo, coperta dal tabù¹⁴. In epoca moderna, con l’affermarsi della tragedia intimistica e passionale e l’evolvere verso uno stemperamento del tragico, a favore di tendenze melodrammatiche e da dramma borghese, si assisterà invece all’intensificarsi dell’attenzione dedicata all’incesto, con l’inevitabile ascesa al rango di protagonista di Giocasta.
Nell’impossibilità di tracciare un percorso che comprenda la totalità delle molteplici varianti¹⁵, sarà utile ricostruire le linee portanti della fortuna e della propagazione del mito nella cultura occidentale. Accogliendo la proposta di Lévi-Strauss «di definire ogni mito in base all’insieme di tutte le sue versioni»¹⁶, può essere interessante leggerlo nella sua evoluzione, sulla scorta dell’analisi che Karl Kerényi conduce ne Gli eroi della Grecia¹⁷. Nel complesso panorama delineato, l’enigma, pur nelle sue diverse estrinsecazioni, si rivela componente centripeta, garante dell’identità del mito con se stesso.
A decretare la centralità della struttura enigmatica e del suo scioglimento è la lettura della tragedia sofoclea che nella Poetica Aristotele propone come la tragedia perfetta¹⁸. Nell’interesse per l’effetto catartico del tragico, l’Edipo re di Sofocle¹⁹ si offre come modello di totale coincidenza di terrore e pietà, in cui la purificazione è massima. Secondo Aristotele l’effetto della tragedia raggiunge il suo momento più alto perché l’agnizione e il rovesciamento si legano l’uno all’altra indissolubilmente, nella complessità di un’azione in cui gli eventi sono tanto più terribili perché inaspettati. Nel riconoscimento, che dovrebbe sciogliere l’enigma tragico, è in realtà insita la catastrofe, che accelera la dinamica della tragedia verso l’inevitabile conclusione: «il riconoscimento più bello è quello che si produce assieme al colpo di scena, come nell’Edipo»²⁰. A potenziare l’effetto catartico contribuisce, secondo Aristotele, l’identificazione con un personaggio che, «non distinguendosi per virtù e giustizia, cade nella sfortuna non per vizio o malvagità, ma per un qualche errore, come tra quelli che ebbero grande fama e fortuna, Edipo, Tieste e altri uomini illustri appartenenti a tali famiglie»²¹.
Se il modello sofocleo autorizza l’interpretazione aristotelica di Edipo come «uomo intermedio», non completamente colpevole né completamente innocente, quindi molto vicino al lettore, le successive variazioni complicheranno la questione. Nel caso delle Fenicie, la tragedia offre non soltanto informazioni supplementari sulla vicenda, ma anche una diversa prospettiva di giudizio, che trova spazio persino per Giocasta, sopravvissuta alla scoperta degli orrori commessi. Questo perché, nel momento in cui si sposta l’accento sulla maledizione comune a tutta la stirpe di Edipo, si impone l’esigenza di individuare le cause della colpa. Euripide si rivela allora importante per stabilire il nesso tra la colpevolezza di Edipo e la sua intelligenza. Nella sua terribile ambiguità, che lo rende occasione «di giubilo / per la terra tebana, e poi d’ambascia»²², Edipo si lega alla colpa nel momento stesso in cui risolve l’enigma:
Ché, poi ch’ebbe vittoria
d’enimmi inesplicabili,
s’unì di nozze orribili
con la madre; e la macchia
di Tebe indi ebbe origine²³.
Nel suo Edipo Seneca indaga il problema nelle pieghe dell’animo del protagonista, nonostante Giocasta risolva la questione della colpevolezza in modo analogo a Sofocle, dichiarando la piena responsabilità del fato. Il protagonista appare in una nuova luce, che ne osserva l’ossessione di contaminazione e il senso di colpa. Anche se si dichiara innocente, l’Edipo di Seneca rivela il suo coinvolgimento nella colpa, sia nell’ingiustificato terrore per cui «cuncta expavesco meque non credo mihi»²⁴, sia quando in scena, sconvolto dall’orrore, si macchia anche dell’assassinio della madre, sebbene simbolicamente, perché Giocasta si trafigge con la sua spada, inaugurando una nuova linea interpretativa, con cui la modernità dovrà necessariamente confrontarsi.
La Tebaide di Stazio costituisce uno dei tramiti privilegiati verso una modernità che