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La realtà intellettuale
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La realtà intellettuale

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La realtà della parola è la realtà intellettuale. Non è la realtà demoniaca sospettata dalla demonologia.
LanguageItaliano
PublisherSpirali
Release dateNov 29, 2014
ISBN9788877706485
La realtà intellettuale

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    La realtà intellettuale - Armando Verdiglione

    Armando Verdiglione

    LA REALTA’ INTELLETTUALE

    Avvertenza editoriale

    Queste lezioni, non rilette dall’Autore, sono state tenute in due anni d’inquisizione sotto il pretesto fiscale. L’inquisizione continua.

    Prima edizione formato e-book: dicembre  2014

    ISBN 978-88-7770-648-5

    Copyright by

    ©

    Spirali

    Associazione Amici di Spirali

    via Gabrio Serbelloni 5, 20122 Milano

    www.thesecondrenaissance.com - www.spirali.it  spirali.ebook@gmail.com

    La causa

    In latino, causa ha molte accezioni: ne ha più di aitía, e anche molto differenti da aitía. Aitía è ciò per cui qualcosa s’instaura o avviene o diviene, ma ciò che risalta, fra Platone e Aristotele, è che aitía, la causa, scivola verso il bene, quindi dipende dalla volontà. Sta qui la questione che poi diverrà addirittura, nel discorso inquisitorio, la causa intenzionale o soggettiva. La causa, per Platone, nella Repubblica è questa: dio è causa dei beni. E aggiunge: i nostri beni sono quasi nulla, di fronte ai nostri mali. Quindi, dio è causa dei beni. Da qui, la volontà di bene. Il corpo è aitía, causa, dei mali: passioni, sentimenti, fantasmi, paure, amori, vanità. Il corpo è, per Platone, demoniaco. Così, ha bisogno di una guida, della teleologia. È il corpo sacrificale, il corpo mortale. La causa di tutti i guai è, per Platone, il corpo, e questa causa minaccia di offuscare, di rendere opaca la causa, la causa del bene, quella che nella Metafisica Aristotele chiama la causa che ha il suo télos, il suo fine, nel bene. La causa finale è la causa del bene. Quindi, la volontà di bene, la causa del bene: la causa finale.

    […] koinou tinos agathou Aitía (La guerra del Peloponneso, IV, 87): Tucidide, lo storico, ripete quella che è la causa, l’aitía. Che cosa dice? A causa di un bene comune. Aitía, causa finale. Questo bene comune è insieme l’idea di bene e l’idea di essere, il benessere. Poi aitía diviene, nel discorso medico, l’eziologia. La causa, che il discorso medico cerca, è quella di Platone, e d’Ippocrate: il corpo, causa di tutti i guai ovvero passioni, sentimenti, tutte cose descritte da Platone. Poi aitía entra nel discorso medico, nel discorso inquisitorio, nel discorso giudiziario. Questa la mentalità ontologica.

    Aitía, aítion. Nel discorso inquisitorio, aitía indica anche l’accusa, la colpa, addirittura l’imputazione. Accusa, colpa, imputazione sono cose differenti, però lo stesso significante aitía investe questi tre significanti e addirittura la lite.

    A Roma la causa, causa. Noi abbiamo indagato intorno alla citazione, la chiamata in causa. Ma causa, nella lingua latina, prima di essere convertita nel discorso come aitía, e in modo differente da aitía, è provocazione, questionamento. Noi diciamo che il simulacro è causa, il sembiante è causa: provocazione, chiamata in causa, questionamento. Il simulacro è ciarliero, ciarlatano, non già chiacchierone. La causa come proprietà del simulacro, del sembiante, quindi del tu, dell’io, del lui, ancora dello specchio, dello sguardo, della voce.

    Indaghiamo ancora sul significante causa. Nessuno ne ha mai trovato l’etimo. Etimo ignoto. Anche causa, come aitía, viene a trovarsi come processo: per esempio, causidicus è l’avvocato, colui che espone la causa. Anche accuso viene da causa. J’accuse. Accusatio, excusatio, recusatio, sempre da causa. Accusatio è l’assunzione, il rigetto, il rilancio, la rimozione. Nella dimensione di sembianza, è lì, la sintassi, dove un aspetto della sembianza è il movimento, kínesis. L’accusa e il movimento non sono in contrasto; nessun movimento senza la funzione di zero, quindi l’accusatio instaura l’auctoritas, esige l’auctoritas, l’aumento, la crescita e anche l’augurium, l’augustus. Anche nella lingua cosiddetta grammaticale: accusativus.

    Nel discorso medico diventa, addirittura, la malattia e la sua causa, mentre nel discorso giudiziario è la stessa lite, a un certo punto, o la causa della lite. Sia nel discorso medico sia nel discorso giudiziario, causa slitta verso aitía, quindi verso la causa finale, verso la causa del bene, verso il bene comune. Causa, poi, nel processo. Quello che si chiama l’affaire; l’affaire è la res, la causa diviene la res. La res, la causa, la lite, la colpa. Reus, il reo. Poi, lo slittamento da causa a chosa, scritto con ch, in latino; in francese la chose. La cause, la chose, la cosa, la res, l’affaire. Ma la cosa è il narcisismo della vita, l’autismo e l’automatismo. Ecco qui ancora la stessa cosa, la cosa stessa. C’è la stessità che esige la causa e la stessità che esige il taglio, il tempo, la tomica, per cui, man mano, la causa viene a assorbire la res, nelle lingue cosiddette neolatine, la res si dilegua dietro la causa, che diviene la cosa. La causa, la cosa, la chose.

    Ponzio Pilato parla a Gerusalemme, città dell’ebraismo ma città ellenica, città che appartiene all’impero di Alessandro, ma ormai è l’impero romano. La struttura militare non è quella della falange, è quella di Roma; occorrerebbe indagare sulla struttura militare di Alessandro e sulla struttura militare di Cesare. In una prima enunciazione, Pilato dice (Luca, 23, 4): Oudèn eurísko aítion en to anthrópo touto, non trovo nessun aítion, nessuna colpa – nessuna causa nell’accezione di colpa – in quest’uomo. È escluso che Pilato parlasse in greco, ma Luca glielo fa dire in greco; poi, chi traduce i Vangeli in latino deve ritradurre. Forse, avrà detto: Nihil invenio causae in hoc homine. Non siamo sicuri, perché questa è la traduzione dal greco; ma Pilato parlava proprio in latino. Dove c’era l’impero, era il latino. Dice dunque Pilato: non trovo colpa. Ma insistono i sommi sacerdoti, insiste il popolo: A morte, a morte, a morte!. E Pilato (Luca, 23, 22): Quid enim mali fecit iste? E che ha fatto di male costui? Nullam causam mortis invenio in eo; corripiam ergo illum et dimittam. Io lo manderei a casa. Ma quelli, no: A morte, a morte!. Non sappiamo come sia andata, si è lavato le mani? Fate voi; per me, è da mandare a casa. Io, come autorità romana, non lo condanno; però, assumetevi voi la responsabilità. Terribile! Ma qui Pilato dice un’altra cosa: oudèn aítion thanátou euron en auto, non trovo nessuna causa di morte, nessuna colpa mortale, nessuna colpa per cui debba morire.

    Felix qui potuit rerum cognoscere causas […] (Georgiche, II, 490-492). Quante volte dicevamo queste cose a memoria. A Palermo, traducevamo dal latino al greco e viceversa, facevamo componimenti in greco. Felix qui potuit rerum cognoscere causas, Felice chi poté delle cose conoscere la causa. Qui, siamo non già alla causa che assorbe la res, ma alla causa delle cose. Poi, aggiunge: atque metus omnis et inexorabile fatum / subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari.

    La causa. La causa non si conosce, la causa non dipende nemmeno dalla conoscenza. La causa finale è la causa gnostica. Il simulacro, il sembiante, la simultaneità, l’oggetto non si conosce. Lo specchio non si conosce, lo sguardo non si conosce, la voce non si conosce. Questo è uno dei teoremi della giustizia, del modo d’intervento del punto e del contrappunto. Il sembiante, l’oggetto, la garanzia, la causa, la condizione.

    La locuzione che adesso leggiamo è tratta dal Codex di Giustiniano. Giustiniano abolisce la scuola di Atene, però redige il Codex, le leggi. L’impero ha bisogno non della scuola di Atene, ma delle leggi. È la causa a Roma, non è l'aitía di Atene. Questa locuzione è tratta dal Codex: Nemo est iudex in causa propria. Qui non c’è la formula Nessuno è padrone in casa sua, ma Nessuno è giudice nella causa propria. Intanto, la causa è proprietà del sembiante, non c’è una causa propria, ma qui causa è nell’accezione di lite. Altrove: Boni iudicis est causas litium dirimere. Tutto è ideale.

    Nessun viaggio, nessuna struttura, nessuna scrittura è sine causa. Seneca, parodiando Cicerone, scrive: Saepe enim causa moriendi est timide mori (De tranquillitate animi, XI, 4). Qui la questione della paura. Qui la paura. Timor. Timore. La paura di morire spesso è causa di morte, così dice Seneca. Qualche scrittore ne fa l’ulteriore parodia, quando enuncia che la paura di ammalarsi è causa di malattia. Ciò è inscritto nel discorso medico. Sta qui la complicità fra medico e paziente. Non c’è medico che non possa soddisfare il paziente nella sua paura di ammalarsi o di morire. Gli trova sempre una aitía, una buona causa.

    Abbiamo più volte accennato che causa è proprietà del tu, proprietà dell’io, proprietà del lui, quindi proprietà del sé. Non c’è causa del sé, ma causa come proprietà del sé. Nessuna causa sui, nessuna partenogenesi. Abbiamo indagato su Atena e su Zeus. Atena sarebbe un’idea di Zeus. Viene spaccata, con la scure, la testa di Zeus e sorge Atena. È un’idea. Creativity! Causa sui. L’idea di sé, quindi l’idea della causa. La causa come proprietà del sembiante, del simulacro, dell’oggetto. Lo specchio. Lo specchio è causa di senso e di dispendio o di godimento. Senso e dispendio sono le risposte della legge. La legge, compimento della scrittura sintattica, causa. Ma il senso e il dispendio non diverranno mai causa, mai si scriveranno nel télos, nella causa finale, mai nel discorso. Così per lo sguardo, causa di sapere e di ripetizione. Così per la voce, causa di verità e di riso. Causa di verità, non la verità come causa, non il riso come causa. La verità come causa è la causa finale, la causa del bene, sotto la volontà del bene.

    Negli anni sessanta e settanta si discuteva a lungo, anche nello psicanalismo, non fra il dispendio, il senso e la legge, ma fra il desiderio e la legge. È per ciò che il secondo numero della rivista Vel (il primo era stato Materia e pulsione di morte, Marsilio 1975) era Il godimento e la legge (Marsilio 1975), non già Il desiderio e la legge. Tutta la letteratura, la psicoletteratura, la filosofia, la psicologia, l’antropologia, la sociologia si rappresentano il desiderio e la legge. Quindi, il conflitto. Il desiderio e la legge: Sade, Kant. Il desiderio e la legge. No! Il godimento, dispendio, e il senso. Il senso e il dispendio, come effetti della sintassi, effetti sintattici, anziché causa.

    Lo specchio è causa, non il dispendio, non il senso. Considerate il senso come causa finale e si spiana il campo alle buone intenzioni! Le buone intenzioni, come è noto, affollano i cimiteri. Qui, ciò che Platone attribuisce all’animalità propria del corpo, fonte e causa dei guai, dei mali, delle passioni, dei sentimenti, e di ogni bestialità, sarebbero l’istinto, il desiderio e il bisogno. Ma l’istinto, il desiderio e il bisogno sono altra cosa.

    Il punto e il contrappunto procedono da corpo e scena. Il punto dal corpo, il contrappunto dalla scena. Infatti, da dove vengono le cose? Da dove viene l’oriente? E dove va l’occidente? Da dove vengono le cose e dove vanno? Dove e dove, il punto e il contrappunto. Il punto procede dal corpo, ma il corpo non è il corpo sacrificale. Abbiamo incominciato a dire, quarant’anni or sono, che il corpo è immortale, il corpo della parola.

    L’istinto, marca del paradosso dell’equivoco; il desiderio, marca del paradosso della menzogna; il bisogno, marca del malinteso – dicevamo marca per distinguerlo dalla madre, che è indice del malinteso. Però, sia il bisogno sia la madre hanno a che fare con il malinteso. Per ciò il bisogno non può mai essere materno.

    Abbiamo indagato, poi, intorno allo specchio come l’abietto, intorno allo sguardo come l’immondo, intorno alla voce come l’aberrante. La causa, la cosa, l’affaire nella cifrematica oppure nell’ontologia. Corpo e scena, nord e sud. Nord e sud non sono luoghi. Non c’è un luogo del due, non c’è un luogo del punto e del contrappunto, non c’è un luogo del tempo.

    Quelli che sono stati chiamati nord e sud, nel testo occidentale, non sono luoghi. Corpo e scena, nord e sud. Bachofen distingue fra la solarità nordica e l’oscurità materna del sud. Corpo e scena: giuntura e separazione, proporzione e improporzione, armonia e inarmonia, parità e imparità. Nessuna economia dell’imparità, nessuna economia dell’improporzione, nessuna economia dell’asimmetria, che per Aristotele si chiama economia del sangue, fino al sangue puro.

    Causa è proprietà del sembiante, ma pulsione non è proprietà del sembiante, è proprietà del viaggio, nella sua struttura e nella sua scrittura. Nella letteratura politica, nel discorso politico, nord e sud diventano spesso luoghi e ciò diventa mitologia, la mitologia dell’impero.

    1978: si conclude un’epoca, forse un millennio, ma subito c’è l’esigenza di costruire, di edificare un’altra epoca, che si chiama riflusso. C’è il flusso del tempo, non già il riflusso del tempo. E si chiama revivalismo, rivisitazione; viene chiamato addirittura fine della modernità, postmoderno, ma questa è l’epoca. Il muro di Berlino cade, occidente e oriente – sembra oggi grottesco – erano rappresentati, addirittura, in due blocchi: blocco sovietico e blocco americano. Il muro di Berlino cade e sembra che il problema non sia più oriente e occidente, ma nord e sud.

    Nietzsche scrive (Così parlò Zarathustra): Il nodo delle cause in cui io sono avvolto ritorna e mi rifarà di nuovo. Io stesso appartengo alle cause dell’eterno ritorno. La causa del bene comune è la causa del ritorno all’origine, è la causa del viaggio circolare.

    26 novembre 2011

    La vivenza

    In francese, vivance. Sur-vivance. Vivance è stato utilizzato, prima di me, da François Tosquelles, intorno agli anni quaranta-cinquanta. Tosquelles era venuto da noi negli anni settanta. Aveva introdotto Jean Oury in quella che si è chiamata, con locuzione impropria, psicoterapia istituzionale anziché istituzione terapeutica. La fondazione di La Borde avvenne nel 1953 (www.cliniquelaborde.com). Tosquelles diceva vivance, ma intendeva un’altra cosa. In italiano, vivenza non è stato mai usato, che io sappia.

    Zen, vivere, il numero della vita. Viventes, gli elementi della vita. Vita, bíos, il modo di vivere o, anche, la vita. La vita e il suo modo. Vita è la parola originaria, la parola nel suo numero e nella sua cifra, ma vita è anche modo di vivere; da distinguere da humanitas, anche se talora, nel testo occidentale, viene utilizzata nell’accezione di humanitas. Della vita, nessuno può farne un’affezione, dire la mia vita. La mia vita è già la vita affectée, colpita da affezione. Tra le affezioni, anche la cosiddetta tenerezza: mea vita, come dire vita mia. La vita non la si può né dare né prendere né lasciare, come supporrebbe il significante vivesco. La vita è la vita nel suo pleonasmo. Vividus indicherebbe pieno di vita, ma pieno di vita è tutt’altra cosa dalla vita piena. La vita piena è la vita nel suo pleonasmo. Attraverso quale teorema si formula la vita nel suo pleonasmo? Con niente da vivere o con non ho più da vivere o non vivo più. Viene ribadito dalla poesia latina con vivax, vivace. La tentazione animista è forte, con vivificus, vivifico, vivificatio. Come pure con la reviviscenza: revivesco e revivisco.

    Ma c’è un significante che ha un interesse speciale: è convivium, sympósion. Fra la Vita Nova e la Commedia, il Convivium, in cui Dante Alighieri sancisce che la lingua cosiddetta volgare è più bella e più nobile del latino. Ma la lingua cosiddetta volgare non era la lingua parlata dal volgo, era la lingua dei poeti, dalla scuola siciliana allo stilnovo. La lingua italiana nasce in Sicilia, ma è la Toscana che ne prosegue l’invenzione. È la lingua della poesia, e anche della prosa. Della poesia e della prosa. Ma come per Lucrezio la filosofia era in versi, come per Parmenide era in versi, così la prosa è poetica. La lingua della prosa è la stessa lingua della poesia.

    Convivium. Sembra che i romani s’ispirino ai greci, tant’è che Cicerone cita Platone. Forse, vita e bíos hanno, nel sanscrito, lo stesso etimo, ma vita non è bíos. Noi diciamo biologia, ma non c’è una logia della vita.

    Convivium. Intanto, la vivenza, il ritmo del viaggio, le sue proprietà, la sua pulsione, il dispositivo del ritmo, la direzione. È una costellazione, la vivenza, forse una galassia; nella vivenza, il ritmo, quindi la pausazione, la modulazione. Il ritmo, ma anche il tempo. Fra pausazione e modulazione, il tempo, l’automa: in nessun modo può essere esclusa l’automazione.

    Sembra che lo slittamento dall’automatismo all’automaticismo, dall’automazione all’animazione, sia sancito e irriso fin dall’Iliade. Il proverbio antico dice: Autómatoi d‘ agathoì agathon epì daitas íentai. Come automi, i buoni vanno al banchetto dei buoni. Nell’Iliade (II, 408), Menelao va autómatos al banchetto di Agamennone. Agamennone è forte e Menelao è un buono a nulla. Sarebbe come dire: i buoni a nulla, come automi, cioè senza invito, vanno al banchetto dei buoni, dei forti.

    La condizione della vivenza: il simulacro, con le sue virtù. La distinzione: senza la distinzione, nessun viaggio. La distinzione è proprietà non dell’uno, ma del simulacro, dell’oggetto. Così la distanza, mentre il distacco è un teorema dell’oggetto. Nessun contatto: l’oggetto è intoccabile, intangibile. Nulla è tangibile, ma l’oggetto è ciò per cui sorge il teorema Non c’è più contatto. È la condizione della vivenza. Un altro teorema è individuo. Il simulacro è individuo, intemporale. Inattribuibile il tempo all’oggetto, inattribuibile il tempo al sintomo, all’impasse, cioè inattribuibile alla prosodia dello zero, alla rapsodia dell’uno, alla melodia dell’Altro. Inattribuibile il tempo allo specchio come punto e come contrappunto, allo sguardo come punto e come contrappunto e alla voce come punto e come contrappunto. L’oggetto è intemporale, individu, indivisibile, insecabile; sono teoremi, quanto alle proprietà dell’oggetto o alle virtù.

    La vita è già vivenza, modus vivendi, ma anche dispositivo di direzione, dispositivo del ritmo. Dispositivo di direzione, dispositivo pulsionale. Ciò che si acquisisce lungo il viaggio è proprietà intellettuale, quindi cifrema. In convivium c’è il cum. Ammettiamo che sia insieme, ma cum non è insieme. Occorre precisare cum rispetto all’indagine linguistica che abbiamo compiuto. Se noi diciamo insieme, perché convivium non sia vivarium, un vivaio, qual è l’intervento? Il convivium è già intervento. Il convivium è l’intervento, se l’insieme è l’instaurazione della simultaneità, in-simul, per tanto è il sembiante. Il convivium è intervento, quindi dispositivo.

    Tra vita, il significante latino, e bíos c’è uno scarto. E c’è uno scarto tra convivium e sympósion. Quando viene annunciato il sympósion è una insegna ellenistica, è l’onda concettuale, lunghissima, di Alessandro. Il sympósion è un banchetto alessandrino. La prerogativa del sympósion è che, lì, mangiando mangiando, si stabilisce il dialogo. Mangiando e, sopra tutto, bevendo: i greci esaltano questo aspetto. La tavola, il banchetto, la tabula, che è anche la superficie come taglio, è convivium. Ma convivium è nei tre registri. Il convivium è la vivenza come dispositivo del viaggio. Abbiamo fornito differenti accezioni di vivenza. C’è una costellazione, una galassia di nomi, di significanti e di ciò che sta nell’intervallo, l’Altro. Il convivium, il dispositivo: a Roma non è così. È a Firenze, è a Milano, è nel rinascimento che il convivium si precisa come dispositivo della conversazione. Ma la base, forse, era nel diritto e nella poesia, a Roma, con l’atto di Cristo, con l’apporto della questione ebraica e della questione cattolica.

    Dispositivo della conversazione, convivium, dispositivo della narrazione e dispositivo della lettura. Dunque, il convivium è il dispositivo cifrematico. Non è questione soltanto di annunciazione. Vivenza è anche annunciazione, è anche transfert, è anche la memoria che si scrive e che si cifra. Vivenza. Quando diciamo memoria, diciamo già metafora, metonimia e catacresi e, in modo rispettivo, l’ellissi, l’iperbole, la parabola. Quindi, memoria.

    Il fantasma di possessione, quello che il discorso occidentale presume d’instaurare, il fantasma di padronanza, quello che trova appiglio nel fantasma materno, non si dissipa uccidendolo, ma con l’analisi. Non è questione di Si uccide un bambino. L’analisi: non c’è più il materno, quindi non c’è più soluzione.

    Il fantasma di padronanza è il fantasma di salvezza, il fantasma di soluzione. Qual è il fantasma di salvezza? Che la memoria si risolva nel cerchio. Ma convivium non è coniunctio vitae – anche questa formula interviene in Cicerone. Giuntura e separazione: la giuntura, intanto, non è coniunctio. Giuntura e separazione, ciò da cui procede il viaggio: il due, l’apertura.

    Se noi diciamo che i viventes non sono i soggetti ma gli elementi della vita, gli elementi di valore, gli elementi intellettuali, non proponiamo più la vita come economia della morte. Non ci sono più i viventes e i mortui. La vivenza è senza più l’alternativa dinanzi tra la vita e la morte, tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo. Sta qui il convivium, il dispositivo della conversazione, il dispositivo della narrazione, il dispositivo della lettura.

    Possiamo indicare così, nella saga, il varco rispetto agli antichi: non ci sono più il pasto di amore e il pasto di odio. Il dispositivo della conversazione, il dispositivo della narrazione, il dispositivo della lettura hanno questo teorema: non c’è più pasto di amore e pasto di odio; non c’è più cannibalismo paterno o cannibalismo materno; non c’è più cannibalismo bianco. Non c’è più cannibalismo, non c’è più da mangiare la carne e da bere il sangue degli umani. Questa è la Cena: mangiate e bevete, pane e vino, e non già la consustanziazione! Mangiate e bevete: non c’è più sostanza, non c’è più consustanziazione. Nessuna conversione nel pasto d’amore e nel pasto di odio. Nessun dialogo.

    Per ciò l’indissolubile è il sembiante, è l’oggetto. Absolutio, non c’è più soluzione. Indelebile è la parola. Indelebile la vita. Indelebile il numero. Indelebile l’annunciazione.

    Se si annuncia che il transfert è indistruttibile, da qualche parte c’è il fantasma che possa essere distrutto. Che la memoria possa essere distrutta, che la ricerca e l’impresa possano essere distrutte risponde a un fantasma geometrico.

    Autómatoi, coloro che, senza invito, vanno al banchetto dei buoni. Autómatoi, quindi sono anche autonomi. Sembrerebbe che, dalla loro, stia l’arbitrio. Gli autómatoi, i soggetti automa, vanno al banchetto. Ma qual è il banchetto senza soggetto, senza categoria sociale e professionale? È la questione del dispositivo. Risolvere la psicanalisi nella psicologia o nel discorso medico è togliere questo varco dal dialogo al dispositivo cifrematico. Ma il vero varco è dal convivium al dispositivo cifrematico.

    Simulacro, sembiante, la simultaneità, l’oggetto, la condizione. Se si dice ça va, ça fonctionne, l’affaire è molto sospetto, qualcosa di catastrofico si annuncia. Dire ça ne va pas, ça ne fonctionne pas non è la stessa cosa, ma è molto prossimo al punto e al contrappunto. E se si arriva a dire ça va quand même, ça fonctionne quand même, come dice Boris Nemtsov a proposito di Putin, è il disastro. Per Putin, ça va quand même, e qui è terrorismo di stato. Il terrorismo di stato è l’abolizione dello stato e il suo posto impossibile è preso dall’istituzione terrorista. Ça va quand même, comunque, così l’ho chiamato il comunquismo. Le quandmêmisme.

    La memoria è contrassegnata come sintassi dalla suggestione, come frase dalla persuasione e come pragma dall’influenza. L’influenza, violenza e rapina del tempo. Ma se il tempo è abolito, o addirittura incarnato – Io sono il tempo è l’acme del geometrismo –, la violenza e la rapina sono monopolizzate. La burocrazia può giungere a stabilire il monopolio sulla violenza e sulla rapina del tempo. Nella città tanatologica, nella città senza vivenza, la violenza diviene violenza senza il tempo e la rapina diviene rapina senza il tempo. Violenza e rapina sono la violenza e la rapina del tempo, il tempo nella sua violenza e il tempo nella sua rapina. Questione di fluenza del tempo, di flusso del tempo, di lusso del tempo, di lussuria! Il paniere segue al tempo, nella sua violenza e nella sua rapina: fiscus.

    Il Malleus maleficarum distingue tra influenza benefica e influenza malefica. Quella degli inquisitori sarebbe un’influenza benefica: Questa mattina abbiamo scoperto quaranta streghe e le abbiamo bruciate. È di un’euforia erotica enorme! Le hanno scoperte, le hanno bruciate. Subito, nella piazza! La mattina presto! Hanno avuto, forse, qualche avvertimento, la sera prima, nella notte, il giorno prima? No, le hanno scoperte la mattina. Leggete: è sconcertante come lo raccontano, in una maniera facile facile! Le loro buone intenzioni sono fuori discussione. Sono buoni, questi inquisitori, Sprenger e Institor, figurarsi! Stanno a Colonia, città da sempre cattolica. Sono inquisitori, Domini canes. E che cosa fanno i Domini canes Sprenger e Institor? Devono scoprire streghe e stregoni, pochi stregoni e molte streghe, a volte uno stregone con tante streghe. Leggete il Malleus maleficarum; fra i manuali degli inquisitori è sicuramente il migliore.

    Da qui la rivoluzione francese, il colpo di stato di Ottobre, le purghe staliniane, le camere a gas, la psicofarmacologia. Non può trascurarsi la psicofarmacologia: una diffusione mondiale, enorme, miliardi e miliardi di dollari, di euro, di yuan, di yen investiti per lo spaccio della morte. Il Malleus maleficarum ne contiene le basi, i concetti, i supporti, l’impalcatura ideologica. Il discorso occidentale diviene discorso inquisitorio: un ellenismo raffinato.

    Sopravvivenza è un segno, più che un significante; è un segno contro il modo di vivere, contro il ritmo, contro il dispositivo. È la vita presa dal discorso algebrico o dal discorso geometrico, è la vita con il suo soggetto: il soggetto vivente, in effetti, è sopravvivente. I sopravvissuti alla rovina e alla distruzione. I sopravvissuti, coloro che non vivono ma sopravvivono. La sottovivenza è un’altra cosa: sarebbe la sostanza della vita. La vita è insostanziale, per ciò è la vita intellettuale. Forse, un’accezione di vivenza è anche questa: la vita intellettuale. Ma la vita intellettuale non s’instaura senza il dispositivo della conversazione, senza il dispositivo della narrazione e senza il dispositivo della lettura. È il processo di valorizzazione della memoria: questo è il vero brainworking.

    3 dicembre 2011

    L’oggetto

    Specchiarsi, guardarsi, sentirsi, parlarsi, udirsi. È l’idea come rappresentazione di sé, l’idea presunta agire. Gli antichi, greci e latini, ma anche gli ebrei, che hanno tanto esplorato i miti, che li hanno anche inventati, si trovano a sancire l’assurdo di questa rappresentazione, di questa padronanza. Ma nemmeno specchiare, guardare, sentire lo zero, l’uno e l’Altro è possibile; rientra anzi nell’assurdo. Non c’è chi si specchi, non c’è chi si guardi, non c’è chi possa sentire la propria voce. Lo specchio, lo sguardo, la voce non sono propri e non sono soggettivi. È impossibile dire ecco, è impossibile l’ostensione dello specchio o dello sguardo o della voce. Nemmeno può additarsi lo specchio, nemmeno può additarsi lo sguardo, nemmeno può additarsi la voce. Anche l’induzione è impossibile, perché è impropria. Nella parodia o nel fiabesco, più che nella fiaba, diciamo che la struttura induce lo specchio, la struttura induce lo sguardo, la struttura induce la voce. L’induzione è impossibile.

    Il simulacro. Simulacro come singolare triale. Simulacro o sembiante o simultaneità. La condizione non è induzione. Le virtù, rispetto al dispositivo, quindi all’itinerario, risultano anche proprietà: le proprietà del simulacro sono il confronto, l’identificazione, la distanza, ma anche la condizione, la provocazione, il questionamento, per ciò la causa. Inconoscibile, il sembiante o simulacro. L’idea è l’idea del simulacro, ma del simulacro come causa e come oggetto non c’è chi abbia un’idea. Ognuno può farsi un’idea: idea della causa senza l’oggetto o idea dell’oggetto senza la causa. La specularità è l’idea soggettiva dello specchio, come la visibilità è l’idea soggettiva dello sguardo, come la sinfonia è l’idea soggettiva della voce. Dal principio di specularità dipende l’azzeramento delle cose: che non s’instauri la funzione di zero. La specularità è finibile, algebrica; la visibilità è divisionista, geometrica.

    Le cose procedono secondo la logica stigmatica, secondo il sembiante come singolare triale. Singolare triale è lo specchio, punto e contrappunto. Qualcosa precipita, qualcosa cade, punto di distrazione e punto di caduta. Nessuna distrazione dal punto, nessuna caduta senza contrappunto o senza punto. Come sorge l’immaginazione? Come gestione possibile dell’assenza dello specchio, come gestione possibile dell’abolizione dello specchio, come gestione possibile dell’idea che ognuno ha dello specchio. Come sorge la credenza? Come gestione possibile dell’idea che ognuno ha dello sguardo.

    Causa e oggetto. È un teorema che lo specchio sia l’abietto, come è un teorema che lo sguardo sia l’immondo, come è un teorema che la voce sia l’aberrante. Innominabile il simulacro. Come può assumersi lo specchio? I greci avevano il significante eídolon, che il filosofo epicureo Cazio traduce con spectrum. Il principio di specularità procede dal principio di trasparenza, principio sostanziale, quindi procede dalla chiusura. Lo specchio non è un utensile per vedersi o per guardarsi o per guardare o per vedere l’Altro. Per speculum in aenigmate (Prima lettera ai Corinzi di Paolo, 13, 12). Ma è Alice che immagina qualcosa oltre lo specchio, immagina di entrare nello specchio. La stessa perspicacia è impossibile. Lo specchio è inutilizzabile, non può in nessun modo fare parte di un insieme. Non è denigrabile, come vorrebbe il dispetto di ognuno che presuma di vedersi, di guardarsi, di specchiarsi. Né dispetto né rispetto.

    Non c’è luogo del tempo, quindi non c’è contemplazione. E come possono contemplarsi lo specchio, lo sguardo, la voce? O, addirittura, come ci si può contemplare, ovvero vedersi temporalmente, vedersi nella divisione? Il cospetto rientra nella pompa. Il sistema presume l’uso dello specchio, per ciò il principio di trasparenza e il principio del sospetto. Ciascuno di voi può constatare come il sospetto, idealmente, assuma lo specchio. Il sospetto è l’assunzione sostanziale dello specchio: sub-spicio. Da qui, tutto ciò che è rispettabile, conoscibile, accettabile, spiabile. La parola spia è sempre la parola specchio. Quasi una convertibilità e un’anfibologia fra lo specchio e lo sguardo, nell’idealità. Species, infatti, è la vista, che non è mai la cosa, ma è la res. Specialis è eidikós.

    L’indizio, la marca, il modello dello specchio, quindi lo specimen? Impossibile. La specularità è statica, lo specchio non è né causa né oggetto. Così per la visibilità. Qui lo sguardo, punto di sottrazione e punto di fuga, causa e oggetto. L’idea che ognuno ha dello sguardo può fornire il prospetto. Quale può essere il prospetto, edificato sullo sguardo? Può essere il feticcio, l’oggetto senza la causa, o il fascino, la causa senza l’oggetto. Nel feticcio non c’è provocazione, non c’è questionamento. Nel fascino non c’è ostacolo. È così che l’io si fa soggetto, come supporto e ipostasi o garante del feticcio o del fascino. Il soggetto è estraneo all’identificazione, quindi è anche estraneo al transfert. L’identificazione è la condizione del transfert. L’immaginazione, la credenza, la significazione sono presupposti, sono pregiudizi.

    Come può, con il teorema della transustanziazione, stabilirsi il soggetto? Prendete e mangiate. Impossibile, da allora, il cannibalismo, sia quello algebrico sia quello geometrico. Principio del sistema, principio della sostanza, principio del soggetto: zoologia fantastica, rappresentazione di sé o dell’Altro, parlarsi o parlare dell’Altro. Anche la formula la mia vita rientra in questo parlarsi o parlare dell’Altro, cioè il metalinguaggio è supportato dal soggetto. La consustanziazione è vendetta, colpa e pena. Il discorso medico, il discorso politico e il discorso inquisitorio sono speculari.

    L’oggetto. Noi cogliamo il teorema dell’oggetto, perché è imprendibile, invisibile, non speculare, intoccabile, inafferrabile, inconoscibile. Nessuno vorrebbe imbattersi nell’oggetto né vederlo. Nessuno può edificarlo, costruirlo, fabbricarlo, perché il simulacro è oggetto e causa, è la condizione della struttura della memoria, la condizione della fiaba, la condizione della favola, la condizione della saga, la condizione del viaggio, la condizione stessa del dispositivo del viaggio. Nessuno ha la parola, per ciò nessuno ha né la prima né l’ultima parola, perché sarebbe sempre la parola sulla parola, sarebbe sempre il metalinguaggio, sarebbe sempre la parola su di sé o sull’Altro, o addirittura la parola sulla propria vita. La propria vita: non c’è nulla di più mitologico.

    L’oggetto non si presta. Non si presta come oggetto d’amore né come oggetto di odio, per ciò è vana l’immaginazione, è vana la credenza, è vana la significazione. La vanità è una proprietà del simulacro. Il sé: tu, io, lui, ancora causa e oggetto. Come può farsi tipo, bello o brutto, o archetipo? Nessun oggetto della paura. Allora, lo specchio come oggetto. La paura solo se l’oggetto viene tolto, presentato, così lo spavento. Lo specchio come oggetto non è oggetto della paura. Lo sguardo come oggetto non è oggetto dello spavento. La voce come oggetto non è oggetto del panico o del terrore. Impossibile togliere o mettere l’oggetto, come suppongono le logie. Ciò che incomincia a enunciare Leonardo da Vinci, a proposito del punto e del contrappunto, è di un certo interesse.

    Il trattamento, sociale e politico, dello specchio, dello sguardo e della voce come oggetto. Tutto ciò che si dice dello specchio rientra nella metafora dell’immobile. Tutto ciò che si dice dello sguardo rientra nella metafora dell’occhio. Da qui il malocchio, l’invidia sociale. È lo sguardo, che viene descritto come se fosse l’occhio: candido, malizioso, espressivo, penetrante, meraviglioso, ingenuo, intelligente, inquieto. Tutto ciò che si dice della voce rientra nell’ideologia politica.

    Un contributo Freud l’ha dato, a proposito dello sguardo: das Unheimliche, l’indomestico, lo straniante. Ovvero lo sguardo è la condizione, nella dimensione di sembianza, per cui l’immagine non è identica né simile né opposta né analoga. Una notazione che sfata la mitologia aristotelica. Già i miti indicavano peraltro molte cose, a Gerusalemme, a Atene e a Roma. E anche le fiabe e le favole.

    10 dicembre 2011

    Il centro

    Il centro, per Aristotele, è il basso, il più basso. Se l’alto è il superno, il centro è l’inferno, il ponderabile, il perpendicolare, la gravitazione. La sfera non è cerchio. Come la indica Galileo Galilei, è spirale ma, fra Platone e Aristotele, viene pensata, immaginata, creduta e posta come cerchio. Così, il centro è rispetto al cerchio. La questione chiusa è il cerchio, con il suo centro. L’alto e il basso: viene tolto l’ossimoro – che è il modo dell’apertura, il modo del due – e sostituito con il sistema. Il centralismo è una prerogativa del sistema, da cui dipende il viaggio circolare. Ma il centro, sempre fra Platone e Aristotele, è stato ricercato nel cuore, fino all’anima mundi. Il centro come anima o come nous. Il cosmo, il macrocosmo, il microcosmo, è Platone a presentarlo con la sua anima. L’anima rispetto al microcosmo e l’anima rispetto al macrocosmo.

    Il centro è un significante della lingua greca, kéntron, punto, da kentéo, pungo. Il centro è punto e contrappunto. Assumerlo è impossibile, anche se i greci hanno presunto di farlo e hanno coniato il verbo kéntróo, per fare del punto, del pungolo, un’arma.

    Isidoro di Siviglia, nel capitolo De sphaerae caelestis situ (Etymologiarum sive originum, III, 32), scrive: Sphaera caeli est species quaedam in rotundo formata, cuius centrum terra est ex omnibus partibus aequaliter conclusa. La terra come il centro del macrocosmo. Come anima mundi.

    Le galassie, il centro. Impossibile chiedersi dove stia il centro, perché il centro è proprio il dove, senza parte e senza luogo. Leonardo da Vinci lo dice in modo molto preciso (Ar. 266 r): Il centro non è parte. Centro è quel che non occupa loco né è parte di nessuno. È senza luogo. Oltre a essere illocalizzabile, è insituabile, punto e contrappunto. Valgono, qui, le sue pagine intorno al punto, in cui risulta molto lontano dall’episteme, ma inaugura la scienza. Scrive ancora, nel Codice Atlantico (412 v): Il centro dell’universo non è centro di nessuno elemento. E la terra come balla, sta sospesa infra l’aria.

    Ciò che siamo andati dicendo e scrivendo intorno al punto e al contrappunto attiene al centro. Il centro, simulante e simulacro, simultaneità, senza unità. Fuori e dentro, alto e basso sono l’impossibile quadrato logico, l’apertura, da cui procede anche il centro, sia come punto sia come contrappunto. Ciò che il discorso occidentale avanza è l’idea di centro. Che cos’è il discorso occidentale, come ideologia? È l’idea di centro come idea che agisca e che porti all’azione salvifica. La circolarità è salvatrice.

    Ciò che è stato chiamato il nodo è questo dentro-fuori, questo alto-basso, questa topologia impossibile, dunque ancora il modo dell’apertura. Il centro non è ciò che possa tenere insieme l’universo o su cui l’universo possa poggiare. Non è il punto su cui appoggiarsi o su cui appoggiare o fondare qualcosa. È punto e contrappunto. Il colore del centro è il colore del punto e del contrappunto, quindi la moneta. E la centralità è come dire la puntualità: noi l’avevamo indicata come la numismatica, come la pittura. E la pittura ha la sua condizione nel colore del contrappunto.

    Se la lingua si presume nazionale, idealmente evita il centro e si fa strumento del centralismo. E lo statalismo, idealmente, evita lo stato. Lo stato, il centro, l’idea del punto e del contrappunto opera, non agisce. L’afasia esige l’alterità della lingua. Il perno non è il centro, ma è l’altro nome del tempo.

    Se la dizione procede dall’apertura, secondo l’idioma singolare triale, è interdizione. Inter, tra, la relazione, le righe senza linea, l’intervallo. E il centro, sia come punto sia come contrappunto, è singolare triale. Il suo colore, la sua moneta, la sua carne, l’incarnazione. La teorematica del centro rende inutilizzabili e inassumibili il terrore e il panico. Situare, collocare o stabilire un luogo del centro è la preoccupazione del discorso occidentale, in tutte le sue forme; l’ultima è quella della filosofia illuministicoromantica, più precisamente l’ideologia. Il centro non è temporale, ovvero il centro non è la lotta di classe. Questa è la formula che Marx conia nel 1848. La battaglia e la lotta sono dispositivi pragmatici, sicché il tempo interviene nel pragma. Il centro è la condizione del dispositivo della parola; anche il cervello può intendersi come dispositivo intellettuale, come l’assemblea.

    Il centro viene collocato o nella relazione o nella nazione, quindi nella struttura, o nel dispositivo, anche in quel dispositivo chiamato assemblea. Così, il centro della cristianità sarebbe la chiesa, l’assemblea. È questa ideale convertibilità fra il centro e il perno, il comitato centrale, la struttura centrale o le strutture centralizzate. Il centro non può nazionalizzarsi: né statalizzarsi né nazionalizzarsi. E non c’è chi sia eccentrico, perché il fuori e il dentro, l’alto e il basso sono il modo della relazione.

    La sostanzialità e la mentalità assumono, idealmente, sia il centro sia il tempo; assumono l’abolizione del centro e del tempo. Questa assunzione è la creazione stessa del soggetto. Così, il centro come condizione è l’idea di centro, logica stigmatica e logica operazionale, procedendo dall’apertura. La legge, l’etica e la clinica sono il compimento della scrittura, in un processo intellettuale che si attiene all’apertura e all’idioma singolare triale. L’idioma come condizione, come operazione, come dimensione, come funzione.

    L’equilibrio è il modo della relazione, il modo dell’inconciliabile. Con la conciliazione, nessun equilibrio. La conciliazione fra corpo e scena, oppure fra giuntura e separazione, proporzione e improporzione, è sistemica, è un segno del sistema. Il centro procede dall’equilibrio, ma non sta nell’equilibrio, l’equilibrio non si fonda sul centro.

    Nessun paese europeo può farsi il centro dell’Europa. Sarebbe un’idealità, platonica o aristotelica.

    17 dicembre 2011

    L’Europa

    L’Europa, i suoi miti, le sue leggende, le storie, i racconti, anzitutto le favole, le fiabe, forse la saga. Questi miti, queste leggende, le stesse fiabe indicano che l’Europa ha le sue radici, che non sono fiabesche, non sono religiose, non sono, segnatamente, epistemiche, ovvero gnostiche.

    I miti: l’Europa è fenicia, è greca, è romana, è ebraicocristiana? Attorno all’Europa, i miti diventano mitologie, smarriscono le radici e anche le strutture e le scritture. Le scritture, anziché la scrittura, in quanto concernono ciascuno dei tre registri del viaggio. Le radici e le strutture dell’Europa sono quelle della parola, sono quelle del rinascimento della parola e della sua industria. Che l’Europa non sia gnostica, quindi non sia epistemica: sta qui la portata, sta qui la rivoluzione, stanno qui la virtù e il valore.

    L’Europa nasce nel rinascimento, con la lingua, per ciò nasce la sua storia, che si scrive, e nasce la sua industria, che si scrive. Nascono la politica, la diplomazia, la comunicazione non più diretta, la comunicazione nella sua lontananza, nella sua inassumibilità, non più soggetta alla relazione sociale. Sfiora la questione Friedrich Nietzsche: è lui a dire che l’europeo è l’europeo del rinascimento. Contro il rinascimento della parola e la sua industria Nietzsche dice che si pone l’ideologia tedesca; ma è anche l’ideologia illuministicoromantica, non soltanto tedesca; è anche l’ideologia della riforma, quindi lo stesso cartesianesimo. In questa reazione ideologica, riprende l’idea del bene, per tanto l’idea dell’impero, l’idea di morte, l’idea di padronanza, l’idea di origine; riprende, cioè, l’idea della circolazione. Per Nietzsche, da questa idea dipende l’idea di progresso, ma anche l’idea di evoluzione. Infatti, scrive (L’Anticristo, 1888): "L’umanità non rappresenta, come si ritiene oggi, un’evoluzione

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