La protesta e l'amore: conversazioni con Luca Bonaffini
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Un altro modo per raccontare la faccia oscura della luna che continua a spuntare dal monte ma non per tutti. Prendetela come una storia esemplare, piovuta dritta dal B-side del cantautorato italiano. Dove la “B” è da assumersi come collocazione imposta (a volte auto-imposta). Tutt’altro che una diminutio, o una sottospecie.
Luca Bonaffini scrive-canta-suona per sé e per gli altri da trent’anni buoni. Lo fa gettando il cuore oltre ogni ostacolo, per chi ha orecchie e testa per intendere. Lo fa perché non saprebbe fare altrimenti. Lo fa con ostinazione prima ancora che per atto di sincerità.
Questo libro raccoglie molto della sua storia – l’anti-epica di un attraversatore di sogni, riff, facce da rock and roll (o, insomma, giù di lì) – così come è venuta fuori dagli incontri che ho avuto con lui nel corso del tempo.
Spero vi piaccia e che vi faccia anche incazzare. Un po’ come succede nella vita quando siamo alle prese con la protesta e l’amore.
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Book preview
La protesta e l'amore - Mario Bonanno
Lolli
Tra le stelle di Fellini e i dischi degli Inti Illimani (falso movimento) Parte I
Sono nato in un paese di miraggi transpadani
Tra le stelle di Fellini e i dischi degli Inti Illimani
(Luca Bonaffini , L'oasi dei nannùfari)
L’idea che ho di te è quella di un cantautore misurato. Nel senso che le tue canzoni girano alquanto alla larga da prese di posizioni decise, per non dire schierate e/o virulente. Allora, come prima cosa, vorrei che mi spiegassi un paradosso, il paradosso Bonaffini
come lo chiamo io. Dò un’occhiata ai crediti dei tuoi dischi e dentro ci trovo anche i nomi di Claudio Lolli e Pierangelo Bertoli, due che certo non godono fama di santarelli musicali, lontani anni luce dallo specifico a te più congeniale. Saresti così gentile da svelarmi il mistero?
Esiste innanzi tutto una identità generazionale. Nel senso che il sottoscritto è considerato appartenente alla terza generazione cantautorale italiana, da qualcuno detta l’ultima. Andavo ancora a scuola quando ascoltavo nelle musicassette pirata Claudio Lolli (parlo del 1977) e sentivo le prime hit di Bertoli, trasmesse da Radio Base, una delle primissime radio libere, nate in quegli anni. Avevo iniziato a prendere confidenza con la chitarra, perché frequentavo un gruppo di ragazzi che suonavano. La tradizione orale (corale, in questo caso) è stata la vera forza, nonché la fortuna, di tutti quei cantautori osteggiati dal sistema mediatico che cantavano, suonavano e parlavano complicato
.
Certo, in spiaggia oppure in piscina, Ti amo di Tozzi non faceva fatica ad essere affiancata a Il ragazzo della Via Gluck e a La canzone del sole. Ma le Vecchia piccola borghesia, Aspettando Godot, Il centro del fiume e Non vincono (per citare canzoni grosse di autori che successivamente avrebbero determinato anche la mia carriera
) erano il patrimonio parallelo (e alternativo) che quel gruppo di adolescenti suonanti stava ereditando dalla generazione precedente (quella dei sessantottini, per intenderci).
Un passaggio di testimone importante, se non addirittura decisivo sotto il profilo culturale prima ancora che musicale…
Dopo trenta e passa anni di nomadismo musicale alla ricerca dell’arpa perduta (che ce l’abbia ancora Vincenzo Zitello?), ci siamo anche resi conto (forse?) di quanta confusione fosse presente nella testa dei ragazzi di allora (quelli nati tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60). Basti pensare ad alcuni scout di mia conoscenza, di stampo inequivocabilmente cattolico, che urlavano a squarciagola Affacciati, affacciati di Bennato che, senza tante sotto-letture, si rivolgeva in maniera oltraggiosa a Paolo VI. Poi andavano a messa e intonavano Il Signore è il mio Pastore. Confusione, appunto…
Si era all’inizio del tutti contro tutti che ha caratterizzato l’Italia di quegli anni…
Alla fine degli anni ’70, per uno studente di provincia come il sottoscritto, collocarsi tra due blocchi secchi (quello comunista-rivoluzionario e l’altro fascio-centrista-reazionario) era già fuori tempo. Ascoltando le sceneggiate di Almirante e le ultime ansimate (demagogiche) di Berlinguer in tv, non ci rendevamo conto che il paese era diventato una succursale degli Usa, con tanto di basi Nato e antenne anti-sovietiche ben installate ovunque. Nel frattempo, tra residui ideologici neofascisti e di estrema sinistra, l’Italia esercitava una politica allegra che radunava numeri sempre maggiori verso il centro. Ti Ricordi? La Democrazia Cristiana imperava, calamitando verso di sé anche partiti di sinistra storici
come il Partito Socialista Italiano.
Eccome se me lo ricordo: fuori il Parlamento, a destra come a sinistra, era tutto un proliferare di gruppuscoli, dentro era in atto una vera e propria parcellizzazione del potere politico...
Proprio così, si trattava di un processo di deframmentazione che, piano piano, avrebbe portato l’Italia a uno sfaldamento ideologico. Mi viene ancora da sorridere quando penso a qualche elettore del democratico
PCI (un altro dei misteriosi ossimori del nostro Stivale) e a qualche catto-sinistrorso che, dopo aver cantato Auschwitz di Guccini, assumeva posizioni anti-americaniste contro lo Stato Ebraico. Filo che? Filopalestinesi, però antinazisti?
Credo che a un certo punto, in Italia, tutto abbia iniziato ad andare troppo veloce.
Persino a essere troppo: troppo intenso, troppo ricco di ogni cosa, troppo poco chiaro.
Mia madre mi racconta che, dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa era un cantiere di braci e speranza. L’Italia, vincitrice e sconfitta al tempo stesso, doveva pagare un debito morale verso il mondo e il continente, per aver scelto di camminare a fianco di uno psicopatico megalomane e stragista.
C’era tutto da sognare e da ricostruire dentro questo Paese in bianco e nero.
Quando ho iniziato a suonare la chitarra, e a buttarci dentro le mie prime urgenze in musica, era arrivato da poco il televisore a colori. E forse sta qui la vera risposta alla tua domanda.
Il nuovo cantautore (quello, appunto, della terza generazione) forse è proprio dall’uomo che doveva ripartire: soprattutto da sé stesso, dal non perdere il senso della civiltà che, con il benessere mal gestito, avrebbe rischiato di annullare i valori dolorosamente e faticosamente riconquistati.
Per quanto mi riguarda, una volta presa coscienza del mio essere cantautore (o di volerlo fare per missione e mestiere), il mio desiderio era quello di creare un ponte culturale, artistico e musicale tra la generazione della protesta d’autore e la nostra, quella dei sopravviventi al genocidio dei valori, dei significati e del senso dell’esistenza.
Tutto vero. Quando hai cominciato a pubblicare dischi era il 1988. Gli zingari avevano già smesso di essere felici e sul fronte meno politicizzato si era persino smesso di sognare California. Perché un ragazzo di solide basi culturali e finanche di buona famiglia mantovana decide fuori tempo massimo di sfidare le intemperie della discografia?
In realtà, la mia testa tra le nuvole era piena di dischi volanti. I 45, i 33 giri. Mamma mia. Che meraviglia. Svegliarsi la mattina e accendere la radio per divorare le novità discografiche. Ok, era la moda di allora, questo va confessato. I dischi (soprattutto i giradischi, detti anche piatti) corrispondevano agli iPad e iPhone di oggi. Ci facevano compagnia, ci davano energia. Facevano sì che noi ragazzi avessimo sempre qualche argomento da condividere.
Io, poi ero un tipo molto fantasioso…
Dicevano che, fin da piccolissimo, ero l’emblema della fantasia incarnata.
Già che ci sei, accennami allora qualcosa del Luca bambino…
Da piccolo amavo disegnare: mio padre dipingeva quadri e forse io volevo essere come lui. Successivamente mi sono appassionato di cinematografia, perché mia madre ha gestito per tanti anni una galleria d’arte all’interno di un vecchio Cinema (che non esiste più) chiamato Andreani.
Infine avevo fuso le due passioni, cercando di illustrare coi pennarelli film immaginari.
Ti ricordi della musica che girava per casa?
Mio padre, dotato vocalmente di una naturale estensione tenorile, amava Sinatra e Latilla, e detestava Battisti e tutta la musica leggera degli urlatori
anni ’60. Ezio, il giovane mio zio, girava il mondo. Aveva soltanto dieci anni più di me e una collezione di vinili da far invidia alla EMI. Possedeva una montagna di dischi. Tutta musica proveniente dall’Inghilterra e da oltreoceano, rubata con le orecchie a Radio Luxemburg.
In poche parole: sono sempre stato circondato dalla musica finché, un giorno, ho trovato in casa la chitarra di mio fratello Massimo (una chitarra quasi giocattolo) che, dopo diverse insistenze, mi ha insegnato la posizione dell’accordo di Do Maggiore.
Si pentì quasi subito perché non cambiavo mai accordo anche se ci cantavo sopra melodie diverse, rompendo la scatole a tutti.
Però non volevo fare il cantante. Non mi piaceva cantare.
Come sarebbe?
Mi spiego meglio. Il mondo dello spettacolo mi ha sempre attratto, ma quello dell’arte mi affascinava.
Quando cominciai a scrivere le prime canzoni, i cantautori erano giunti alla massima vetta commerciale, sbaragliando flotte di colleghi-interpreti, impossessandosi del mercato. I dischi che uscivano erano come i libri e i film. Erano contenitori di diverse discipline governate in primis dalla musica, che spaziavano dal teatro (Gaber) alla poesia (De Gregori), dalla letteratura (vedi De Andrè, Guccini), alla sperimentazione (Battiato, Dalla).
E poi, le copertine…
Ah non parliamo delle copertine, per quanto mi riguarda alcune di loro sono vere e proprie madeleine. Struggenti, bellissime…
Forse ti riferisci ai dischi apribili. Vere e proprie opere d’arte con racconti, illustrazioni, report fotografici. Per farla breve: mi affascinava l’aspetto documentale del supporto fonografico. Appassionato collezionista di fumetti e libri per ragazzi, non potevo non amare questo nuovo modo di fare arte e cultura. Poi, con l’arrivo degli anni ’80, la musica è diventata un bene di consumo secondario, il vinile è entrato in crisi, la musicassetta è diventata più rara. Io però avevo già investito la mia esistenza in questo settore, avendo scritto già un centinaio di canzoni…
Quindi, a quel punto, perché tirarmi indietro?
Come dire che c’eri già dentro fino al collo…
Esatto. Ho cominciato a girare per case discografiche nel 1981, subito dopo il diploma magistrale. Mi ci sono voluti quasi dieci anni prima di trovarne una disposta a interessarsi al sottoscritto.
Il mercato del disco, frattanto, era peggiorato. Io, però, non mollavo.
Prima come le collaborazioni, poi qualche breve passaggio sulla TV nazionale, qualche concerto, ma soprattutto diverse canzoni che cominciavano a piacere non solo agli amici e ai parenti, hanno fatto in modo che potessi resistere al riflusso. Come gli altri colleghi miei coetanei, del resto.
Sì, ma non mi hai ancora ben spiegato il paradosso Bonaffini
: cosa c’entri tu con i cantautori di