Crisi economica e risposte della politica: La political economy regionale dagli ammortizzatori in deroga alla riforma degli ammortizzatori sociali
By Rosa Mulé and Livia Di Stefano
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Crisi economica e risposte della politica - Rosa Mulé
2009).
Parte I
La crisi economica
e gli ammortizzatori in deroga
Capitolo I
La political economy degli ammortizzatori sociali in deroga
1.1 Premessa
La letteratura degli ultimi venti anni individua nuovi rischi sociali che si intrecciano ai cosiddetti vecchi rischi sociali (Ascoli, 2011; Bonoli, 2005; Fargion e Gualmini, 2012; Morel et al., 2012; van der Vien et al., 2012). I nuovi rischi sociali emergono da numerosi fattori, tra i quali i cambiamenti della struttura famigliare e i mutamenti del mercato del lavoro. Questi ultimi si caratterizzano, tra le altre cose, dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro e dalla disoccupazione creata dai processi di internazionalizzazione e di delocalizzazione della produzione. Tali condizioni aumentano l’incidenza della disoccupazione di lungo periodo e del lavoro part-time, acuiscono le difficoltà di conciliare lavoro/famiglia, e sollevano il problema della cura degli anziani e dei bambini un tempo affidata alle donne (Ciarini, 2011; Pugliese, 2011). Gli individui più esposti ai nuovi rischi sociali sono quindi gli anziani, i bambini, i lavoratori part-time, gli operai non specializzati e le donne.
I vecchi rischi sociali del secolo XIX derivano dalla diffusione dei processi di industrializzazione e di urbanizzazione che investono i paesi europei alla fine dell’Ottocento. Per Di Palma, in questo periodo nasce il ‘governo del sociale col sociale’ (2011, 18). I vecchi rischi sociali includono la disoccupazione di massa, l’invalidità e la vecchiaia, rese più problematiche dalla progressiva scomparsa della famiglia estesa nei paesi industrializzati.
Per descrivere le politiche sociali volte a proteggere gli individui dalla precarietà scaturita dai vecchi rischi sociali nel periodo post-bellico, Lord Beveridge conia il termine ‘welfare’ state, in contrapposizione al ‘warfare’ state, lo stato del benessere che sostituisce e si contrappone allo stato di guerra.
La diffusione del welfare state nel dopoguerra viene spiegata nella letteratura come esito dei rapporti di forza tra le associazioni dei lavoratori e le organizzazioni degli imprenditori. Nel classico modello proposto da Walter Korpi (1985), il power resource model, le politiche di welfare riflettono l’equilibrio di potere e i compromessi raggiunti tra operai e datori di lavoro. Schematizzando, in quei paesi in cui le associazioni dei lavoratori sono forti e coese, le prestazioni economiche saranno più generose e i servizi sociali di alta qualità. Per Korpi, quindi, comprendere le politiche che tutelano gli individui dai rischi sociali significa analizzare la distribuzione del potere fra gli attori sociali. Anche il suo allievo più illustre, Gosta Esping-Andersen, adotterà una versione di questo modello nel celebre libro intitolato Three Worlds of Welfare Capitalism (1990).
La questione cruciale è che nel power resource model la capacità di mobilitazione delle associazioni dei lavoratori poggia essenzialmente sulla omogeneità della loro base sociale. Si tratta di un elemento fondamentale perché è proprio questa omogeneità a favorire la formazione di partiti politici tesi alla difesa degli interessi di una sezione dell’elettorato, la cosiddetta classe gardée (Duverger, 1951; trad. it. 1961).
L’omogeneità sociale dei bacini elettorali, inoltre, contribuisce a costruire la più grande innovazione organizzativa della politica nel XX secolo: il partito di massa. Con l’estensione del suffragio i partiti di massa socialisti e confessionali si affermano in molti paesi europei, e grazie alla loro capacità di articolare gli interessi della loro base sociale, i partiti di massa rendono conto del relativo successo con cui gli individui esposti ai vecchi rischi vengono progressivamente tutelati dai governi. In sostanza, nella letteratura tradizionale è la forza organizzativa e politica dei gruppi sociali nell’arena elettorale a spiegare la formazione delle politiche di welfare.
Questa interpretazione mainstream delle politiche sociali post-belliche si attaglia bene agli sviluppi storici degli inizi del Novecento, segnati dalla diffusione del processo di democratizzazione. Per usare la metafora di Przesworski e Sprague (1986), il suffragio universale finalmente consente alle classi meno privilegiate di abbandonare forme di lotta antisistema per recarsi invece alle urne e lanciare paper stones. Questi ‘sassi di carta’ sono le schede elettorali compilate dai lavoratori per mandare al governo i partiti di massa socialdemocratici, più sensibili alle loro richieste di giustizia sociale. La democratizzazione affranca milioni di lavoratori e spiega il successo elettorale di governi e coalizioni di sinistra nel dopoguerra, che poggia sulla coesione e omogeneità sociale degli elettori di questi partiti.
Tale coesione e omogeneità era uno dei fattori che consentiva all’unità organizzativa del partito di massa, la cosiddetta cellula, di riunire nelle fabbriche tutti gli iscritti al partito che lavoravano nello stesso luogo, facilitando in questo modo la diffusione di informazioni, la comunicazione e l’educazione alla politica degli iscritti. La classe guardée, dunque, era circoscritta, ben identificabile e, soprattutto, in grado di essere mobilitata a fini elettorali e politici (Bartolini, 2000).
Ora, il problema che si pone nel terzo millennio è che gli individui esposti ai nuovi rischi sociali sono tutt’altro che omogenei. I lavoratori part-time, i giovani, le donne, gli operai non specializzati sono spesso privi di una base professionale ove incontrarsi, discutere e organizzarsi, come accadeva invece con la cellula del partito di massa. È dunque l’eterogeneità sociale di questi individui a minare la loro capacità di aggregazione e di articolazione delle domande agli organi decisionali.
Se questa vulnerabilità sociale caratterizza la domanda politica, dal lato dell’offerta i mutamenti sono altrettanto profondi. La trasformazione dei partiti di massa in partiti professionali-elettorali è segnata da uno spostamento di attenzione da parte dei leaders dalla società civile alle istituzioni statali (Katz e Mair, 1995). La principale conseguenza è il crescente disinteresse dei dirigenti politici verso le istanze dei loro seguaci. Sempre più svincolati dalle richieste della base, i leaders partitici gradualmente abbandonano il territorio per concentrarsi nelle istituzioni statali (Ignazi, 2012).
La letteratura politologica non chiarisce quale sia la causa e quale l’effetto di questo fenomeno. Se cioè sia l’allontanamento dei partiti dagli elettori a provocare la defezione degli iscritti, oppure se sia una ‘emancipazione’ degli iscritti dalle organizzazioni di partito a spiegare il loro distacco e la crescente debolezza che le organizzazioni di partito sperimentano nel territorio.
Un dato inconfutabile, tuttavia, è che se stratifichiamo l’organizzazione di partito nelle classiche tre facce, il partito nelle assemblee legislative, il partito nelle strutture centrali, il partito nel territorio, è quest’ultimo a perdere spessore e rilevanza. Infatti una schiacciante dimostrazione della crescente debolezza del partito nel territorio è la drastica riduzione del numero degli iscritti ai partiti negli ultimi vent’anni. Basti osservare che negli anni Sessanta gli iscritti ai partiti nei paesi democratici dell’Europa occidentale erano in media il 10% degli elettori, alla fine degli anni Novanta la media si dimezza al 5% (Van Biezen, Mair e Poguntke, 2012).
Quale che sia la ragione di tale allentamento del legame tra organizzazioni di partito e aderenti, il punto centrale, ai fini del nostro lavoro, è che la combinazione di eterogeneità sociale da un lato e di statalizzazione dei partiti politici dall’altro altera radicalmente la politics delle politiche sociali, inficiando la plausibilità dei tradizionali schemi interpretativi basati sul power resource model. Come già detto, essi poggiavano sull’omogeneità della classe lavoratrice, oggi meno compatta, e sullo stretto legame tra partiti e società civile, un legame che si è indiscutibilmente indebolito con l’avvento del partito professionale-elettorale.
In breve, le interpretazioni tradizionali del rapporto tra politica e politiche sociali poggiano su assunti oggi non più sostenibili. Per questa ragione esse non rendono conto delle politiche tese a proteggere gli individui dai nuovi rischi sociali.
Alla luce di queste osservazioni non sorprende che, contrariamente alle previsioni della letteratura tradizionale, le risposte di policy date dai governi all’emergenza di nuovi rischi sociali a volte tutelano anche gruppi debolmente organizzati (Bonoli, 2005). Per spiegare tale ‘anomalia’, Bonoli (ibid.) avanza l’ipotesi che il policymaking connesso ai nuovi rischi sociali sia caratterizzato da patterns e meccanismi del tutto originali. A suo avviso, le politiche volte a tutelare gli individui dai nuovi rischi sociali presentano tre nuovi elementi: uno scambio politico ‘inconsueto’, compromessi moderni (modernizing compromises), e interessi convergenti dei soggetti politici coinvolti.
La nostra tesi è che questi tre elementi, senz’altro interessanti e utili a fini analitici, siano insufficienti a spiegare la logica delle nuove politiche del mercato del lavoro italiano. In particolare, a nostro avviso, il successo e la diffusione di nuove modalità di tutela dei lavoratori disoccupati dipende sì da una convergenza di interessi tra le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, ma che conduce a un cambiamento intrinseco alle politiche degli ammortizzatori sociali, ovvero a una articolazione dei loro fini. L’articolazione dei fini scaturisce da un mutamento di logica degli ammortizzatori sociali, più precisamente dallo spostamento degli obiettivi da mera assistenza ai lavoratori disoccupati, cioè da politica passiva, all’integrazione di politiche attive e passive (Mulé, 2013). Tale cambiamento di logica innesca, a sua volta, un mutamento delle basi organizzative della politics del mercato del lavoro, dando origine al neocorporativismo regionale con l’Accordo Stato-Regioni del 2009 (vedi capitolo II).
Per comprendere l’importanza di questa trasformazione, sia della logica della policy sia delle basi organizzative della politics, ricordiamo che le politiche sociali si sono consolidate durante i trente glorieuses, il periodo che va dal dopoguerra fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso ¹. In questo periodo, la crescita economica offriva l’opportunità ai governi dei paesi più avanzati di rispondere alle richieste di tutela del reddito da parte dei lavoratori con generosi sussidi di disoccupazione e un’ampia copertura. È possibile che oggi siamo intrappolati in una fase di permanent austerity (Pierson, 1998) e le politiche passive di sostegno al reddito sembrano meno praticabili, almeno nelle modalità e con le finalità assunte in passato. Per questo motivo uno dei cardini del cosiddetto social investment welfare state consiste nella combinazione di politiche del lavoro attive e passive (Morel et al., 2012).
Nelle pagine seguenti esploreremo empiricamente il ruolo del mutamento dei fini degli ammortizzatori sociali e delle basi organizzative delle politiche del mercato del lavoro per comprendere l’introduzione e la diffusione degli ammortizzatori in deroga in Italia. Precisiamo subito che non intendiamo riassumere le peculiarità del mercato del lavoro in Italia e ci concentriamo invece sugli ammortizzatori sociali in deroga, introdotti nell’ordinamento italiano a partire dal 2001 ed utilizzati dal governo Berlusconi per dare una risposta ai lavoratori delle piccole e medie imprese (PMI) escluse dagli ammortizzatori sociali ordinari ².
Osserviamo che con l’estensione della copertura gli AD non rappresentano più un espediente ad hoc bensì una policy generale per la concessione di ammortizzatori sociali a quasi tutte le realtà che ne sono escluse. Come afferma un rappresentante dei sindacati dei lavoratori in Lombardia, ‘all’inizio vi erano target specifici, in particolare la moda e il metalmeccanico in genere, poi la CIG in deroga è stata estesa a tutti, quando la crisi ha coinvolto tutti.’ Ciò significa che dopo lo scoppio della grande crisi economica del 2008 la policy degli AD abbandona lo status quo ante in favore di un nuovo equilibrio.
Nonostante la diffusione di questo strumento in tutte le regioni italiane, i politologi hanno dimostrato scarso interesse per gli ammortizzatori in deroga ³. Tale disinteresse a nostro avviso è ingiustificato perché riteniamo che la prospettiva politologica offra strumenti di analisi utili e interessanti per comprendere la political economy degli ammortizzatori in deroga. Più in generale, la letteratura politologica è necessaria per scrutare il potere discrezionale associato all’erogazione degli AD, devoluta dallo stato alle regioni e ai loro partner sociali. L’ampia discrezionalità della policy è una delle caratteristiche distintive su cui concordano gli studiosi che si sono occupati di questa tematica (Barbieri, 2009; Di Lieto e Rizza, 2010; Liso, 2009; Mulé, 2013).
Ricordiamo che sebbene gli AD siano una policy esclusivamente italiana, tutti i paesi europei fanno ricorso a misure di emergenza per contenere le conseguenze sociali della crisi economica, sostenere i livelli di occupazione e il reddito dei lavoratori sospesi o disoccupati (Berton et al., 2012). Anche in Italia i governi formulano e implementano programmi politici per tamponare i nuovi rischi sociali, quali la disoccupazione di lungo periodo (Fargion e Gualmini, 2012). Questo problema è particolarmente acuto in Italia, perché il mercato del lavoro è segnato da una struttura di produzione dualistica con una minoranza di grandi imprese, soprattutto industrie manifatturiere, protette dalla legislazione ordinaria sugli ammortizzatori sociali, i cosiddetti insiders, e una maggioranza di piccole e medie imprese i cui lavoratori sono privi di protezione, gli outsiders.
La semplice divisione in due categorie di lavoratori, gli insiders e gli outsiders, tipica della letteratura sul mercato del lavoro italiano, è stata recentemente criticata perché trascura i lavoratori mid-siders, come li ha definiti Jessoula et al. (2010). I mid-siders costituiscono circa un terzo dei lavoratori occupati in imprese con meno di 15 lavoratori e che non possiedono i requisiti per i sussidi di disoccupazione.
1.2 La crisi economica e i mid-siders
Il ruolo svolto dalla grande crisi economica nella diffusione degli AD sembra cruciale, confermando la tesi secondo cui il mutamento delle politiche pubbliche è scatenato da shock esterni quali, appunto, le crisi economiche (Cartwright, 1994; Sabatier e Jenkin-Smith, 1993). Tale linea interpretativa sostiene che la spinta propulsiva generata da shock esogeni abbia la «capacità» di avviare mutamenti in grado di superare la stickiness istituzionale delle politiche pubbliche (Capoccia e Keleman, 2007; Pierson, 1998). Questa interpretazione è avvalorata dalle opinioni di un esponente di Confindustria Lombardia:
la grande crisi ha cambiato tutto, è arrivata improvvisamente a settembre del 2008, quando al ritorno dalle ferie ci siamo trovati di fronte ad una situazione veramente drammatica: improvvisamente cali di ordini del 60-70% in imprese che fino a luglio avevano anche assunto persone, soprattutto quelle del settore metalmeccanico […] Sicuramente l’ammortizzatore in deroga ha permesso di traghettare molte imprese, al di là dell’appartenenza ad un sistema o ad un altro, da un periodo di grande crisi improvvisa – perché c’è stato veramente l’elemento reale e concreto del trovarsi da un momento all’altro, a fine anno, in una situazione del genere – verso un superamento della