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Dorian Curze
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Ebook489 pages7 hours

Dorian Curze

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About this ebook

Su Aurus, un tempo, vi era un uomo. Un uomo che in vita era stato in grado di cambiare le sorti del suo mondo, di plasmare il corso degli eventi con le sue azioni. Ricordo com’è vissuto, ricordo com’è morto. Ricordo che fu l’allievo prediletto di Ezekyel, con il quale diede origine al grande sogno di pace che fu Aurora, un sogno che fu infranto dalla brama di potere di chi Ezekyel aveva seguito per puro opportunismo. Dorian Curze, questo era il suo nome.
Ma Dorian non poteva sapere ciò che oltre la morte lo aspettava.
Non ciò che i falsi predicatori millantavano esserci, non una distinzione tra bene e male, ma un mondo dove la pace per i morti non è contemplata, dove le anime dei caduti sono la base che nutre un sistema creato sin dalla notte dei tempi.
Executio, creature immortali, mietitori di anime per i loro signori, nulla possono i viventi se non sottostare a quelle invisibili leggi che da sempre assoggettano il mondo, sin da quando gli Antichi Dei imbrigliarono il potere della Morte per controllare Aurus, il potere di Angorn.
Ma Dorian Curze ancora non sapeva. Non sapeva che sarebbe stato costretto a tornare a combattere, persino da morto. Ricordo bene il momento in cui persino gli Antichi Dei ebbero paura, in cui il dubbio si insinuò nei loro cuori, quel dubbio che urlava nei loro animi che persino la morte può morire.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateJul 30, 2013
ISBN9788867821334
Dorian Curze

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    Dorian Curze - TIZIANO BARONI

    GDS

    Tiziano Baroni

    Dorian Curze

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel.  02  9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Collana ©AKTORIS

    Copetina: progetto iniziale di Jessica Franchi, elaborazione e realizzazione di  ©Alessia Monti

    Tutti i diritti riservati.

    "Uomini cui pietà non convien sempre,

    male accettando il destino comune,

    andate, nelle sere di novembre,

    a spiar delle stelle al fioco lume,

    la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,

    muover le tombe e metterle vicine

    come fossero tessere giganti

    di un domino che non avrà mai fine.

    Uomini, poiché all'ultimo minuto

    non vi assalga il rimorso ormai tardivo

    per non aver pietà giammai avuto

    e non diventi rantolo il respiro:

    sappiate che la morte vi sorveglia

    gioir nei prati o fra i muri di calce,

    come crescere il gran guarda il villano

    finché non sia maturo per la falce."

    Fabrizio De Andrè

    "Nella vita l'unica cosa certa è la morte,

    cioè l'unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza. "

    Sören Kierkegaard

    "Nasciamo una sola volta, due non è concesso;

    tu, che non sei padrone del tuo domani, rinvii l'occasione di oggi;

    così la vita se ne va nell'attesa,

    e ciascuno di noi giunge alla morte senza pace."

    Epicuro

    "Le masse popolari sono incoerenti,

    piene di riottosi desideri, passionali e imprevigenti delle conseguenze;

    devono essere riempite di paura per tenerle a bada.

    Per questo gli antichi ben fecero ad inventare gli dei

    e l'idea della punizione dopo la morte."

    Polibio

    PROLOGO

    - L'OMUNCOLO -

    Si svegliò come suo solito, senza essersi mai addormentato. L'Omuncolo si guardò attorno, e la stanza non gli era parsa mai così piccola e stretta. È ora. disse, e la porta che aveva richiamato si formò e si aprì. Entrò nella sua fucina con lento passo, la fornace era sempre accesa, l'incudine pronto per essere percosso, gli stampi, e il metallo grezzo in attesa di essere lavorato. Bene... Non ho molto tempo. disse in un gorgoglio, mentre prendeva il suo martello preferito dalla fascia magnetica attaccata alla parete, e gettava il metallo a sciogliersi al calore della fornace.

    Quel giorno, in un luogo che non aveva un nome, creato tra il tempo e lo spazio di uno dei tanti mondi, Aurus, un incessante battere sul metallo riempì l'aria, assieme ai grugniti di fatica di un Omuncolo, il cui martello non si fermò finchè il primo pezzo non fu ultimato, e messo a raffreddare in una vasca piena d'acqua. E uno è andato... sussurrò l'Omuncolo, gettando un panno intinto di sporco e sudore in un angolo della fucina, per poi riprendere il suo faticoso lavoro.

    Sarebbe stato il primo panno a essere gettato in quell'angolo, il primo di una lunga serie.

    CAP 1

    - HORUS -

    Horus si passò una mano tra i capelli violacei, appiccicati alla fronte dal sudore. Il riflesso della luce dell'olomessaggio sfavillava sul suo volto coperto da un ghigno di granitico disgusto, mentre i suoi occhi passavano dall'immagine avanti a sé all'Attendente Gravius, ancora inchinato ad aspettare una sua parola. Socchiuse gli occhi e sospirò, mordendosi il labbro inferiore. Uccisa. 

    L'Attendente Gravius sussultò. Le sue tre gambe emisero uno scricchiolio sinistro che tanto aveva di vecchiaia. S-sì, m-mio signore. disse, sfiorando quasi il pavimento con il naso.

    Ora, supponiamo che non sia uno scherzo di pessimo gusto Horus lo trafisse con uno sguardo algido. Dimmi com'è stata possibile una cosa del genere!

    Le due imponenti Guardie della Morte, imprigionate nelle loro pesanti armature nere, si svegliarono dalla loro immobilità e sollevarono appena i fucili verso Gravius, il quale abbassò lo sguardo in preda a fremiti. Co-così è, m-mio signore. Ne-nemmeno io ci credevo. La sua cripta, signore, è... È ancora vuota, e il corpo è... Ancora su Aurus.

    Quando? chiese Horus.

    O-oggi, mio signore. Circa sei ore fa. Gravius non sapeva dove guardare: Se il suo signore o le canne dei fucili alle sue spalle.

    La domanda di Horus giunse con un sibilo: E Dove?

    S-settore H, mio signore.

    E soprattutto... Come?

    No-non lo so, mio s-signore. Gravius deglutì sabbia.

    Horus picchiettò le dita sui braccioli del suo trono d'ebano, nato dalla roccia stessa del suo palazzo. Il suo sguardo passò lento e misurato su tutta la stanza, dalle colonne di marmo nero dalle venature a spirale, al soffitto rifinito in oro e argento, tempestato di preziose opali bianche in un disegno che ritraevano il simbolo del suo regno. Il silenzio calò come un manto oscuro, tanto pesante da seppellire le urla che provenivano dall'esterno, i gorgoglianti tuoni che irrompevano nel cielo annunciati da lampi purpurei, che disegnavano irregolari e frastagliati archi.

    Gli occhi del signore del Maledicta si posarono di nuovo sull'Attendente, e per un attimo ponderò l'idea di scarnificarlo e porre fine a quella misera esistenza. Si alzò solenne, facendo scricchiolare ogni scaglia della sua armatura, e lasciando che il mantello d'ombra si muovesse come vivo alle sue spalle. Un respiro profondo, calmo, che risuonò nella stanza come un lieve brontolare delle acque d'un profondo pozzo. Scese i due gradini del soppalco che reggeva il suo trono, e giunse di fronte a Gravius, in tutti i suoi tre metri di statura. L'espressione rilassata, ma priva di sorriso.

    Gravius cercava di non staccare lo sguardo dai suoi piedi, le mani gli tremavano, e avrebbe preferito fuggire in lacrime e nascondersi nel più remoto buco tra le case degli Oscuri. Cercando di trovare una minima scintilla di coraggio dentro di sé, aprì bocca e disse: I-io... N-non so. Non so come sia potuto accadere, mio signore. È assurdo! Il gelido abbraccio della morte gli si avvinghiò attorno all'anima, pungente come strali di ghiaccio conficcate nelle carni. Il suo volto fu preda delle dita del suo signore, sollevato pian piano fino a incrociarne l'algido sguardo. In quel momento Gravius vide passare un'ombra, e luccicare gli occhi di Angorn, ma poi, dopo un istante che sembrò durare in eterno, si rese conto che Horus non lo stava né torturando, né uccidendo.

    Già disse Horus. Assurdo. ripetè.

    Horus mollò la presa, e quasi Gravius cadde con la faccia a terra. Era la prima volta che veniva toccato dal suo signore, e con tutti e due i suoi due cuori sperò che fosse l'ultima.

    Horus si voltò verso il suo trono, e il mantello d'ombra disegnò in aria un'inconsistente nube d'oscurità che lo avvolse quasi del tutto. Nessun'altra registrazione? chiese poi calmo.

    Gravius tornò a respirare. No, mio signore.

    Lo sa nessun altro?

    Gravius attese un po' per rispondere. Solo io, voi, mio signore, L'oloregolatore, e... Le due Guardie della Morte qui presenti. Indicò alle sue spalle.

    Matricola?

    SD123A. rispose Gravius.

    Meglio così. Horus si voltò ancora, e il suo sguardo sembrò tagliare l'aria avanti a sé, come volesse vedere aldilà delle pareti nere. Fece un giro su se stesso, e il mantello d'ombra lo seguì con un fruscio, adattandosi alle sue movenze, quasi fosse vivo. Si rimise a sedere sul trono, e fece scattare un piccolo sportello sul bracciolo sinistro, dentro a cui vi era una tastiera. Le sue dita composero una combinazione, e due minuscoli altoparlanti sistemati in un incavo del trono gracchiarono appena. Distretto Burocratico.

    Una voce trafelata e melensa rispose dall'altra parte. Mio signore! Ai suoi ordini!

    Ordine immediato di rientro per l'Oloregolatore matricola SD123A tuonò Horus, senza staccare gli occhi da Gravius. Lo voglio immediatamente al mio cospetto.

    Sarà fatto, mio signore.

    Horus chiuse lo sportello sul bracciolo, e poggiò il mento sulle mani incrociate. Immobile e silente, rimase a fissare il vuoto, mentre Gravius cercava di calmare i fremiti incontrollati che lo stavano scuotendo come una foglia al vento, nella sua testa stavano passando pensieri d'ogni sorta, ma il primo e dominante ricreava sonore maledizioni alla malasorte, che l'aveva condannato all'essere designato in quel dato settore, a quella data ora, in quel dato giorno. Fosse andata in maniera diversa, quell'oggi sarebbe stato in una delle tante sale ricreative, con altri Attendenti, a scambiarsi reciproci aneddoti su quanto era piacevole stare nelle sale ricreative.

    Dopo circa dieci minuti di totale immobilità, un lieve rintocco di passi scosse il silenzio del palazzo, e negli occhi di Horus guizzò una scintilla che li fece tornare a vivere. Un piccolo ed emaciato essere comparve sotto l'arco d'ingresso, era Umano, vestito di tutto punto in una tunica semi elettronica che emanava piccoli bagliori a intermittenza, un casco telecamera sotto al braccio sinistro, e un'espressione interdetta che sottolineava l'ignoranza ai motivi per essere di fronte al sommo signore del Maledicta. L'umano percorse a piccoli passi la sala, passando sotto l'immobile sguardo delle Guardie della Morte, e occhieggiando verso l'ancora prostrato e tremante Gravius. M-mio signore... Mi avete fatto chiamare? esordì l'Oloregolatore, eseguendo il saluto e inginocchiandosi accanto all'Attendente.

    Horus ci mise un'eternità per rispondere, quasi non l'avesse visto entrare. Sì. disse, riempiendo la sala con un sibilo rauco. Sollevò una mano pigro, poi la fece ricadere sul bracciolo del trono.

    L'Oloregolatore sul momento non comprese quel silenzio e quel gesto, ma dalla smorfia impaurita che Gravius compose, e dal fatto che l'Attendente si era allontanato da lui strisciando, la terribile verità di quanto stava per accadergli lo raggiunse con la ferocia d'una sentenza di morte. Alle sue spalle passi pesanti, e un ticchettio metallico che lo fece raggelare. Fece giusto in tempo a scattare in piedi e voltarsi, prima di vedere i due mastodontici soldati puntargli contro i fucili. N-no! Il resto, per lui, fu un assordante rumore di secche esplosioni, luci intermittenti, e dolore.

    Gravius si mise a urlare, spingendo con i tre piedi fino a schiacciarsi contro una colonna.

    Horus non mosse ciglio, finchè i fucili dei soldati non ticchettarono scarichi, e due rivoli di fumo  grigio non si levarono dalle canne annerite dall'usura. Si alzò dal trono, e fece cenno ai due soldati di tornare ai loro posti, dopodichè camminò lento e posato fino al corpo dell'Oloregolatore che, con suo sommo stupore, ancora respirava. P-per... Perchè? M-mio... M-mio signore? La tunica, crivellata dai proiettili, si era in gran parte fusa con la pelle, emanando un odore acre di carne e metallo bruciati, e sotto di lui si era formata una pozza di sangue e interiora.

    Horus non scompose la sua espressione, e mentre il suo servitore ancora balbettava, sollevò una mano, che emanò una tenue luce azzurrognola. L'umano gemette, e i suoi respiri si fecero sempre più rapidi, gli occhi sbarrati e il sangue che schizzava da ogni foro. Il suo corpo perse consistenza, così come la sua tunica, finchè, in una manciata di secondi, di lui non rimase che l'elmo telecamera, caduto a pochi passi e ancora intonso. Horus lo raccolse, e lo frantumò con una mano.

    Gravius aveva osservato tutta la scena senza riuscire a muovere un solo muscolo. Avrebbe voluto fuggire, scomparire, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Horus avrebbe potuto uccidere l'umano senza tante sofferenze, usando il suo divino potere, ma aveva preferito farlo massacrare, e questo, per Gravius, sapeva di imminente agonia. Se Horus avesse voluto, Gravius non sarebbe mai uscito dal palazzo. M-mio signore... V-vi ho s-sem-pre servito bene. 

    Horus stette fermo, in mezzo alla stanza, a fissare il vuoto pensieroso, quasi non avesse sentito il mugolare del suo servitore. Si voltò verso di lui, e lo fissò dall'alto senza dire una sola parola, poi, lento e misurato, tornò a sedere sul trono, l'espressione assorta e indecifrabile racchiusa tra il viola dei capelli e il pallore d'un viso antico quanto il mondo. Devo agire in fretta disse in un mormorio. Se a Farsex trapelasse la notizia, Ubis ne approfitterebbe...

    Gravius colse quel mormorio come se fosse stato un urlo. Costrinse il suo corpo a smettere di tremare e riuscì a rimettersi in piedi. Horus lo fissava, quasi attendesse qualcosa. S-suo fratello, mio signore intervenne Gravius, ritrovando in sé una forza che non aveva mai avuto. N-non può vincere... Non è potente quanto voi.

    Horus roteò pigro una mano, e Gravius per poco non cadde ancora in ginocchio, ma nulla successe, finchè il sommo signore di Maledicta non parlò ancora: A Farsex non si deve sapere.

    S-sì, sì disse Gravius. Si fece avanti strisciando. In silenzio, mio signore.

    Non ne dubito, Gravius disse Horus con un ghigno. Anche perchè... Se dovessi fallire, se solo a Farsex venissero a conoscenza della cosa...

    Ai due cuori di Gravius mancarono dei battiti, dovette parlare per impedire ai suoi nervi di crollare, l'immagine delle oscure prigioni gli sovvenne come un monito di infinita ed eterna sofferenza: Cosa proponete, mio signore?

    Horus sembrò ponderare bene la situazione, mentre Gravius ansimava ai suoi piedi, dopo qualche secondo disse: Non possiamo lasciare l'incombenza a qualcuno del Maledicta... Horus congiunse le dita e rise. D'altronde... Mio padre sa essere convincente. Quindi non tu, di certo.

    Non avevo pensato alla mia persona, mio signore. disse Gravius con un ghigno mellifluo. Nelle parole del suo signore aveva visto una piccola luce, una via d'uscita.

    Horus scosse il capo. Qualcuno che è all'interno del Maledicta, ma che non ne fa parte. Qualcuno che non deve rendere conto ai Farsex, qualcuno che esula dalle loro competenze.

    E chi, mio signore? chiese Gravius, aggrottando la fronte. Chi può avere una simile libertà?

    Che domande, Gravius, ma un Caduto, ovvio. Sorrise Horus.

    U-un Caduto!? Le tre gambe di Gravius cedettero. M-ma... Come... Cosa!?

    Il motivo per cui Sophia era considerata la migliore.

    N-non può essere... Gravius rimase di sasso.

    Dorian Curze concluse Horus. Portalo da me, Gravius, e fai in fretta.

    CAP 2

    - DORIAN CURZE -

    Gravius zampettò rapido lungo la scalinata del palazzo. Affannava. Curze... Curze... Balzò sulle enormi piastrelle della via principale di Maledicta, un'ampia strada circondata da imponenti edifici puntuti, dalle cui finestre sbarrate spuntavano braccia e mani che cercavano di artigliare qualcosa che non riu-scivano a raggiungere. Urla, strepitii e imprecazioni saziavano la sete del regno in una continua litania, che accompagnava il bagliore delle verdi essenze, che dai tubi collegati agli edifici fluivano per qualche decina di metri fino a scomparire nel sottosuolo, portando con loro il prezioso carico che sostentava il Maledicta sin dai tempi dei tempi.

    Gravius percorse la via in tutta fretta, sentendo ancora l'anima graffiata dal terrore di ciò che aveva visto e sentito, il peso del malo destino che gli aveva recapitato un macigno enorme da sostenere, e un solo pensiero, che dalla mente gli scendeva fino in bocca, quasi dovesse e volesse masticare quel nome per saggiare sapore e consistenza: Curze... Dorian Curze... Arrivato a un incrocio voltò sulla destra, buttandosi sulla via che portava verso le prigioni inferiori.

    Guardie della Morte, primari soldati a difesa del regno di Horus.

    Armature nere, composte da spesse piastre decorate da antiche rune, e il simbolo della 'H' di Horus marchiato a fuoco sul petto, enormi spallacci incastonati tra le piastre, elmi inespressivi che esaltavano la indole privata d'ogni sentimento terreno, fucili mitragliatori che solo loro potevano azionare e sollevare, capaci di dispensare morte, così come il cielo la pioggia.

    Se ne stavano in drappelli di tre unità a sorvegliare ogni angolo, o in coppia davanti agli ingressi delle prigioni, o degli edifici primari di controllo, o delle fabbriche di armi. Soldati, corazze, null'altro che involucri per la somma volontà di Horus, che a Gravius ricordavano tanto i soldati Umani che aveva visto marciare nella sua terra natia, quando era ancora in vita su Aurus, e che da essa lo avevano strappato con le loro armi, e la loro ferocia, macellando la sua famiglia, i suoi amici, i suoi cari.

    Gravius non aveva mai saputo spiegarsi perchè Horus avesse preteso quell'aspetto e quella forma per i suoi guerrieri, ma per quanto li odiasse, per quanto gli riportassero alla mente i peggiori ricordi, quei soldati erano indispensabili, poiché con essi il Maledicta si difendeva dai seppur sparuti, rari, ma terribili attacchi di Ubis, fratello del suo signore e padrone del regno di Sanctorum.

    Il perenne cielo plumbeo era strappato da lontani lampi, strali d'odio che in scie cremisi schiantavano la loro furia sugli alti picchi delle torri nere, dalle quali grida d'agonia si levavano in un crescendo continuo e incessante, come un unico ululato, sollevandosi dalle feritoie a sbarre dentate delle gabbie, graffiate, o corrotte a morsi di gengiva. Disperati, i Caduti di Maledicta, cercavano invano la fuga dalle loro ultime dimore, ma null'altro potevano se non incastrare a forza le teste tra le sbarre, e farsi consumare la faccia dai miasmi acidi che le nere nubi riversavano nei giorni più freddi, grama alternativa dal farsi lacerare la carne guasta dalle fruste degli Oscuri, o dalle intricate macchine di tortura che le fabbriche inventavano ogni giorno.

    Fumi neri si gonfiavano ben sopra le ciminiere e dai Mattatoi, aria corrotta da un odore di anima bruciata, zolfo e cordite. Una schiera di Caduti, nuove anime mietute dalla guerra su Aurus, passò a testa bassa, catene ai polsi. La loro evanescenza, ciò che doveva essere lo specchio della fine dei patimenti terreni, era stata annullata dal passaggio su Maledicta, e nonostante la morte avesse macellato quegli esseri, essi non erano meno materiali d'una pietra, e se pena e sofferenza, compagni fedeli del viaggio d'un vivente, avessero abbandonato il loro compito, eterno dolore e agonia avevano preso il loro posto, regalandogli infinite e disparate morti, che mai cessavano.

    Gli Oscuri, creature immonde, partorite dalla sadica fantasia del sommo Horus, dediti alla tortura e al controllo dei Caduti come cani con il gregge di pecore, gridavano ordini da dietro la schiera di nuovi venuti, elargendo scudisciate a ogni passo lento, finchè non li avevano scortati, stipati e pigiati nelle prigioni, e relegati poi nei mattatoi.

    Su Maledicta e Sanctorum, chiamati Mondi Oltre dai suoi abitanti, non vigeva distinzione tra bene e male, né tra giusto e sbagliato, non vi era Inferno, né Paradiso, le cui esistenze venivano predicate tra le razze di Aurus, a punire la morte degli iniqui, o la beatitudine dei retti. Non vi era né punizione, né gloria eterna per i morti, ma solo il sistema che da sempre garantiva la continuità di Aurus. Nulla più che quella, e Gravius doveva ogni giorno ringraziare il fato per essersi trovato a dover scegliere di far parte del sistema, o di nutrirlo.

    Nella schiera di nuovi Caduti Gravius notò, come sempre accadeva da parecchi anni a quella parte, l'ingente presenza di Umani, i quali sembravano divertirsi a massacrarsi l'un l'altro per motivi che esulavano dalle sue conoscenze. I ricordi delle vessazioni patite per mano di quella bellicosa e altezzosa razza gli riaffiorarono in testa, tanto forti che quasi coprirono il ticchettare che dal cielo irruppe a spaccare gli usuali suoni di Maledicta.

    Come ripresosi da un sogno, Gravius si bloccò sul posto e guardò in aria con gli occhi sbarrati: Uno sciame di piccole sfere munite di antenne, chiamati droni Farsex, saettò appena sotto le nubi e, come di consueto, disegnò in aria una traiettoria ad arco, per poi scomparire all'orizzonte lasciandosi alle spalle il ricordo del ticchettio delle migliaia di foto e filmati catturati, utili per i resoconti giornalieri su Farsex, il terzo Mondo Oltre, il Grande Controllore.

    Gravius non seppe dirsi perchè si era nascosto sotto a una delle tante tettoie che adornavano i palazzi, ma quell'oggi i droni di controllo erano diventati piccole ombre sul suo futuro, ciò che prima erano per lui la totale normalità.

    Riprese fiato, e tornò a camminare fino a giungere al limitare del Distretto Carcerario. Una scalinata discendente, accompagnata da due file di colonne in marmo scuro arricchite da disegni e sculture che ritraevano volti di Demoni antichi oramai dimenticati, gli si parò davanti. Curze... Curze... Nelle mani sudate reggeva una piastra circolare ebano, fece scattare il lucchetto con il pollice e la aprì. Dorian Curze! Due lancette si mossero, indicando la scala. Le studiò per qualche secondo, occhieggiando avanti a sé. Prese a scendere.

    Per i primi duecento gradini Gravius aveva corso, ma appena vista la linea di Oscuri a guardia dei piani inferiori aveva rallentato il passo, e calmato il respiro. La postazione di guardia era composta da una manciata di quelle orride creature, fer-me e silenziose su piccole piattaforme rialzate ai lati della strada, sopra cui le nere creature sembravano fondersi con la vischiosa oscurità.

    Un Oscuro lo notò e scese dalla sua postazione, venendo avanti a lenti passi, trafiggendo Gravius con i suoi cinque occhi, che parevano volergli uscire dalle orbite ributtando un'icore giallastro. Chi... sei? ansimò, mentre le dita della mano sinistra gli si allungarono come una viscida frusta, e dalla sua gola fuoriuscirono rantoli che sapevano d'una sadica risata.

    Gravius inspirò a fondo, mentre l'Oscuro si chinava su di lui. Sapeva che quelle immonde creature non riuscivano a distinguere che ombre, nonostante i cinque occhi, ma nulla toglieva loro il vanto di poter individuare ogni forma ostile nel raggio di centinaia di metri, fosse per l'odore, o per chissà quale altro acuto senso affinato dalle oscure arti da cui erano stati partoriti. Gravius, attendente Maledicta di Horus! Devo recarmi nelle Libere Prigioni, e prelevare un Caduto per il nostro signore. Quando l'Oscuro gli fu a pochi centimetri, trattenne il fiato, ma l'odore stantio della putrefazione si insinuò comunque nel suo naso. Poteva sentire dentro la testa le urla che l'Oscuro aveva strappato dalle gole delle sue vittime, e percepiva il tremolio perverso delle sue mani, pronte ad agguantarlo e portarlo in qualche anfratto buio per placare la sua sete di orrore.

    Non era raro che qualche incauto Attendente, o qualche Schiavo Burocrate fosse finito per caso nelle loro mani, e per quanto la morte d'un abitante di Maledicta fosse solo relegata nelle mani del sommo Horus, tutti quelli che avevano avuto la sfortuna d'essere nel posto sbagliato al momento sbagliato erano tornati muti e non avevano fatto altro che attendere la morte che, inevitabile, veniva decisa da Horus per reiterata e continua inefficienza.

    L'Oscuro pose ogni occhio su un angolo diverso della faccia dell'Attendente, mentre gli artigli della mano destra componevano numeri immaginari, respiri affannosi, gorgoglii profondi e viscidi, poi i suoi occhi si spensero. Confermato.

    Mano a mano che Gravius scendeva, l'oscurità si attenuava, lasciando il posto a una fioca luce d'un finto sole che fisso stava sopra le Libere Prigioni, scandendo il tempo giorno per giorno con finte albe e finti tramonti. La fine della scalinata si congiungeva a un piazzale lastricato di grigio, circondato da piccoli rigagnoli di edera e muschio, e minuscoli fiori d'un viola acceso che spuntavano tra una piastrella e l'altra. L'aria si era fatta più fresca e fragrante, e la luce intensa.

    Gravius sentì la testa leggera, e un senso di nausea che lo costrinsero a fermarsi. Le mura delle Libere Prigioni erano davanti a lui, seminascoste da una nebbiolina biancastra, quasi un miraggio dovuto ai tremori che lo percuotevano. Dovette attendere qualche minuto, prima che la nausea smettesse di tormentarlo, e gli occhi si abituassero a ciò che per centinaia d'anni gli era stato negato.

    Accanto alla porta vi erano due Guardie della Morte, immobili come ombre spalmate sul muro, chiusi nei loro silenziosi elmi, con i fucili poggiati al petto tra gli enormi spallacci. I due soldati lo videro e abbassarono appena lo sguardo dei loro visori, poi tornarono a fissare avanti.

    Aprite! Sul momento le due guardie non reagirono, poi fecero due passi a lato.

    Il portone delle Libere Prigioni si spalancò verso l'interno, e Gravius avanzò sotto l'arco in pietra grigia, sulla cui sommità vi era inciso a scalpello un disegno d'un antico paesaggio di Aurus. Fu accolto da un insopportabile e abbagliante verde, colori vividi e sgargianti, racchiusi da un'umidità che sapeva di dolore alle ossa. La sua smorfia disgustata si allargò, perdendosi in quel mare di verde, giallo, rosso e marrone, in un groviglio di fili e fusti che ricordava chiamarsi erba, piante, fiori e frutti. Cercò di scacciare l'immagine d'insieme dei giardini, aguzzando la vista e scrutando le magioni dei Caduti Eccellenti. Tirò fuori ancora una volta la piastra ebano, e la aprì.

    Gravius! Qualcuno lo aveva chiamato.

    Gravius si voltò. Un sorrisetto nascose il disgusto. Oliagon! esclamò, allargando le braccia.

    Oliagon, Attendente delle Libere Prigioni, e unico in tutto il Maledicta in grado di sopportare l'ambiente di quel luogo, gli venne incontro coordinando le sei zampe in una movenza quasi regale, facendo schioccare in bocca le chele in un sibilo compiaciuto. Saranno anni che non ci vediamo! O secoli?

    Anni, Oliagon rispose Gravius. Dall'ultima volta che sei venuto ai piani alti. Sono venuto per conto del sommo Horus.

    Le chele di Oliagon fremettero, e i suoi vispi occhi ovali emanarono scintille. Cosa desidera il nostro signore dalle Libere Prigioni?

    Gravius titubò. Dorian Curze.

    Oliagon sibilò. Curze!? ripetè. E perchè?

    Questo non posso rivelartelo.

    Oliagon grugnì, mentre un filo di bava giallastra gli colava dalla bocca. Ti serve aiuto?

    No, no disse Gravius. So come fare.

    E va bene. Ti lascerò in pace, ma quando avrai finito ti invito a pranzo. disse Oliagon, voltando le zampe e gettandosi dentro a un cespuglio di fiori rossi, per poi sparire.

    Gravius si riprese solo dopo qualche minuto, e fissò quel cespuglio di steli verdi e spinosi, dalla testa rossa, in cui Oliagon era passato, il cui nome non gli sovvenne. Contaci. ironizzò, riprendendo la piastra ebano e aprendola. Dorian Curze! esclamò, fissando la direzione delle lancette: Una sfarzosa casa immersa nel verde.

    Gravius entrò nel cortiletto d'ingresso a piccoli passi, circondato da un'aiuola di fiori arancioni e piccoli trifogli. La porta d'ingresso, in legno massiccio, era sormontata da un arco di pietra grigio chiaro: "Qui riposa Dorian Curze, che fu Comandante supremo della 7° Legione di Aurus", questo era scritto a scalpello sull'arco. Gravius storse il naso e allungò un dito per suonare il campanello che stava lì in bella mostra. Un suono squillante si udì dall'altra parte. Nessuna risposta. Suonò ancora, ma null'altro che il trillo. Maledizione! Pose una mano sulla porta, e questa si aprì cigolando sui cardini male oliati.

    Già dall'odore. Quell'odore pungente d'Umano che tanto ricordava a Gravius quello di certi vermi che infestavano il sottosuolo del Maledicta, che impregnava pareti e cose quasi si appiccicasse come vischioso liquido. Un'enorme stanza, arredata con mobili in mogano e palissandro, mensole ricolme di oggetti strani, che solo gli Umani erano in grado di usare e desiderare, un quadro che raffigurava un uomo fiero, nel pieno degli anni, una scrivania coperta da giornali Farsex, i cui titoli urlavano il proseguire della guerra nel mondo di sotto. Il muro appena sotto il quadro era pieno di fori regolari, cerchiati da piccole crepe. Poggiata sul comodino, accanto alla scrivania, una pistola a tamburo, di quelle usate nelle antiche guerre di Aurus, un cimelio inutile in quel posto, tanto che Gravius si chiese cosa diamine ci facesse lì. Dorian! Dorian Curze! Un rumore di vetri rotti, da una porta semichiusa alla sua destra. Dorian Curze!? Gravius zampettò cauto alla porta. Sbirciò dentro.

    Un Umano stava sbracato su una poltrona, la gamba destra ciondoloni sopra il bracciolo, l'altra su un tavolino poco più alto del sedile. In una mano reggeva un giornale sgualcito, che titolava: "Balgramon bombarda foresta di Illith, l'altra, penzoloni da un lato, reggeva un bicchiere colmo di liquido ambrato. Dei cocci di vetro sparsi per terra, forse i resti d'una bottiglia ancora non finita, a giudicare dal fetente odore di Whisky che fece girare la testa a Gravius. Dorian Curze? ripetè. L'Umano non rispose. La mano che reggeva il bicchiere scomparve dietro al giornale, per poi tornare floscia a lato. Il bicchiere quasi vuoto. Dorian Curze?" ripetè Gravius.

    Il mio nome non cambia, anche se lo ripeti cento volte! rispose l'Umano, abbassando il giornale di scatto.

    Gravius si sentì trafitto da un algido sguardo, d'un verde intenso, d'un solo occhio. L'altro era coperto da un'aderente benda nera, ma che non nascondeva parte d'una vecchia cicatrice frastagliata, che da poco sopra il sopracciglio sinistro si concludeva con una virgola appena sotto lo zigomo.

    Gravius aveva già visto Dorian Curze, nei giornali Farsex, ma non potè reprimere un sussulto: Un Umano sui quarant'anni, pelle candida, in contrasto con lo scuro dei capelli, una faccia tagliente, dai lineamenti duri e squadrati, e quell'occhio, che da solo emanava un'altezzosità che lo fece infuriare.

    Dorian guardò l'essere che gli stava di fronte: Pella grigia, grinzosa. Tre zampe che terminavano con piedi a tre dita. Un corpo gracile e sgraziato, ingobbito. Il viso umanoide, con due occhi arancioni, uno dei tanti abitanti del Maledicta, ben diverso dal Griros che soleva compiere ronde fuori dalla sua dimora. Un Attendente, a giudicare dalla divisa con i lustrini verdi che esponeva sopra le spalle strette. Un Parka... Ho combattuto i tuoi simili su Aurus, in vita. disse Dorian atono, posando il giornale, e finendo il whisky in un'unica sorsata.

    rispose l'essere. Il mio nome è Gravius, Attendente Burocrate del Sommo Horus.

    Dorian ridacchiò secco. Horus...

    Gravius storse la bocca in un ghigno. Il mio signore vuole...

    Attendo un'ospite, Parka lo interruppe Dorian. Sparisci. Si alzò per andare di fronte a un armadio-libreria. Aprì un'anta e scelse con cura un'altra bottiglia di whisky.

    Horus vuole vederti, Caduto. disse Gravius, mentre Dorian si rimetteva a sedere e si riempiva il bicchiere. Gravius grugnì e aggiunse: Una faccenda urgente.

    Urgente ripetè Dorian. Tanto urgente da mandare un suo galoppino.

    Il Sommo Horus non poteva venire di persona, Caduto disse Gravius. Ha di meglio da fare!

    Pure io, Parka. Dorian mandò giù un altro sorso di whisky, e riprese a leggere il giornale.

    Un altro titolo spiccò agli occhi dell'Attendente: Rifornimenti mortali: Settecento morti. Gravius ringhiò, e gli strappò il giornale dalle mani. Renditi presentabile per il Sommo Horus, ed esci da questa topaia!

    Dorian, senza smettere di fissare Gravius, finì il bicchiere, e si versò altro whisky. Attendo una signora, Parka disse, gettando un'occhiata a un orologio a pendolo che ticchettava appeso alla parete. E dovrebbe essere qui a momenti. Sparisci, e dì a Horus che non ho nessuna intenzione di muovere il mio culo da qui! Dorian vide il Parka fremere e stringere i pugni, e aggiunse: Sono certo che capirai... A Sophia è difficile dire di no.

    Gravius sussultò, e rimase pietrificato per qualche secondo. Sul suo muso si formò un sordido sorriso. Dubito che... La tua ospite verrà, Dorian Curze. disse.

    E perchè mai, Parka? chiese Dorian, ridendo a sua volta.

    Gravius si leccò le labbra, in un ghigno. Perchè Sophia... È morta.

    CAP 3

    - LA BATTAGLIA DI AURORA -

    La piana di Aurora era flagellata da un acquazzone, che da giorni imperversava senza sosta sulle terre di Alairon, quasi il cielo volesse piangere per lo scempio che in quelle lande si era consumato in cinque anni di sanguinosi massacri. Nessuno seppe dire se il grigio che dominava su ogni cosa fosse frutto dell'umore tetro d'ognuno, o del disfacimento che aveva pian piano corrotto ogni singola zolla di quella che era stata la casa di Ezekyel, Aurora, città capitale dell'Impero Umano, sede del-l'Alto Trono che aveva, per tre decadi, garantito la convivenza e la prosperità tra ogni razza, trono che da cinque anni era stato depauperato dal despota che ora vi sedeva: Torodon.

    Dorian Curze osservava la piana attraverso un cannocchiale, quasi volesse districare la vista tra l'incessante groviglio di gocce. Il suo sguardo analitico fece il sunto di quella che sarebbe stata la più difficile delle battaglie, forse l'ultima, tra le tante che avano schiacciato e defraudato il popolo di Alairon e di tutta Aurus. I suoi respiri calmi e profondi coglievano gli odori che, nonostante la pioggia, fluttuavano nell'aria della piana, giungendo alle sue narici come a volergli raccontare una storia di tormenti e vessazioni. In tutto quel tempo di guerre e morte, Dorian si era chiesto ripetute volte come e perchè si fosse finiti in quel vicolo cieco, come e perchè, colui che aveva sempre ritenuto amico e fratello, aveva tradito e derubato il popolo della tanto sudata libertà, della pace.

    Le truppe di Torodon si erano pian piano ritirate, di città in città, di terra in terra, sotto l'incessante e inesorabile avanzata dell'ultima Legione lealista rimasta, la 7° Legione, quella che Dorian Curze aveva ricostruito dopo il grande scisma che aveva distrutto l'Alleanza, per cui Ezekyel aveva dato anima e corpo: Umani fedeli al nome di Ezekyel, e all'autorità del Maghistrotum, Rubiani, esseri alati che dominavano il lontano Arohoa, sulle antiche montagne del Nord, e Giganti, spropositate e nerborute creature che avevano da sempre il dominio delle terre collinose del Sud, il Maoton. La Legione che Dorian aveva ricostruito, e messo al servizio del Maghistrotum, contro le orde di Torodon: Umani traditori, Parka tripedi, coriacei abitanti del deserto di Kaiji dell'Est, gli insetti Griros, abitanti delle grandi foreste di Gaya dell'estremo Ovest, e gli Antrol, viscidi esseri vermiformi che dimoravano nell'eterna oscurità del sottosuolo.

    Di sconfitta in sconfitta, gli eserciti traditori si erano rintanati nella loro ultima roccaforte rimasta, ma durante la loro marcia, avevano bruciato e distrutto tutto quello su cui il loro occhio si era posato, lasciando alla loro spalle terre aride, sangue e morte, famiglie distrutte nel dolore della perdita dei cari, nei migliori casi, o del tutto annientate dalla sordida e spietata crudeltà che Torodon era riuscito a inculcare in quelli che un tempo erano stati amici, alleati e conviventi. Ora, dopo cinque anni, la Legione lealista era ritornata nella terra natia, di fronte ad Aurora, e alla conca naturale delle montagne sotto a cui era stata costruita.

    Di Aurora non era rimasta che l'ombra della florida e lussureggiante città che era stata ai tempi di Ezekyel, l'anello esterno, che era stata la periferia ricca di campi e boschetti, ora pareva lo scheletro scarnificato d'una carcassa lasciata lì a marcire dall'incuria del becchino, mentre l'anello interno, la città vera e propria, da sede di sapere e magnificenza, vanto e lascito d'ogni forma di cultura d'ogni razza, era diventata una fucina vivente di armi e macchinari di morte, le cui fabbriche, incessanti polmoni, vomitavano fumi neri come velenoso respiro.

    Un tempo quelle terre erano verdi e rigogliose, piene di fiori e frutti, e i contadini di Aurora avevano di che lamentarsi perchè pareva loro che la terra si coltivasse da sola. Quelle terre avevano ospitato giochi di bambini, nuovi e vecchi amori di ragazzi e adulti, sbocciati o cresciuti sulle rive del lago, o all'ombra delle querce secolari o dei pini, e sovente gente d'altri luoghi e altre razze era giunta ad Aurora per non andarsene più via.

    Ora non vi erano più querce né pini, il lago era divenuto un sottile strato di fanghiglia, e dalla terra non spuntavano più fiori, ma resti di cadaveri mutilati e ossa. Tutto ciò che Ezekyel aveva costruito, era stato cancellato in soli cinque anni, e le zappe e le vanghe avevano lasciato il posto ai fucili e alle lance d'assalto, i bambini avevano conosciuto il gioco della guerra e della fame, e l'unico amore che da cinque anni a questa parte era sbocciato, era l'odio per Torodon.

    Il cervello di Dorian cercava di pianificare possibili modifiche al piano d'attacco, prevedere possibili reazioni difensive, calcolare il numero delle eventuali e certe perdite in base alla disposizione delle difese che almeno riusciva a vedere. Ezekyel mormorò. Ovunque tu sia, ti starai rigirando nella tomba... Tra le gocce d'acqua grosse come noccioli, Dorian riusciva a distinguere le prime linee difensive, e un senso d'inquietudine gli fece deglutire amaro.

    Torrette mitragliatrici automatiche si intravedevano tra i cumuli di terra, e tra le rovine della città esterna. La fanteria pesante Mech, prodotto di assurde ricerche delle mai dormienti menti perverse degli scienziati traditori, era ammassata nella trincea, pronta a riversare piombo su ogni cosa si muovesse entro la linea di tiro. Umani, Parka e Griros sulle mura, come ultimo baluardo, e tra i pertugi del cemento si intravedevano luccichii bluastri, segno che i viscidi Antrol non aspettavano altro che l'inizio della battaglia, pronti a cibarsi delle carcasse dei caduti, e del sangue caldo dei vivi. Sfavillii azzurrini segnalavano la presenza d'un cannone Eterostera, sul lato sinistro della trincea, lì dove piccoli sassolini nel terreno vibravano sollevandosi a pochi centimetri da terra per la corrente magnetica. Dorian ruotò una leva, e aumentò il focus. Storse il naso: I fulmini rossastri che intravedeva sulle mura di Aurora non gli parevano naturali.

    Passi pesanti alle sue spalle. Comandante Curze! Una voce Umana, resa metallica dal riverbero d'un altoparlante.

    Dorian si voltò, e il Tenente Roin, comandante delle truppe d'assalto meccaniche Ghekko, fece piegare le gambe meccanizzate della sua unità, rannicchiando il corpo fino ad altezza d'uomo. Come procede? chiese Dorian, fissando la cabina di pilotaggio in cui Roin stava seduto.

    "I Rubiani decollati

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