Rapita
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Book preview
Rapita - Umberto Maggesi
Umberto Maggesi
Rapita
EDITRICE GDS
Umberto Maggesi Rapita
©EDITRICE GDS
EDTIRICE GDS
di Iolanda Massa
Via G. Matteotti, 23
20069 Vaprio d’Adda (MI)
tel. 02 9094203
e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it
Collana ©AKTORIS
Illustrazione copertina di ©Fabrizio Bottaro
Progetto copertina di ©Iolanda Massa
TUTTI I DIRITTI RISERVATI.
Il romanzo è frutto della fantasia dell’Autore. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.
Capitolo 1
Bessa indugiò sulla figura della madre che si affaccendava vicino al fuoco. Infilò la mantella cercando di coprire bene gli abiti che stavano sotto.
Mamma, io vado.
Sicura?
Certo. Sono più di venti giorni che non vado a trovarla.
Non sei mica costretta.
La madre si voltò a guardarla. I suoi occhi neri, circondati dalla rete di fitte rughe, percorsero la figura della figlia da capo a piedi. Poi si avvicinò per scostare i lembi della vecchia mantella di lana. Non potevi metterti dei vestiti decenti? Sembri una mendicante.
Mamma...
cercò di protestare Bessa, ma le motivazioni le conoscevano bene entrambi e, dietro a quel sorriso di ragazza, c’era la cocciutaggine del padre. L’anziana alzò le spalle tornando al pentolone colmo d’acqua che bolliva laboriosamente, cocendo le verdure.
Vedi di tornare prima di tuo padre, che non ti veda conciata in quel modo, che poi lo sento io.
Certo, mamma.
Già con un piede fuori di casa lanciò un bacio alla schiena della donna.
Fuori c’era vento. Vento dalle montagne, aggressivo si abbatteva sugli abitanti di Città, col suo alito gelido che odorava di aghifoglia e resina. Bessa percorse a grandi passi le vie che conosceva a memoria. Era nata e cresciuta in quel quartiere, conosceva i vicini, i bottegai, persino i perdigiorno che vivevano di furtarelli. Gente che suo padre avrebbe preso volentieri a sciabolate.
È sempre pronta!
gridava indicando la sua spada di servizio. E questo!
dichiarava alzando il braccio destro. È ancora forte per impugnarla. Non voglio vederti parlare con loro! Sono stato chiaro?
Bessa annuiva, aveva imparato a dare sempre ragione al genitore, impossibile ogni tipo di dialogo, nessun compromesso. Poi faceva di testa sua, nella maggior parte delle occasioni, riusciva a cavarsela senza che lui ne sapesse niente.
Varcò la porta est e non esitò un istante a entrare nel ghetto. Non scambiò nemmeno uno sguardo con i mille occhi che la percorrevano, valutando la quantità di monete o gioielli che poteva avere. Vestirsi con abiti vecchi e logori garantiva una certa sicurezza da quelle parti, ma lei non lo faceva per quello, il vero motivo era Linnea.
Si erano conosciute a dodici anni. La famiglia di Linnea era appena venuta ad abitare nel quartiere. Il padre era servitore presso la casa di un nobile Tenamide che aveva incarichi di governo.
Uno spandimmerda.
Aveva detto il padre di Bessa, che in ogni caso col genitore di Linnea si trovava bene e non aveva ostacolato la loro amicizia. Linnea era graziosa e sapeva leggere, due qualità che l’intraprendente servitore aveva sapientemente coltivato, per garantirle un buon matrimonio. La prima volta che l’aveva vista, Linnea era seduta su un muretto a leggere un libro. Bessa stava riportando i secchi dal pozzo, ma non aveva potuto fare a meno di fermarsi davanti a una coetanea immersa in lettura.
Cosa leggi?
La storia di Lutme l’impavido.
Rispose alzando un viso delicato sull’altra. Linnea aveva maliziosi occhi nocciola e labbra rosse e carnose che spiccavano sulla pelle candida. Riccioli neri le incorniciavano il volto, dando alla sua bellezza una tonalità provocante. Che portava un collare di spilli per non addormentarsi durante le lunghe ore di guardia.
Davvero?
Certo. È vissuto al tempo della costruzione di Città, quando la battezzarono Tenam la Fiera. Gli orchi facevano molte sortite notturne e le guardie dovevano sempre restare all’erta, così Lutme inventò questo trucco.
Ed è tutto scritto lì dentro?
Bessa occhieggiava quei tratti regolari che per lei non volevano dire nulla, ne era stata sempre sedotta: le parole che si fanno scrittura, un trucco misterioso e affascinante, il cui segreto era imprigionato dentro la sua ignoranza.
Sì, in questo e altri libri... ma tu non sai leggere?
Bessa scosse la testa. Non vorresti imparare?
Certo! Potresti insegnarmi?
Già prevedeva le obiezioni del padre per quella perdita di tempo, in una nanoserie decise che non gli avrebbe detto nulla.
Sì... io mi chiamo Linnea e sono appena venuta ad abitare qui.
Così era cominciata la loro amicizia. Linnea insegnò a lei a leggere e scrivere e lei insegnò all’amica come arrampicarsi sui muri, dove rubacchiare il pane o le focacce di prima mattina, oppure le verdure all’ortolano che, dall’unico occhio che i goblin gli avevano lasciato, vedeva solo a metà. Crebbero insieme nelle prime palpitazioni dell’amore. In realtà Linnea crebbe più di lei. Già a quindici anni era una donna fatta con forme generose. I lineamenti avevano perduto l’innocenza dell’infanzia, conservando bellezza e malizia, una combinazione che aveva fatto palpitare più di un cuore. Bessa era rimasta piccola, piuttosto gracile e mancante di ciò che una donna mostra con l’orgoglio di una futura madre. Non era bella Bessa, questo lo aveva capito già da molto tempo. Non era la protagonista delle storie che sua mamma le raccontava prima di andare a letto. Non ci sarebbero stati impavidi cavalieri a rischiare la vita contro schiere di orchi per lei. Nessun re di terre lontane, rapito dalla sua bellezza incrociata per caso un giorno, avrebbe rivoltato mari e montagne per ritrovarla e offrirle un regno. Non era triste per questo Bessa. Gli dei le avevano regalato un cuore lieto, che sa godere delle piccole cose, un cuore buono che non è mai stato corrotto dall’invidia e dalla brama per ciò che la natura non le ha dato. Anche per questo era potuta crescere con Linnea che, le altre ragazze, tendevano a lasciare ai margini per gelosia o semplice cattiveria. Oppure perché la sua bellezza e grazia, metteva in evidenza anche il più piccolo difetto altrui.
Capitolo 2
La casa che Linnea e i genitori erano andati a occupare era fabbricata con scompagnate macerie di vecchi edifici. Sassi dal fiume. Fango essiccato e qualche altro rimasuglio che, gli abitanti più miseri di Città, sapevano mettere a giusto frutto per garantirsi una caricatura di vita che fosse più simile possibile a ciò che c’era dentro le mura. Bessa picchiò con le nocche contro il legno dell’intelaiatura della soglia. La porta non c’era, solo un vecchio drappo, che forse una volta era stato un tappeto, a proteggere un po’ il privato di quella famiglia distrutta.
Linnea? Sono io, ci sei?
Raramente la ragazza usciva dal tugurio. Da quando erano caduti in disgrazia sembrava che la luce dei soli desse fastidio alla giovane. Stava sempre seduta sul giaciglio di coperte che le faceva da letto. Non leggeva più, né si pettinava e, a dirla tutta, nemmeno si lavava. Bessa cercava di farla reagire, di trovare le parole giuste per scrollarla da quel torpore, ma sembrava che la linh dell’amica avesse deciso di non combattere più. A ventidue anni Linnea era già una vecchia rassegnata alla morte.
Entra
la voce flebile sgattaiolò fuori come un timido animaletto. Bessa attraversò il drappo inoltrandosi in una penombra puzzolente, sudore rancido, sporcizia lasciata a se stessa troppo a lungo e una qualche specie di cibo di cui preferiva non approfondire la conoscenza. Davanti a lei una macchia più bianca fra le ombre le fece un cenno.
Ciao tesoro. Scusa se non sono venuta prima, ma ho molto...
Non preoccuparti. Non mi aspetto nulla da te come da nessun altro.
Non dire così.
Bessa si sistemò vicino alle coperte. Abbandonando il cestino pieno di cibo che aveva portato. Tutte le volte portava un cesto con ciò che era riuscita a rubacchiare al padre, lo sistemava in un angolo senza dire nulla e, alla fine della visita, portava via quello vuoto. Bessa e i suoi genitori non avevano mai fatto cenno a questi doni, non avevano mai ringraziato. Bessa, dal canto suo, non si aspettava nessun ringraziamento, ci sono volte in cui la dignità ha bisogno di una maschera. Ci sono volte in cui solo la dignità salva un uomo dall’andare in pezzi.
Dove sono i tuoi?
A cercare qualche lavoro.
Non possiamo aprire le imposte?
Propose Bessa, per far circolare aria e per vedere bene in viso l’amica. L’altra ci mise del tempo a rispondere, tanto che Bessa si era ormai rassegnata a stare al buio.
Va bene apri.
Messere Lumet aveva costruito due finestre con imposte ricavate dalle ante di un mobile. Bessa le spalancò approfittando per dare due gustose boccate d’aria. Davanti a lei un bambino sguazzava felice nel fango, mentre la madre, o forse una sorella maggiore, si dava da fare per sventrare dei topi e prepararli per la brace. La ragazza chiuse gli occhi e si concesse un’altra boccata.
Molto meglio, non ti pare Linn...
Le parole le morirono in gola a vedere il volto dell’amica: chiazze rosse le si arrampicavano sul lato sinistro del collo, coprendo la guancia, fino all’occhio. Un umido pus, rossastro di sangue, spurgava dai numerosi crateri che punteggiavano la pelle corrotta.
Già
l’anticipò l’amica dal suo giaciglio. Il flagello di Moirka.
Ma da quanto...
Ormai sarà quasi un periodo, sono riuscita a nasconderlo fino a dodici giorni fa.
Per gli dei!
L’amica aveva gli occhi pieni di lacrime. Tornò vicino alle coperte e strinse la mano alla malata. Forse mio padre può parlare a qualche dottore. Forse si può ancora...
Lascia perdere. Sai bene cosa rischia chi ci aiuta... e poi il flagello non lascia scampo.
Ma come hai fatto a prenderlo?
Non è mica difficile indovinarlo no?
Nella voce della ragazza si aprì la strada un tono gelido. Abbiamo bisogno di soldi e io sono... ero una bella ragazza.
Spostò gli occhi verso un angolo lontano della baracca. La verginità e la virtù non si mangiano e, siccome nel mio caso non servivano a niente... tanto vale.
Piangeva Linnea mentre la voce si manteneva fredda, come staccata, appartenente a un altro essere che nulla aveva a che fare con quegli occhi pieni di dolore e rassegnazione. Non so nemmeno chi sia stato. Quale fra i tanti mi abbia attaccato il morbo.
Mi dispiace... io non immaginavo... non sapevo...
E perché avresti dovuto?
Replicò con voce astiosa, ma poi addolcì subito il tono: Lascia perdere, tu sei l’unica che mi è stata sempre vicino, cosa avresti potuto fare di più? Mica potevo chiederti di mantenere la mia famiglia.
E cosa ha detto tuo padre quando... ha... insomma quando ha capito...
Mio padre!
L’espressione tornò dura. Una luce fredda baluginò, scaturendo dalle lacrime senza soluzione di continuità. Lo sguardo di odio dei disperati. Quelli che hanno osservato i loro simili ritagliarsi una vita felice, appagata e piena di cose buone. Le migliaia e migliaia di niente che stanno ai margini di ogni mondo possibile. È stato lui a dirmi che dovevo darmi da fare. All’inizio è stato orribile, ma poi ci si abitua. Sognavamo di ritornare dentro le mura, nei quartieri dei commercianti, magari risparmiare per avviare un’attività.
Allargò le braccia. Poi mi sono ammalata...
Bessa tremava. Non riusciva a trovare parole per consolare l’amica. Si ripeteva che non doveva cedere, sarebbe stata di conforto all’amica fino alla fine. Si asciugò le lacrime.
Fa molto male?
Ora non molto. Più che altro è il prurito. Se mi gratto la pelle si apre e comincia a sgorgare pus, ma resistere è una tortura.
Non si può fare nulla?
Ci sono degli unguenti, dei preparati da druid che alleviano la sensazione.
Ti prometto che la prossima volta te ne porterò.
La malata scosse la testa, mentre l’ombra di un sorriso comparve sulle sue labbra ancora belle. Non voglio che tu venga più.
Alzò un dito a bloccare le proteste dell’altra. Peggiorerò. La malattia si prenderà tutto il mio corpo, consumandolo e aprendo piaghe ovunque.
Restarono in silenzio ognuna con la propria immagine di orrore in testa. Poi la malata chiese un po’ d’acqua. Bessa scattò, felice di poter rendersi utile. Avvicinò la tazza alla bocca.
Riesco anche da sola, non sono ancora così conciata.
Bevve avidamente, poi rimase a fissare il vuoto, la tazza in grembo, lo sguardo perso. Appena ho visto apparire le prime macchie sono andata a trovare un’altra donna che si diceva malata da tempo... era senza faccia, la parte destra un disastro di sangue e pus. Le orecchie scomparse, insieme alle labbra, pareva ridesse. Solo l’occhio sinistro conservava qualcosa di umano.
Fissò l’amica, poi si mosse cavando un oggetto dal mucchio di coperte: un coltellaccio. Uno sgraziato e vecchio arnese di cucina dal manico mezzo bruciacchiato e la lama macchiata di ruggine. A me non succederà.
Linnea non devi...
Cosa!?
Negli occhi qualcosa di alieno passò virando nelle sue iridi, qualcosa di metallico, come l’affondo crudele di una spada. Cosa stai per dirmi? Che la vita è sacra agli dei? Che c’è sempre una speranza anche quando tutto sembra perduto? Che quello che conta è ciò che abbiamo nel cuore? Ti prego evita di blaterare queste fesserie.
Lo sguardo tornò quello di sempre, pieno di dolore, ma se non altro umano. Sono felice che tu sia passata. Volevo vederti prima... prima della fine. Non c’è bisogno di dire nulla, resta qui vicino. Raccontami dei nostri amici, cosa succede al quartiere.
Bessa aprì la bocca cercando di mandare giù il dolore e cominciò a raccontare di fatti che le sembravano banali davanti a tanto orrore. Raccontò di matrimoni, di giovani amici che entravano come apprendisti in botteghe o nelle corporazioni, di chi aveva provato con l’accademia e dei pochissimi che erano riusciti a ottenere un incarico nei palazzi di governo. Raccontò anche dei morti, forse per mostrare che anche al di fuori del ghetto si poteva morire, che la legge dell’umana caducità non risparmia nessuno. Certo possibilmente non a ventidue anni e non nel modo orribile che aspettava la sua amica. La luce all’esterno andò abbassandosi. Accesero i moccoli di candela.
Mio padre andrà su tutte le furie.
Garantì Linnea. Ma tanto è sempre ubriaco gli dirò che le ha consumate lui.
Quando tornano?
Non so, a volte stanno via anche due o tre giorni. Se c’è lavoro da qualche parte ci vanno.
E ti lasciano da sola?
Non sono sola, ci sei tu.
Non scherzare lo sai cosa intendo.
"C’è poco da fare. Bisogna riuscire a portare a casa qualche soldo e noi del