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Il demone dalla maschera d'argento
Il demone dalla maschera d'argento
Il demone dalla maschera d'argento
Ebook350 pages5 hours

Il demone dalla maschera d'argento

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About this ebook

Contese per il potere, vendette private, conflitti dettati da ragion di stato e rivalità che affondano in un recente passato: da queste premesse ha origine un'interrotta sequenza di avventure ambientate nell'IsolaVerde, dominio di Re Guglyem.Il regno è pacificato da otto lustri, ma scure nubi si addensano sull'IsolaVerde. Un misterioso personaggio, con il volto celato da una maschera, interviene in sostegno del re e di sua figlia Ninive.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateDec 21, 2014
ISBN9788867823710
Il demone dalla maschera d'argento

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    Il demone dalla maschera d'argento - Giuseppe Benevento

    Giuseppe Benevento

    Il Demone dalla

    Maschera d’Argento

     GDS

     Il demone dalla maschera d'argento

    Giuseppe Benevento

    Editrice GDS

    Via Matteotti 23

    20069 Vapior d'adda-Mi

    www.bookstoregds.com

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

       Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale, i personaggi e la storia sono completamente tratti dalla fantasia.

    Dal buio delle Ere

    Al gran galoppo giungerà

    Allorquando la mente

    Più in grado non saprà

    Dimensioni crear,

    In cui lo spirito

    Libero possa albergar.

    I

    Un quarto di luna si affacciò tra le fronde degli alberi di BoscOscuro, illuminando a tratti lo stretto sentiero che attraversava la foresta. La via tracciata dal passaggio di uomini, cavalli, carri e dagli stessi animali del bosco si snodava tra alte querce dal filiforme tronco. Un senso di maestosità faceva apparire gli alberi come colonne di un tempio alla dea natura. Nella quiete notturna, si udivano solo i rumori degli abitanti del bosco che, protetti dall’oscurità, adempivano alle loro esigenze. Di tanto in tanto il richiamo di qualche allocco faceva trattenere il fiato alle piccole prede e il silenzio cadeva nei paraggi.

    Un ululato si accese e si spense nel solo istante di un battito di ciglia e gli animali fuggirono nelle loro tane. Un secondo ululato rispose al primo. Un’ombra si spostò su di un ramo basso, sembrava interessata a quanto avveniva dietro a un cespuglio poco distante. L’uomo si muoveva con tale abilità da non produrre alcun suono. Da più di un anno non c’erano banditi in BoscOscuro, da quando lui aveva eliminato l’ultimo gruppo. Era un reietto che dava la caccia ai reietti, e questa cosa lo aveva sempre divertito, molto più delle leggende nate su di lui. Gli abitanti dei villaggi limitrofi lo temevano e veneravano come fosse una divinità, perché li proteggeva e teneva i malviventi lontano da loro. Gli lasciavano in dono cibarie e indumenti, ma l’uomo scartava subito i primi, abituato com’era a diffidare di chiunque. I secondi, invece, erano ben accetti. Dopotutto, per chi vive da anni nella foresta, i mantelli, le tuniche e gli stivali erano veri doni da re. Un nuovo ululato riportò l’attenzione sul gruppo nascosto. Non erano l’abbigliamento o le armi ad attirarlo, nonostante spade e asce non fossero usuali per i banditi, ma la strana aura magica che si intravedeva. Fin da bambino aveva avuto un’avversione per la magia, avvertiva una sgradevole sensazione di brivido lungo la schiena quando questa era impiegata. Da decenni la magia era stata bandita: Guglyem, re supremo di tutti i regni dell’IsolaVerde, l’aveva vietata dopo la morte della regina. Fu una decisione inspiegabile per molti, ma i cinque regni si adeguarono. Così, dai reami di PortoSicuro, dei MontiNevosi, dell’AltopianoCavo, di Amazzone e PortoGrosso, i maghi, a centinaia, lasciarono l’isola per trasferirsi sul Continente.

    L’uomo aveva avvertito la magia dal suo nascondiglio e, una volta scoperta la fonte, l’aveva raggiunta. Da quando i banditi si erano nascosti non avevano mosso un muscolo, neanche per cambiare posizione. Apparivano come statue: mute e immobili. All’inizio tale atteggiamento lo aveva incuriosito, ma in seguito gli era parso assolutamente innaturale. Era pronto a scendere dall’albero su cui era nascosto, se non fosse stato per il richiamo dei suoi compagni, che lo avvisarono di altre presenze nel bosco. Contemporaneamente i banditi sembrarono riprendere vita. L’uomo si immobilizzò e in lontananza udì lo scalpitio di cavalli al trotto: dietro la curva del sentiero apparve il bagliore delle lanterne di una carrozza. Era trainata da due cavalli e nonostante l’oscurità si riconosceva la qualità delle bestie. Alla guida era un uomo dalle quaranta primavere. Indossava un ampio mantello e si guardava attorno con fare sospetto. In contrasto con la qualità dei cavalli era la carrozza, che poteva essere scambiata per un semplice carro, la cui sommità era stata chiusa con tavole di legno per ricavarne uno scomparto riparato. Al suo interno non era possibile distinguere alcun movimento.

    Priva di insegne, la rudimentale carrozza avanzava con fragore sul sentiero. La miseria del mezzo non avrebbe dovuto attirare le attenzioni del gruppo di banditi. I dubbi dell’uomo crebbero, ma decise di attendere l’evolvere degli eventi prima di intervenire. Udì uno squittio dal lato opposto al suo: era un segnale. I banditi si erano disposti sui due lati della strada. Uno schianto proruppe per tutto il bosco: era un albero che, in un turbinio di foglie e schegge, cadeva rovinosamente di traverso sul sentiero. Il conducente ebbe appena il tempo di frenare i cavalli, prima di piombare sul tronco. I banditi uscirono dalle ombre del bosco.

    Il volto coperto da bende e sciarpe e da un ampio mantello lasciava a stento intravedere le cotte di maglia, ma erano ben visibili le lunghe spade che impugnavano.

    – Non avete via d’uscita! – urlò il capo banda. – Se manterrete la calma ed eseguirete i miei ordini, avrete salva la vita.

    All’uomo nascosto sull’albero la voce appariva innaturale e profonda. Anche gli altri si avvicinarono alla carrozza con prudenza.

    – Tu scendi da cassetta e posa la balestra – ringhiò uno degli assalitori.

    L’arma, ben nascosta sotto il mantello, fu scagliata con stizza al suolo. Il cocchiere si trascinò con lentezza giù dal suo posto, ma un bandito, spazientito dalla sua apatia, lo spinse in malo modo, assestandogli un paio di calci nelle costole, per essere sicuro che non tentasse colpi di testa.

    – È ora che scendiate, mia bella signora. È inutile nascondervi nell’ombra… so che siete lì.

    Lo sportello della carrozza si aprì, mostrando alla luce della luna una giovane donna dai lunghi capelli di un arancione luminoso. Le labbra sottili erano serrate e di colore violaceo, le mani, strette a pugno, erano stese lungo i fianchi. Solo il tremito del suo corpo tradiva il senso di sicurezza che a prima vista sembrava ispirare.

    – Su, signora! Sappiamo del vostro coraggio, ma non ci costringete a usare le maniere dure – continuò il capo. – Consegnateci il plico.

    La donna fece un passo indietro e scattò via, ma voltandosi sbatté contro il petto di un altro uomo. Era lo sconosciuto, che nel frattempo si era calato dal ramo. Anche lui indossava un ampio mantello di colore scuro e un cappuccio ben calato sul volto. Di traverso alla schiena portava un lungo arco. La sostenne gentilmente, ma con presa salda. Poi si assicurò che fosse in piedi e si diresse verso il capobanda. Dal bosco uscirono due lupi bianchi che si affiancarono allo sconosciuto.

    – Allontanatevi! – ordinò. La sua voce era calda e un po’ metallica, ma al contempo ferma e imperiosa. – Non vorrete rischiare le vostre vite per un così misero bottino?

    I banditi rimasero immobili, come in meditazione, ma i loro sguardi erano vacui. Comprese che quegli uomini erano in mano a un potere oscuro che ne comandava pensieri e azioni.

    L’uomo abbassò il cappuccio scoprendo il volto, i banditi non batterono ciglio e lui parve sorpreso. La giovane donna era alle sue spalle, ma l’espressione di terrore del cocchiere le fece capire di essere di fronte a qualcosa d’inaspettato. I banditi si lanciarono all’assalto. Con un gesto rapido l’uomo estrasse una daga e con la sinistra impugnò un lungo coltello, e allora il balenio delle spade illuminò i tronchi degli alberi del bosco. I lupi si lanciarono sui primi due giunti attaccandoli alla gola. L’uomo parò il colpo del terzo e trafisse un quarto bloccato dal compagno. Ruotando su se stesso evitò il nuovo fendente del terzo aggressore, trafiggendolo al fianco con il pugnale. La dama osservava rapita lo sconosciuto che pareva intento a danzare. Si fecero avanti altri due banditi pronti a buttarsi nella mischia: speravano di mettere l’uomo in difficoltà, ma egli mostrava una notevole maestria nell’uso del pugnale e della spada. I lupi proteggevano le spalle dello sconosciuto, fronteggiando i rimanenti uomini che non osavano avanzare. L’uomo, con due finte e un fendente, uccise il primo avversario e trafisse il secondo lanciandogli il pugnale nel petto.

    I sopravvissuti tentarono di dileguarsi nella notte. Lo sconosciuto si sfilò l’arco e con quattro dardi, incoccati e scoccati in una frazione di tempo, riuscì ad atterrarli. Solo allora nel bosco tornò la calma e gli animali notturni ripresero il loro mesto brusio. I lupi lentamente raggiunsero l’uomo, che si accertava della morte dei banditi.

    La giovane donna, nascosta durante lo scontro, si fece avanti. L’uomo continuava a mostrarle le spalle, il cocchiere era corso verso la sua signora per sorreggerla e darle conforto. La donna, interdetta, parlò da lontano.

    – Cavaliere, il vostro aiuto sarà lautamente ricompensato sia dal mio sposo che da mio padre, se ci scorterete dove essi ci attendono.

    – Vi prego, signora, non dite altro – interruppe il cocchiere.

    – Quest’uomo ci ha salvato ed è giusto che io lo ringrazi – riprese. – Il mio nome è Ninive, figlia di re Guglyem il Temerario, Signore dell’IsolaVerde e sposa del principe Drean il Prode.

    L’uomo ebbe un sussulto, ma fu così lieve che al buio la dama non se ne rese conto.

    La nobildonna aveva fatto un altro passo in avanti, scostando il cocchiere.

    – Ho una missione da portare a termine: devo consegnare un plico di vitale importanza al re. Vi prego, mostrateci almeno una via sicura attraverso il bosco.

    – Ninive… – sussurrò l’uomo mentre si voltava, consentendo alla luce della luna, filtrata dalle chiome degli alberi, di illuminargli il volto.

    La nobildonna trasalì facendo un passo indietro. L’uomo indossava una maschera d’argento che nascondeva il viso. Una maschera priva di lineamenti, con due sole fessure per gli occhi e una per la bocca. Su di lui c’era più di una leggenda, molte storie narravano del Demone dalla Maschera d’Argento. Per un lungo istante l’uomo la fissò senza muoversi, mentre il cocchiere era corso a raccogliere la balestra. I lupi, d’istinto, si alzarono ringhiando.

    – Posa quell’arma – ordinò senza togliere lo sguardo dalla principessa dell’IsolaVerde. – Vi scorterò fino al limitare del bosco. Non oltre.

    – Sta bene – rispose con voce tremante Ninive.

    – Mia signora, no! Si dice che si nutra dei corpi delle sue vittime e prediliga le giovani donne…

    La principessa zittì il cocchiere alzando una mano, rapita dal luccichio degli occhi riparati dalla maschera. Il demone emise un fischio e uno stallone baio apparve dall’ombra di un albero. Dalla sella pendeva un lungo spadone a due mani. Legando una corda al pomo della sella e l’altro capo sull’albero, con pochi sbuffi il cavallo spostò il tronco liberando il sentiero. La dama e il cocchiere salirono sulla carrozza senza aggiungere altro. Nessuno dei due ebbe il coraggio di voltarsi. Lo stallone era alla ruota della carrozza seguito a breve dai due lupi. Quando giunsero alla fine del sentiero la scorta si fermò. La principessa, vinta la paura e spinta dalla curiosità, si affacciò e vide la maschera brillare nel buio del bosco. Il cocchiere aveva lanciato i cavalli al galoppo.

    La luna stava già calando, quando il Cavaliere rimontò sul suo stallone. Aveva impiegato diverso tempo per far sparire tutti quei corpi. Il cavallo, di nome Abrano, partì al trotto all’invito del Cavaliere. Nella lingua natia quel nome significava fedele, e di esserlo lo aveva dimostrato già più di una volta. Lo lasciò a briglia sciolta, Abrano conosceva quel bosco come la sua vecchia stalla, e non lo aveva mai deluso. Questa sicurezza permetteva al Cavaliere di concedersi lunghe meditazioni. Ora, al buio della notte morente, il Cavaliere procedeva con le mani chiuse sul pomo della sella: eventi strani, in quella notte, su cui meditare. Gli assalitori della principessa non erano ladri ma assassini: lo si capiva in primo luogo dalle cotte di maglia e dalle spade… i banditi usavano normalmente abiti di pelle e lunghi coltelli. Secondo, erano ben determinati a raggiungere il loro scopo. Un ladro comune, alla vista della maschera, avrebbe ceduto il passo immediatamente. Dovevano essere accaduti ben grandi sconvolgimenti nel mondo, se la principessa Ninive era impiegata come messaggera e se uno stuolo di assassini aveva lo scopo di fermarla. Eppure, cinque anni prima, quando si era ritirato nella foresta, il regno era stato pacificato sotto la guida del saggio Guglyem e da più di venticinque anni non c’erano guerre tra i popoli dell’IsolaVerde.

    Fermò Abrano e volse lo sguardo a oriente su un cielo terso e prossimo al sorgere del sole.

    – Ninive – sussurrò.

    Quando era ancora un ragazzo, giunse a corte con il padre, dove la giovane gli era stata presentata e lui ne restò incantato. Ninive era bella come allora, aveva reso il tempo suo schiavo.

    Lui invece era cambiato. Viveva da eremita e provava un profondo odio e disprezzo per gli uomini. Sospirò. Quella notte, come tutte le notti e i giorni della sua vita, aveva rispettato il giuramento nei confronti del suo signore. Alzò lo sguardo al cielo, la notte era finita e il giorno faceva già capolino tra il fitto bosco. Era questo il momento che più adorava nella foresta. Una piccola nebbiolina saliva dal terreno umido, avvolgeva le zampe del cavallo, il buio andava via via sparendo, trasformandosi in ombre sfocate. Gli animali notturni si appartavano lasciando il posto ai compagni del giorno in un cambio della guardia annunciato dal canto degli uccelli mattutini. Era ora di tornare a casa.

    II

    Ninive fu svegliata dal gentile tocco di un’ancella, ma per un attimo si illuse fosse la mano di Drean, il suo sposo. Subito si ricordò che da settimane una fredda caligine offuscava la loro storia d’amore. Scese dalla carrozza dove aveva dormito tutta la notte per raggiungere la Reggia d’Oro a PortoSicuro. Aveva avuto incubi in cui l’inabissarsi del suo matrimonio si intrecciava con quello del regno del padre. Alla fine compariva un uomo mascherato, che in realtà era Drean, per salvare tutti come era avvenuto anni addietro. Quel ricordo le provocò una fitta al cuore.

    L’ancella attendeva i suoi ordini. Ninive le chiese dove fosse il re. Era affamata e si sentiva le ossa rotte, ma doveva fare rapporto al padre il prima possibile. Senza cambiarsi corse nella sala del trono, dove trovò Guglyem con Drean al suo fianco. Il padre aveva il volto teso ma era contento di vederla viva, mentre il principe si dimostrava inespressivo, quasi indifferente.

    – Padre! – disse la principessa correndo incontro al re, che la baciò con affetto. Anche Drean l’abbracciò.

    Ninive fu colta di sorpresa, smarrita.

    – Non è meglio se prima ti riposi? Devi avere affrontato un viaggio difficile – le consigliò Guglyem.

    – Preferisco riferirti cos’è successo. Sediamoci – così dicendo presero posto intorno a un grande tavolo imbandito.

    Mossa dalla fame Ninive mangiò un biscotto al miele e sorseggiò un po’ di liquore che la riconfortò immediatamente. Sebbene il grosso camino fosse acceso e il fuoco divorasse un immenso ceppo, la sala le sembrava gelida. Guglyem e Drean attendevano pazientemente che lei iniziasse la relazione del viaggio. Ninive radunò nella mente ogni pensiero.

    – All’iniziò andò tutto bene – cominciò con una certa titubanza, con le idee ancora un po’ incerte. – La scorta fornitaci da Drean precedeva e seguiva la carrozza e questo mi dava sicurezza. Tool Naso Aquilino, comandante della Guardia Reale, scelse quattro uomini come esploratori e di tanto in tanto tornavano per riferire la situazione. A mezzogiorno attraversammo il ponte sul Fiume Verde. Il sole era alto e caldo, gli uomini erano tranquilli e li sentivo scherzare fra loro. La strada fiancheggiava campi arati e pronti per la semina, i contadini erano sul posto e ci salutavano al passaggio, riconoscendo le insegne sulla carrozza e sulle armature. Nel pomeriggio attraversammo anche il secondo ponte. L’acqua scorreva impetuosa alimentata dalle recenti piogge. Ci attenemmo al piano organizzato da Drean: girare intorno alla foresta di BoscOscuro per evitare ogni possibile rischio. Intanto stava sopraggiungendo la notte. Ci accampammo in una piccola pianura circondata da una fitta boscaglia. Il comandante diede ordine di abbattere alcuni alberi per creare una piccola palizzata e di scavare un fossato tutto intorno al recinto. La carrozza sarebbe stata al centro del campo. Tool aveva anche cattive notizie. Gli esploratori si erano spinti molto a est e non avevano incontrato nessun essere vivente, perché i villaggi erano stati incendiati. Il secondo giorno di viaggio, prima di mezzogiorno, raggiungemmo un minuscolo borgo. Lo scenario era orribile: le case erano state rase al suolo dalle fiamme e tutt’intorno giacevano i resti di uomini e animali. Al fianco di alcuni di questi trovammo armi di fortuna, come forconi, zappe, asce, ma insufficienti a difendersi da un attacco improvviso e violento. Tool, perplesso, esaminò le tracce. C’erano segni evidenti del passaggio di Orchi, ma si distinguevano anche inequivocabili impronte di passi umani lasciate dai leggeri calzari tipici degli Uomini Selvaggi.

    Il re era meditabondo: le notizie di Ninive non lo colsero di sorpresa, ma erano peggiori di quanto immaginasse. Da alcuni mesi le scorribande di Orchi e Uomini Selvaggi del Continente si erano intensificate. Non si erano mai spinti così all’interno, soprattutto da quando la Cintura era stata ripristinata. La Cintura era un sistema di torri disposte lungo la costa, composto dalle Fortezze Gemelle dell’Est e dell’Ovest e dalla Cintura del Sud. Sette torri presidiate da soldati ben addestrati e armati. Il sistema di avvistamento aveva permesso di proteggere l’isola da assalti improvvisi, impedendo gli sbarchi di razziatori.

    – Tool dedusse che le tracce non fossero fresche – Ninive continuava il racconto, – e che fossero vecchie di almeno cinque giorni. Suggerì di allontanarci rapidamente, gli Orchi potevano essere lontani, ma non era comunque prudente restare in campo aperto. Passai il resto del pomeriggio a riflettere. Se una nave di Orchi o Uomini Selvaggi fosse sbarcata sulla costa di Levante, gli uomini delle Fortezze Gemelle dell’Est dovevano necessariamente averli visti. Perché nessuno aveva dato l’allarme o era intervenuto in aiuto dei villaggi attaccati? Pensai anch’io al tradimento del LungoBraccio, ma molte cose dovevano ancora accadere.

    Il re si grattò nervosamente il mento. Gustavo LungoBraccio era il Signore di PortoGrosso, il regno più forte dopo PortoSicuro, e non aveva mai accettato di buon grado la proclamazione di Guglyem come Re supremo dell’Isola, nonostante gli avesse giurato fedeltà. Così quando si parlò della presenza degli Orchi al confine tra il regno di PortoGrosso e PortoSicuro, molti accusarono Gustavo di avere stretto un’alleanza con il nemico di sempre, consentendogli di sbarcare sull’isola.

    Le ambascerie tra i due regni avevano lavorato per ricucire lo strappo. L’idea di Drean fu quella di richiedere un altro giuramento di fedeltà a Gustavo, ma occorreva che avvenisse alla presenza di un membro della famiglia reale. Guglyem era troppo vecchio e lui invece era il comandante della Guardia Reale, non poteva allontanarsi troppo dal re. Restava Ninive, che aveva accettato volentieri di recarsi a PortoGrosso, pur di scongiurare una seconda guerra civile.

    – Mi ascolti, padre? – lo richiamò Ninive.

    – Scusami, ero soprappensiero. Prosegui pure.

    – Incontrammo altri due villaggi che subirono la stessa sorte del precedente. Arrivammo in prossimità della Fortezza Est, ma non chiedemmo ricovero alla guarnigione perché Tool non si sentiva sicuro: eravamo in pieno territorio di Gustavo. Procedemmo oltre e ci accampammo a metà strada dalla Fortezza di Sud-Est, la seconda. Tool raddoppiò le guardie per turno e lui stesso prese parte alla veglia. La mattina del sesto giorno di viaggio si rivelò grigia e carica di pioggia. Il campo era ridotto a un pantano. Gli uomini dell’ultimo turno erano infreddoliti e fradici. Appena pronti, partimmo per i giorni più difficili che io possa ricordare. Quel pomeriggio raggiungemmo la seconda Fortezza e anche in questo caso ci tenemmo ben lontani, accampandoci per la notte sotto le stelle. In quei due giorni osservai i messaggi di fumo scambiati tra le fortezze e PortoGrosso. Tool li tradusse per me, ma il dispaccio era sempre lo stesso: «Tutto tranquillo». La mattina seguente, lasciata alle spalle la Fortezza di Sud-Est, sostammo pochi istanti davanti alla Stele degli Eroi per invocare brevi preghiere in memoria dei caduti della battaglia di cinque anni fa. Da giorni non si incontrava anima viva, ma solo villaggi abbandonati. Ero preoccupata, anche gli uomini erano tesi… nessuno scherzava o cantava, ma tutti si guardavano intorno perplessi, stretti tra la foresta con le sue ombre da un lato e la costa dall’altro. All’improvviso, un corno squarciò il silenzio, gli esploratori avevano lanciato l’allarme. I venti uomini di scorta, che avevo reputato eccessivi, mi sembrarono di colpo poca cosa. Tool dispose gli uomini pronti alla carica.

    Drean ascoltava con attenzione.

    – Mi fu ordinato di rimanere nella carrozza. Udii alcune urla da dietro un gruppo di alberi. Sentii Tool ordinare di tenersi pronti. Poi il grido di battaglia si alzò distinto, seguito dal galoppo dei cavalieri. Non resistetti e mi sporsi dallo sportello. Di fronte a noi una schiera disordinata di uomini vestiti di pelli, dai lunghi capelli scarmigliati e accompagnata da un numero imprecisato di Orchi… mai visto niente di più orribile prima. Impugnavano larghe scimitarre e rozzi scudi di legno, alcuni lanciavano frecce alla rinfusa, mentre i nostri uomini in perfetto ordine piombavano su di loro: un piccolo drappello contro un numero quattro volte più grande. Proco, il cocchiere, lanciò i cavalli al galoppo, seguito dai restanti uomini della scorta. La carica fu devastante, si aprì un varco e noi ci infilammo nello spazio. Mi voltai e vidi per l’ultima volta Tool Naso Aquilino lottare come un leone circondato da decine di Orchi e Uomini Selvaggi. In seguito li aspettammo per sette giorni a PortoGrosso ma nessuno di loro arrivò.

    Il re piegò il capo, conosceva Tool fin da quando era paggio, e anche Drean stimava molto l’uomo: per questo motivo gli aveva affidato la sicurezza della principessa. Si rimproverava però di non aver previsto il pericolo e di aver mandato solo venti uomini al suo seguito.

    – La sera incontrammo un reggimento di cavalieri dalle insegne sullo scudo: una prua d’oro in campo azzurro. Uomini di PortoGrosso. Raccontai quanto ci era accaduto. Il comandante inviò immediatamente un messo alle caserme occidentali della città, affinché inviassero messaggi alle fortezze e a loro volta uscissero in ricognizione. Ci scortarono al castello di Gustavo. Il Signore di PortoGrosso ci attendeva davanti alle mura della città. Non avevo mai visto Gustavo e ne rimasi impressionata: un uomo imponente, sulle quaranta primavere, dai capelli neri come la pece che incorniciavano un viso pieno di cicatrici. Gustavo ci guidò per le vie di PortoGrosso. Dal finestrino osservai una città piena di vita, in contrasto con quanto ci eravamo lasciati alle spalle. Sembrava che tutti fossero all’oscuro di quanto stesse avvenendo al di fuori delle mura. Salimmo sul colle dove svettava il castello di PortoGrosso. Nel cortile interno della fortezza, il principe mi comunicò che tutti i vassalli erano giunti per prestare giuramento. L’atto di fede avrebbe avuto inizio l’indomani in una solenne cerimonia. Tentai di chiedere spiegazioni di quanto stava accadendo nel suo regno, ma Gustavo tagliò corto sostenendo che se ne sarebbe parlato il giorno successivo: altri impegni lo costringevano ad allontanarsi. Fui accompagnata nella mia stanza. Prima di cena mi assicurai della salute di Proco e degli uomini della scorta. Durante la fuga erano stati raggiunti da alcune frecce. Ferite lievi ma tali da non consentire movimenti. La cerimonia del giorno seguente fu lunga e complessa, i sigilli sul documento che ti porto testimoniano la loro fedeltà. Finimmo a sera inoltrata, solo allora potei parlare in privato con Gustavo. Lo aggredii accusandolo di inerzia di fronte allo scempio dei villaggi e dei suoi abitanti. La risposta fu laconica: secondo lui nessuna anomalia era stata segnalata dalle fortezze. Continuai ad accusarlo, non rendendomi conto che stavo dando fuoco a una polveriera. In breve colmai la misura. Gustavo scagliò via il pesante scrittoio, dove era seduto, come fosse un banchetto. Il volto paonazzo, e le cicatrici rosso fuoco che pulsavano. Ebbi paura.

    LungoBraccio respirò profondamente, una volta calmo si sedette di nuovo, appoggiando i gomiti sui braccioli. Mi parlò misurando le parole. Mi disse che da quando il padre e lui avevano giurato fedeltà a Guglyem, aveva sempre rispettato il patto. Le sue cicatrici erano testimoni, una per ogni assalto da parte degli Orchi alle loro coste. Mi scusai per la veemenza delle mie parole. Sembrò calmarsi ulteriormente. Mi disse che non capiva cosa in realtà stesse avvenendo: le Fortezze Gemelle dell’Est vegliavano giorno e notte sulle coste e le loro pattuglie controllavano il territorio, ma nulla di anomalo era stato segnalato, eppure la presenza di un nutrito gruppo di invasori era evidente. Nello stesso tempo un messo portò la notizia della morte dei nostri soldati, ma degli Orchi nessuna traccia. La notizia mi ferì profondamente e chiesi il permesso di ritirarmi.

    La principessa si interruppe provando una grande commozione per i suoi compagni di viaggio che non erano tornati, poi sforzandosi riprese il racconto.

    – Il giorno seguente chiesi a Gustavo di inviare alcuni corrieri alla Reggia d’Oro per farvi conoscere l’accaduto. I giorni passavano, i vassalli del LungoBraccio tornarono ai propri manieri e villaggi. Le fortezze continuavano il loro compito di sorveglianza e comunicazione. La città ai piedi della torre viveva giorni tranquilli, in contrasto con il mio animo cupo. Uscivo dalle mie stanze solo per visitare le guardie. La loro salute migliorava, ma non così rapidamente da intraprendere il lungo viaggio di ritorno. Avevo fretta di tornare, quindi li informai della mia

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