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Le trame del sogno: La caduta di Traas 1
Le trame del sogno: La caduta di Traas 1
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Le trame del sogno: La caduta di Traas 1

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Fantascienza - romanzo (251 pagine) - La guerra contro gli Alkasan volge al peggio, e i giorni che separano Traas dall’invasione ormai sono contati. Ma il sacrificio più grande sarebbe toccato a lei.


Da quando gli uomini della sua famiglia erano partiti per la guerra, Galaddan era rimasta sola a occuparsi della proprietà e delle piantagioni. Ma il suo modo di fare, l'ostinarsi a trattare i propri Hksen come esseri senzienti, la rendeva invisa anche ai suoi pari.

Ma la guerra andava sempre peggio, e per una società complessa come quella di Traas, già appesantita da un sistema di caste in precario equilibrio e da gravi problemi sociali irrisolti, il collasso si faceva sempre più vicino.

Sarebbe toccato proprio a Galaddan, colei che cammina sola, avere un ruolo nella salvezza del suo mondo, ma a un prezzo che nessun essere umano vorrebbe dover pagare.


Milena Debenedetti savonese, è laureata in chimica, ha lavorato per quasi vent’anni come ricercatrice in una industria fotografica, e si occupa ora di redazione testi e collaborazione con siti Internet e giornali locali, nonché delle sue grandi passioni: scrivere e coltivare l’orto. È sposata e ha una figlia. Si occupa anche di politica: dal 2011 è consigliere comunale nella sua città.

Da sempre appassionata di fantascienza e fantastico, oltre che di fumetti, musica rock, cinema, è arrivata spesso in finale con i suoi racconti in vari premi letterari, come il Courmayeur, di cui ha vinto nel 1996 la sezione fantasy, il Cristalli Sognanti, vinto nel 2000, l’Alien, il Lovecraft, il Premio Italia, il Galassia città di Piacenza, vinto nel 2005. Ha pubblicato racconti in antologie edite da Keltia editrice, Garden, Delos Books, Flaccovio, sulle riviste Alia di Libri Nuovi, Strane Storie della Pavesio e su diversi siti internet. Un suo romanzo di fantascienza è arrivato due volte in finale al Premio Urania. Nel 2006 ha pubblicato con Delos Books il romanzo Il Dominio della Regola, vincitore nel 2007 del Premio Italia come miglior romanzo fantasy dell’anno, e due anni dopo il seguito, I maghi degli elementi.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJun 30, 2015
ISBN9788867758241
Le trame del sogno: La caduta di Traas 1

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    Le trame del sogno - Milena Debenedetti

    9788825407846

    Parte prima

    Capitolo I

    Il giallo sole di Traas era già calato da un pezzo, incendiando di bagliori dorati l'orizzonte, e l'aria andava facendosi decisamente fresca, quando la Reana Ivni Galaddan si riscosse finalmente dalle sue meditazioni.

    Era rimasta seduta per terra, perfettamente immobile, molto a lungo, mentre poco distante l'octopodo brucava tranquillamente l'erba azzurrina, oppure, sollevando il capo, annusava piano gli odori portati da qualche refolo di vento.

    Se ne rimanevano fermi nella propria solitudine, la donna e l'animale, e ugualmente impenetrabili erano i pensieri di entrambi, se pensieri vi erano.

    Galaddan amava le passeggiate, ma non ci teneva a far conoscere in giro questa sua abitudine di soffermarsi in silenzio, sola, a osservare il tramonto.

    Sarebbe apparsa quantomeno una cosa bizzarra e poco dignitosa, per qualsiasi Rean non seguace di particolari fedi religiose, e ancor più strana per Galaddan, giudicata da tutti dura e realista, senza emozioni né debolezze.

    Solo l'octopodo condivideva il suo segreto. Chinò la testa da un lato, quasi affettuosamente, quando lei si avvicinò per risalire in sella, e Galaddan lo gratificò di una leggera carezza. Molti proprietari Rean tenevano degli octopodi nelle proprie stalle, ma quasi nessuno ormai li usava come mezzo di locomozione abituale. Galaddan però detestava i piccoli veicoli che il governo Traasco forniva ai Rean, scomodi e rumorosi, e sobbalzanti a ogni ostacolo. Preferiva l'andatura dondolante e sicura del suo animale, il suo morbido pelo giallo e il suo buon odore, appena percettibile, così simile a quello umano…

    Ecco, lei aveva sempre dato molta importanza agli odori, forse perché era sempre vissuta in mezzo alla campagna. Le macchine avevano odori innaturali e sgradevoli: non le sarebbe proprio piaciuto vivere nelle pianure industriali del Nord-Est; dovevano essere posti orribili, impossibili per qualsiasi Rean.

    Tutto avrebbe preferito, persino vivere in una stalla, o nelle fetide capanne degli schiavi Hksen, ma non nelle città delle fabbriche.

    Le era sempre andato bene tutto così com'era, ogni cosa le appariva facile e tranquilla, e lei era stata felice, a suo modo, anche se gli altri la vedevano schiva e solitaria, senza amici né amori. Avrebbe voluto che tutto continuasse così, quieto e immutabile, statico e monotono, pur nel succedersi delle stagioni; una lunga vita sempre uguale.

    E poter analizzare ogni evento e ogni sensazione, anche i più semplici, fin nelle più riposte sfumature; abbandonarsi languida ai tortuosi meandri della sua mente troppo analitica, esercitando il gusto compiaciuto, e forse un po’ superbo, di una solitudine orgogliosa. E che tutti continuassero pure a considerarla insensibile e troppo concreta!

    Poi era arrivata la guerra, a cambiare ogni cosa e a sconvolgere i suoi orizzonti. Forse, dopotutto, non aveva fatto altro che nascondersi, fino a quel momento: ma adesso sentiva che non sarebbe stato più possibile.

    Sul viale di accesso a casa, constatò che avrebbe dovuto affrontare la noia di una visita.

    Detestava le visite di cortesia dei suoi vicini e l'orribile perdita di tempo che rappresentavano; odiava le futili frasi di convenienza che si era costretti a scambiare, in quelle circostanze. Lei stessa adempiva a questi doveri solo quando era strettamente necessario, e unicamente per rispetto a suo padre; non le importava se questo contribuiva a diminuire ulteriormente la sua popolarità nel vicinato, già così scarsa.

    Poteva intuire benissimo le critiche che circolavano dietro le sue spalle; si diffida sempre di chi si comporta diversamente dalla maggioranza.

    Galaddan aveva decisamente troppi torti, specie nei confronti delle signore, le più malefiche distributrici di pettegolezzi: non si associava infatti alle loro chiacchiere, partecipava di rado, e malvolentieri, alle loro feste, non sfoggiava abiti degni del suo rango. Preferiva sedersi accanto al fuoco insieme con gli uomini, per parlare dei prossimi raccolti o dei prezzi delle merci di scambio. Pure, nonostante questo suo rendersi ridicola, aveva già ricevuto anche troppe proposte di matrimonio, più di qualsiasi altra Reana dei dintorni, e aveva osato respingerle tutte.

    Quale sfrontatezza! E come mai suo padre, quell' Ivni Seanef così influente e rispettato, e verso cui lei professava una grande devozione, non metteva un freno alle sue stramberie?

    Ah, questo era di sicuro un altro motivo di costernazione, per quelle rispettabili signore di campagna, dalle idee così doverosamente limitate.

    Ci tenevano a ribadire, presso chiunque ascoltasse i loro commenti su Galaddan, come l'alto numero dei suoi pretendenti fosse dovuto unicamente al prestigio del padre e all'estensione delle sue terre; ignoravano, non si sa quanto volutamente, il fatto che Galaddan avesse la pelle molto bianca, i capelli dorati e gli occhi chiari, tanto da poter quasi passare per una Traasco, mentre le altre giovani Reana erano per lo più robuste e abbronzate, e quasi ridicole quando tentavano di imitare i modi dei nobili. L'odiata Ivni, invece, riusciva senza sforzo a essere aggraziata e fine, quando voleva.

    Insomma, ce n'era più che a sufficienza per conquistarsi un odio mortale.

    Così, sarà stato un caso, ma c'erano ben poche visite femminili, per Galaddan. Se qualcuna la sopportava a denti stretti e fingeva un minimo di cordialità, era solo perché aveva mire matrimoniali nei confronti dei fratelli di lei.

    Stava appunto rimuginando se non dovesse aspettarsi una qualche fidanzata in ansia, quando avvicinandosi a casa riconobbe il veicolo fermo accanto alla porta, che aveva attirato la sua attenzione: aveva insegne verdi e oro. Sospirò di sollievo: non era nessuno dei suoi peggiori visitatori, il noioso Glan Delano, che aveva tentato di tutto per farle sposare suo figlio Glan Ovni, o qualcuno dei presuntuosi Siln.

    Era invece un grande onore, tale da far schiattare alcune signore: si trattava di Velj Asname, il Traasco che aveva osato sposare una Reana, ed era stato perciò detronizzato nella rigida scala sociale. Non più si poteva fregiare dei titoli nobiliari, ma non era neanche regredito al livello Rean; era divenuto piuttosto un An-Traasco, un intermedio, snobbato dai suoi antichi pari, ma ossequiato dai Rean.

    Ivni Seanef aveva avuto la fortuna di incorrere nella sua amicizia; quanto a Galaddan, era vista da lui con una certa condiscendenza, e personalmente non lo trovava antipatico, perché parlava poco, sempre a proposito, e non faceva eccessivi pettegolezzi.

    Così, consegnato l'octopodo alle cure di uno schiavo domestico, entrò in casa abbastanza rassicurata.

    Per capire in quale stanza l'intendente avesse condotto l'ospite, le bastò seguire la scia: Asname aveva mantenuto l'abitudine Traasco di profumarsi.

    Lo trovò alla veranda, intento a sorseggiare una bibita.

    – Onore a voi, Velj-Traas Asname – lo salutò, cerimoniosamente. Lui si limitò a chinare appena il capo, come prescritto dall'etichetta.

    – Avete cavalcato, Reana Ivni?

    – Sì, e debbo scusarmi per il mio abbigliamento impolverato. Ci farete l'onore di fermarvi a cena da noi, stasera?

    Asname declinò l'invito con un cenno della mano.

    – Sono atteso a casa. A Velj Yelda ho detto che mi sarei trattenuto solo per poco.

    – Dolente di avervi fatto attendere. Ma se mi aveste preannunciato la visita…

    Ancora, lui la fermò con un breve cenno.

    – È stata una decisione improvvisa. Da tempo non ho notizie di vostro padre e dei suoi figli.

    Così, in realtà era lì all'insaputa della moglie, dedusse Galaddan. Già, Yelda era insopportabilmente fiera di aver attratto, sia pure molti cicli addietro, l'attenzione di un Traasco, e incredibilmente gelosa di qualunque donna lo avvicinasse, specie se aveva tratti e portamento da nobile.

    – Ma ora, bando ai convenevoli, e sedetevi – proseguì Asname, quasi bruscamente. – Non avete notizie?

    Galaddan scosse lentamente il capo.

    – Purtroppo no. Non si riesce a ricevere più alcun tipo di corrispondenza. Il fronte delle operazioni è in cieli lontani, ormai. Mi è rimasto soltanto il bollettino ufficiale: vado a Gora ogni volta che c'è una trasmissione.

    Le mani di Asname, appoggiate al bastone da passeggio, tremarono leggermente. Gli acquosi occhi azzurri sembravano altrettanto irrequieti. Osservandone il profilo sottile e scavato, nell'ultima luce della sera, si accorse di quante nuove rughe fossero comparse in quel viso già non più giovane.

    È preoccupato. Forse, sa cose che io non posso conoscere.

    – Non avrebbero dovuto – mormorò infine il vecchio – Il governo non avrebbe dovuto arruolare l'intera famiglia, senza lasciare neppure un uomo a curare la proprietà. Certo, voi ve la state cavando anche troppo bene; ma è il principio, che non mi pare giusto. Non offendetevi: voi siete al di sopra di molte altre donne, e in certe cose siete pari a un uomo, questo ve lo debbo riconoscere. Ma se al vostro posto ci fosse stata un'altra, questa terra sarebbe andata in rovina.

    – Proprio perché si fidava di me – replicò Galaddan, quieta. – Mio padre ha voluto arruolarsi di sua volontà. Io rispetto la sua decisione: lo ha fatto per difenderci dall'invasione dei nemici. Con i gradi militari che ancora ricopriva, non avrebbe potuto rifiutarsi.

    Il vecchio sospirò, e scosse il capo.

    – A me sembra che ci abbandonino un po’ troppo a noi stessi, in questo momento di crisi. La terra è importante quanto le industrie, se non di più. Non avrebbero dovuto lasciarci così sguarniti, e diminuire i presidii ai Centri.

    Non è che cominceranno a scarseggiare i rinforzi? pensò Galaddan, ma si guardò bene dal dirlo.

    Il vecchio però sembrava impaziente di parlare. Proseguì:

    – Che potremmo fare, noi vecchi, e qualche donna, e qualche infido intendente, se… se…

    Si interruppe, quasi non volendo andare oltre. Ma Galaddan, forse per via di qualche oscura intuizione che si agitava in lei, lo incoraggiò, con voce volutamente calma:

    – Che cosa temete, Velj-Traas?

    Lui abbassò ulteriormente il tono di voce.

    – Nella malaugurata e lontana ipotesi in cui le sorti della guerra volgessero al peggio, e se questa nostra situazione di isolamento e debolezza si protraesse, qui sarebbe il caos. Insomma, se perdessimo ogni appoggio dal governo centrale, non ci sarebbero più leggi, né mezzi per farle rispettare, e persino… persino quelle mandrie di animali che sono gli Hksen, potrebbero ribellarsi.

    – Va dunque così male! – esclamò Galaddan, questa volta senza accorgersi di aver concluso le proprie riflessioni a voce alta, cosa decisamente pericolosa.

    Infatti gli occhi di Asname si fecero sottili, sospettosi, e la voce, più fredda.

    – Non fatemi dire cose che non ho detto. I bollettini non annunciano forse che stiamo mantenendo saldamente le posizioni, oltre il sistema, e che gli Alkasan sono stati costretti a rallentare l'offensiva?

    – Sì, lo dicono. Ma i segni che abbiamo intorno…

    Il vecchio nobile si irrigidì.

    – Vi consiglio di non fare pubblicamente illazioni di questo tipo, e per il vostro bene: il disfattismo è una grave colpa. Nella peggiore delle ipotesi, che ci fosse sotto cioè qualcosa di vero, non fareste altro che accelerare il disastro, diffondendo l'allarmismo.

    Galaddan chinò il capo, rimproverandosi la sua scarsa cautela.

    Così andavano le cose: un Traasco poteva permettersi di criticare il governo in sua presenza, ma lei non doveva neppure commentare i segni della crisi, che erano evidenti a tutti coloro che possedessero un minimo di intelligenza e spirito di osservazione. Altro che bollettini ufficiali!

    – Troppo giusto – mormorò, ossequiosa. – ma vi assicuro che io sto facendo tutto il mio dovere.

    Asname annuì, magnanimo, alzandosi per andarsene.

    – Lo so. I vostri campi sono i più curati della zona, e i vostri schiavi, i più docili.

    Sembrò che questa frase gli rammentasse qualcosa, perché proseguì:

    – Verrete anche voi all'esecuzione, fra due soli, a Gora? È dovere di ogni buon Rean assistervi.

    Vedendo Galaddan perplessa, proseguì:

    – Non l'avete saputo, allora? Una cosa inaudita e vergognosa, degna dei tempi in cui viviamo. Uno schiavo della famiglia Siln ha tentato di usare violenza a Siln Dania. L'hanno fermato in tempo, per fortuna. Quell'animale non morirà mai abbastanza lentamente. Ecco un segno negativo, cara Galaddan: da arrestare in modo esemplare, se vogliamo salvare le nostre leggi e la nostra morale.

    Sollevò il bastone, a sottolineare quelle parole, e si accomiatò, con i saluti di rito.

    Si sarebbe davvero stupito, se avesse visto l'espressione di Galaddan, poco dopo. Era seduta, lo sguardo fisso al mondo esterno ormai buio, e un largo, ironico sorriso le aleggiava sul volto.

    Di tutti gli arroganti Siln, Siln Dania era la più presuntuosa, la più vuota, la più ipocrita.

    Galaddan non la poteva soffrire. Pensare, adesso, a uno di quegli animali puzzolenti che tentava di saltarle addosso, era troppo divertente. Chissà che strilli! Sicuramente, le era presa perlomeno una bella crisi isterica.

    Poi, improvvisamente, il sorriso svanì.

    Tutto questo non ha senso, si disse. Era difficile persino da immaginare, una scena del genere. Chissà cosa c'era sotto veramente.

    Rimase seduta a lungo al buio a rimuginare, su questo fatto e su ciò che le aveva detto il vecchio Asname, finché la donna An-Rean che fungeva da intendente della casa non le comunicò che la cena era pronta.

    In cielo c'era una strana luce azzurrina, come quella delle notti del Nord, di cui aveva sentito spesso parlare. Non faceva freddo però, e la semplice tunica da notte che indossava valeva a ripararla dalla leggerissima brezza.

    Non ricordava bene che cammino avesse seguito per giungere fin lì, ma non doveva essere stato lungo, perché non si sentiva affatto stanca.

    Si trovava al centro di una radura, e aveva di fronte un'immensa foresta, un muro di alberi alti e diritti, tutti uguali, fitti di aghetti di un celeste cupo. Quel posto non le piaceva, temeva di perdervisi. Pure, sentiva ugualmente una forza prepotente in lei, che la spingeva ad attraversarlo. Si inoltrò, sia pure riluttante. Camminava a passi rigidi e lenti, tentando di guadagnare il sentiero pulito, fuori dall'intricato sottobosco.

    Ma diventava così faticoso, adesso… sempre più faticoso. Non si riusciva a intravedere una direzione, fra quelle monotone file di alberi.

    Una spina le aveva graffiato il braccio, lasciandole una lunga striatura rossastra. La tunica le si era impigliata più volte nei rametti, costringendola a fermarsi. Nello sforzo di liberarsi l'aveva anche lacerata su un fianco.

    Avanzò ancora, quasi con disperazione. Tutto diveniva più cupo, intorno. I rami si infittivano e la luce notturna non filtrava più.

    Cominciava ad avere paura. Avrebbe voluto fermarsi in un angolo, dar libero sfogo a quella sensazione di sgomento. Rattrappirsi su se stessa, abbracciarsi le ginocchia, e dondolarsi, e gemere piano come un animaletto ferito. Da tanto tempo lo desiderava. Da così tanto tempo.

    Ma anche solo confessare a qualcuno questa debolezza sarebbe stato un disonore. Doveva solo andare avanti. Andare avanti e basta. Era questo che si voleva da lei.

    Solo per un attimo la assalì la tentazione: potersi sedere qui dove nessuno la vedeva, nell'oscurità. Abbandonarsi semplicemente a una ovattata disperazione, senza suoni e senza pensieri, e lasciare che il buio la inghiottisse, si fondesse con la sua anima, fino a disperderla. Prendersi la sua mente, fino ad annullare il tormento stesso del pensiero.

    Poi, improvvisamente, udì uno strano rumore: come una specie di gorgoglio. Non ne fu impressionata; piuttosto, incuriosita. Il rumore si ripeté: assomigliava a una risata soffocata, e fu seguito da un fruscio di passi, nel sottobosco.

    Si voltò nella direzione di quei suoni. Dal buio vide avanzare una figura umana, ma non riuscì a distinguerla bene. Era come… sfocata.

    Si avvicinò ancora. Ora ne vedeva i tratti del viso: era un uomo, giovane, con i capelli corti e biondi e la pelle bianchissima, come solo un Traasco poteva avere. In qualche modo, quel viso non le riusciva ignoto. Però, era come se quella figura mancasse di consistenza, di spessore. Era simile a un'immagine proiettata.

    – Chi siete, signore? – gli chiese, a voce bassa e rispettosa. Non conoscendo il titolo del personaggio, preferiva essere prudente. L'essere rise, più apertamente, questa volta.

    – Brava! L'etichetta innanzitutto, eh? È sempre ammirevole la tua disciplina in ogni circostanza.

    Aveva una voce squillante, molto giovanile e priva di accenti.

    – Io credo di essermi persa.

    – Così sembrerebbe. Ma in realtà, puoi uscire di qui in qualsiasi momento.

    – Sapreste…sapreste indicarmi la strada?

    L'uomo schioccò la lingua e scosse la testa, con aria di disapprovazione.

    – Io indicare la strada a te! Non posso dirti cose che non sai. Andiamo, Galaddan, ti facevo più intelligente.

    – Conoscete il mio nome?

    – Certo! Come lo conosci tu, è ovvio.

    Il giovane sembrava soddisfatto di sé, come se avesse detto una battuta molto divertente. Proseguì poi, in tono di distratta conversazione:

    – Dovresti capire, dopotutto. Guardati attorno: gli alberi, il buio, il timore eppure il desiderio di proseguire… – Sospirò, deluso. – No, sei ancora troppo indietro. Ma forse è giusto così. Tutto è primitivo e rozzo, qui. Senza sfumature.

    Sembrava la caricatura del Traasco vuoto e distaccato, come lo vedevano gli inferiori.

    – Non fa per me. – concluse. – Ma credo che ci rivedremo.

    – Aspettate! – lo richiamò lei. – Il vostro nome?

    – Non ce l'ho, un nome. Non per ora. Forse la prossima volta.

    Lo guardò allontanarsi. La foresta sembrò svanire con lui, come risucchiata entro un gigantesco vortice.

    Dalla finestra giungevano i primi rumori mattutini, e il frusciare lieve delle foglie al vento dell'alba. Si alzò e sollevata la serranda guardò fuori. Il sapore frizzante del risveglio era nell'aria.

    I sogni del mattino sono i più veritieri: così si diceva. Si sciacquò il viso, per cancellare il sonno, e si sedette alla scrivania, a fianco della finestra. Dagli stipetti bene ordinati trasse fuori il blocco che usava di solito per gli appunti della giornata, e uno stilo colorato. In fretta, iniziò a scrivere, prima che il nitido ricordo del sogno si diradasse. Di tanto in tanto, però, si ritrovava a interrompersi, e ad alzare gli occhi.

    C'era un grande stupore, in lei. Da bambina aveva avuto spesso visioni confuse, a popolare le sue notti; immagini su immagini che si sovrapponevano, in uno scorrere caleidoscopico e spesso privo di significato.

    Nell'adolescenza aveva preso l'abitudine di annotare tutto quello che riusciva a ricordare, e aveva riempito quaderni e quaderni di scrittura fittissima. Ancora li conservava, da qualche parte, inaccessibili a sguardi indiscreti.

    Com'era nella sua natura riservata, e quasi vergognandosi di quelle notturne esplosioni di fantasia irrazionale, non ne aveva mai fatto parola con nessuno, nemmeno con i suoi stessi familiari.

    Poi il fenomeno si era attenuato, e più o meno con l'inizio dell'età adulta era scomparso del tutto.

    Ora non ricordava che poche immagini grigie e banali, proiezioni della sua esistenza quotidiana.

    Perché dunque aveva avuto quella visione così nitida? Quel fenomeno, pur non arrivando a suggestionarla, la incuriosiva, per quella sua mania di analizzare e sviscerare ogni cosa. Tanto che aveva letto in proposito tutto quello che le era riuscito di trovare, dai racconti fiabeschi ai più seri studi sull'anima, alcuni dei quali, scritti da Traasco in possesso di conoscenze superiori, le erano sembrati troppo oscuri e difficili.

    Comunque qualcosa ricordava: bisognava rievocare i pensieri della sera precedente, avuti prima di addormentarsi, per cercare di interpretare il sogno.

    Erano incentrati sulla guerra, naturalmente, sulla lontananza dei suoi cari e sulle preoccupazioni per il prossimo raccolto. Poi le era tornato in mente l'episodio dello schiavo condannato. Se veramente le cose erano andate come si diceva, doveva essere proprio impazzito, quell'animale Hksen, per osare una cosa simile.

    Non poteva fare a meno di tentare di raffigurarsi la scena. Immaginava quella sciocca di Siln Dania, seduta in una stanza, che si controllava il trucco allo specchio, canterellando. La lunga ombra dello Hksen già si proiettava su di lei, che ancora non se n'era accorta: era entrato così silenziosamente, nella stanza…

    Se lo immaginava spaventoso, i rotondi occhi rossastri sbarrati, la schiuma alla bocca. Le zampe verdi dai grossi artigli erano protese, e già stava per afferrare la vittima.

    A dire il vero, la sua mente aveva indugiato anche troppo, nel raffigurarsi questa scena.

    Voltò la testa, incontrando la sua immagine nello specchio, che le restituì uno sguardo talmente ironico e consapevole, da costringerla ad abbassare gli occhi, arrossendo.

    Cominciava a capire. Le sue insane fantasie della sera prima, e poi quel sogno…era tutto chiaro.

    Be’, era una donna giovane e sola, e aveva dei normali desideri, che si era abituata da tempo a soffocare. Era naturale che riemergessero, in qualche modo.

    Ma quello che non capiva, e che le faceva rabbia, era perché in quel momento dovesse sentirsi colpevole e vergognarsi così tanto. Si sentiva vulnerabile e quasi trasparente. Le pareva che chiunque, anche il più sciocco dei Rean, avrebbe capito tutto, vedendola.

    Dandosi della stupida, indugiò tuttavia più del necessario, a vestirsi.

    Nel togliersi la tunica, constatò che era strappata, su un fianco. E sul suo braccio destro c'era una lunga striatura rossastra, come un graffio.

    Capitolo II

    La grossa falciatrice procedeva, sbuffando, e sotto le sue lame cadevano uno dopo l'altro gli alti steli azzurrini dal vistoso frutto purpureo.

    I frutti venivano raccolti entro un grande sacco, e gli steli cadevano a terra, già divisi in covoni. Seguivano la macchina due squadre di femmine Hksen, che radunavano i covoni e raccoglievano ogni singolo frutto disperso.

    Un altro buon raccolto, pensò soddisfatta Galaddan, che dall'alto di una collinetta vicina contemplava i suoi campi rosseggianti, che stavano lentamente perdendo tutto il loro fuoco.

    Era il primo raccolto di cui fosse personalmente responsabile, ed era veramente soddisfatta del suo buon senso. Tutti quanti i vicini, all'inizio della guerra, si erano affrettati a seminare vaste estensioni a carvas, la pianta ricca di linfa dalla cui fermentazione si ricavava il combustibile per i motori, calcolando che le richieste di carburante sarebbero aumentate, e i prezzi anche.

    Invece lei aveva mantenuto a carvas la stessa quota di terreno degli anni passati, più che sufficiente per le sue esigenze, e aveva destinato quasi tutto il terreno residuo al rosso slaren. Più d'uno aveva deprecato la sua scelta, compiangendo i suoi familiari in guerra, e pronosticando la prossima rovina degli Ivni per opera della sua irresponsabilità.

    Ora però il prezzo della farina di slaren, ricavata dai frutti macinati, stava salendo sempre di più, e le scorte non erano sufficienti, mentre c'erano forti eccedenze di carvas da fermentare.

    Come se non bastasse, l'andamento climatico della stagione era stato molto favorevole al ciclo della pianta di slaren; così, Galaddan era in procinto di realizzare forti guadagni. Il rispetto degli altri proprietari nei suoi confronti era cresciuto enormemente, e così pure l'astio delle donne: e in fondo in fondo, anche se non lo dava a vedere, ne era molto orgogliosa. Avrebbe tanto voluto poter dare quella buona notizia a suo padre: forse, avrebbe potuto rasserenarlo, sapere che almeno nella piantagione le cose andavano bene, e che sua figlia

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