La via oscura
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La via oscura - Alessandro Mezzena Lona
a cura di Franco Forte
Alessandro Mezzena Lona
La via oscura
Romanzo
Prima edizione aprile 2015
ISBN 9788867757404
© 2015 Alessandro Mezzena Lona
Edizione ebook © 2015 Delos Digital srl
Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano
Versione: 1.0
Font Fauna One by Eduardo Tunni, SIL Open Font Licence 1.1
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate.
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Indice
Il libro
L'autore
La via oscura
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
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Il libro
Un noir futuristico o un’indagine nei tormenti della psiche umana? Forse entrambe le cose. O forse nessuna. Perché in questo libro nessuno sembra disposto a raccontare la verità…
È una sera senza tramonto quando Man-Chine esce di scena. Anzi, a dire il vero, se ne va in silenzio prima ancora che il suo show cominci al Mystical Lab, il locale dove suonano i migliori musicisti della scena elettronica. Quasi nessuno si accorge, però, che quella sorta di androide di carne è sparito: nel mondo dello spettacolo lo considerano un bluff. Un truffatore, un mitomane che racconta di essere l'uomo del futuro. Un mix perfetto di sangue e metallo nato in seguito a misteriosi esperimenti. Così a mettersi sulle sue tracce, senza troppo entusiasmo, sarà un giornalista che sogna di scrivere il primo romanzo per sfuggire ai tormenti e alla noia della quotidianità. Ma dare la caccia all'uomo-macchina, per lui, si rivelerà un affare maledettamente complicato. Perché non ce n'è uno, uno solo, che sembra disposto a raccontare la verità.
L'autore
Alessandro Mezzena Lona è nato a Trieste nel 1958. Responsabile delle pagine culturali del quotidiano Il Piccolo ha scritto saggi sulla letteratura italiana. Con il racconto Non credere ai santi ha vinto nel 2013 il Premio Grado Giallo Mondadori. Nel 2014 ha pubblicato il romanzo La Morte danza in salita. Ettore Schmitz e il caso Bottecchia e ha creato con la disegnatrice Vanna Vinci le storie a fumetti Vite immaginate.
1
Non ce n’è uno, uno solo, che ricordi di avere visto tramontare il sole, quella sera. Dicono che il buio prese forma così, all’improvviso, come se il cielo sopra la città fosse l’immenso set di un film e una voce fuori campo sussurrasse stanca: – Basta per oggi, ragazzi. Spegnete tutto, ce ne andiamo a dormire.
Dentro la luce polverosa di quella giornata d’autunno, tanto calda e indolente da sembrare un frammento d’estate rimasto impigliato nel susseguirsi delle stagioni, le tenebre strisciarono inaspettate. Quasi fossero regolate da un congegno invisibile ideato da chissà chi, chissà perché.
Subito, per le strade del centro, l’orchestra dei clacson intonò una stridula sinfonia. Le sagome degli alberi, l’immensa mole di alcuni palazzi, la ragnatela di viali e vicoli che circondava la collina, si scomposero in una sequenza di linee discontinue. Il brusio dei passanti si fece rombo, liquido brontolio di fiume in piena pronto a liberarsi dalle catene degli argini.
Mentre i lampioni stentavano a diffondere il loro chiarore, e dai negozi, trasformati in sterminate distese di oggetti messi lì senza una logica apparente usciva, più contrariato che spaventato, qualcuno con la carta di credito in mano, un ronzio lieve accompagnò il precipitare della luce verso il buio. Mettendo il silenziatore agli altri rumori.
Seminando inquieti presentimenti, scompigliando i pensieri.
Man-Chine se ne andò quella sera. Senza un inchino, senza ascoltare il primo applauso.
Senza spiegare niente a nessuno.
Come se il vuoto si fosse spalancato davanti ai suoi piedi per accoglierlo a tradimento, sorprendendo pure lui che, da tempo, aspettava un segnale da dimensioni mai esplorate.
Adesso, però, nessuno sembra disposto a giurare che la storia sia andata veramente così. Perché i ricordi li puoi plasmare come fossero morbida cera. E piano piano finiscono per assomigliare agli attori più bravi, che cambiano personaggio con gelida indifferenza. Passando dal riso al pianto senza troppe difficoltà.
Sembra che quella sera non aspettassero una folla immensa, al Mystical Lab, per lo spettacolo più bizzarro dell’anno. Lo show di Man-Chine. L'uomo macchina.
Erano sfiduciati, rassegnati.
– Chi vuoi che si schiodi da casa per venire a vedere un raccontapalle come Man-Chine – s’erano detti. – Va blaterando in giro che a partorirlo non è stata una donna. Ma al massimo potresti piazzarlo sulla porta del supermercato dietro l’angolo. Sai dove lavora Madda, la ragazza che assomiglia all’androide femmina di Blade Runner. Lì diventerebbe l’attrazione delle casalinghe. Il brivido freddo di quelle quattro ciabattone che tirano tardi tutte le mattine con le borse della spesa in mano. Te lo vedi rigido come un robot, occhi fissi nel vuoto, ripetere: Signora, crzzz, compri la carne in scatola, gghhh, è buonissima, bzzz.
– Sì, passo e chiudo – e giù a ridere.
– Chi si è sognato di dire: Man-Chine, noi del Mystical Lab ti mettiamo su uno spettacolino di quelli giusti? Dai, lo sanno tutti che a essere troppo disponibile sbagli sempre.
Però i manifesti in giro per la città non erano andati ad attaccarli. Perché il loro pubblico ascoltava solo il verbo della musica elettronica. – La settimana scorsa qui da noi hanno suonato gli Orbital, sabato arriva Bonobo. Se poi Biosphere, Autechre e Digitalism vengono a sapere che diamo spazio a certe baracconate, annullano di volata i concerti già annunciati. Senza nemmeno dire grazie, arrivederci.
Esageravano, alzavano la cresta come galletti da combattimento. Si sentivano forti, lì dentro, invincibili. Quello era il Mystical Lab, un piccolo regno incantato che la notte sbatteva la porta in faccia al mondo. Puzza di umidità che ti si appiccicava addosso come un simbolo di iniziazione. Suoni ossessivi, fumo, illusioni in libertà.
Da lì sempre nuove mode prendevano forma. Sul muro del locale, tracciata con la vernice nera, accanto a una selva di video posti dietro certe mastodontiche sedie che sembravano partorite dall’incontro tra Gaudi e Giger, c’era una frase dell’etnobotanico Terence McKenna.
Uno dei tanti guru passati a dettare vangeli transitori.
Diceva: – La ragione ha fallito, la Storia ha fallito. Non aspettiamo la buona novella dei media, torniamo a vivere.
Simile a schiuma di birra che scivola lungo i bordi di un boccale riempito in fretta, il silenzio era poi sceso a contrastare le risate sguaiate. E in quel preciso istante, o subito prima, s’erano accorti d’essere osservati.
Una figura stava nell’angolo più vicino all’ingresso del Lab.
Immobile.
Chissà da quanto era lì.
Incurante degli sguardi che la perlustravano in modo febbrile, pezzo a pezzo, l’ombra taceva. Non cercava di attirare l’attenzione, non lasciava arrivare alle loro orecchie neppure il soffio delicato del respiro.
Rimaneva in attesa. Incurante di comunicare, di presentarsi, di spiegare.
Sembrava nudo, l’ospite muto, o forse a fasciarlo era un’attillatissima tuta dal colore indefinito. Statico, con l’espressione guardinga di chi si sente lontano da casa in qualunque punto dell’universo si trovi, di tanto in tanto poneva fine all’innaturale immobilità spostando gli occhi da uno o all'altro di loro.
Era un’apparizione? No, meglio, una proiezione olografica.
Ma come avevano fatto ad accorgersi solo adesso di quella presenza?
Semplice: c'erano poche luci accese dentro il Lab. Giusto quattro faretti nella zona bar che proiettavano un gelido chiarore, stile – benvenuti nella casa degli orrori – e permettevano di muoversi senza andare a sbattere. Tutto il resto galleggiava nella penombra, o scolorava nel buio profondo.
Eppure, dall’angolo più lontano arrivava un debole riflesso. E un ronzio in tutto simile al sibilo che fa una lampadina ormai consumata.
Furono i gesti a riempire il silenzio. Per esorcizzare la tensione, per non fare la figura degli imbranati o, ancora peggio, di chi si era lasciato cogliere di sorpresa, Medo accennò un inchino, indicando all’ospite la strada da seguire.
Subito Man-Chine si spostò. Scivolò di lato, evitando tavoli ancora ammonticchiati, scansando una fila di bassi divani in disordine, aggirando mucchietti di sporcizia che spuntavano qua e là sul pavimento disegnato a quadratoni bianchi e neri.
Muovendosi, non dava l’impressione di camminare, di articolare un passo dietro l’altro con scontata precisione. Nella luce incerta del Lab sembrava, invece, che slittasse su invisibili rotaie. Su un tapis roulant piazzato proprio lì, davanti a lui.
Faccia e gambe rimanevano immobili. O, quantomeno, assecondavano con lentezza gli impercettibili comandi elaborati a velocità folle e impartiti al cervello come fulmini che piovono in sequenza. Le scarpe non si staccavano dal suolo, gli occhi non si abbassavano a controllare la traiettoria. E le palpebre rimanevano sempre aperte, dando agli occhi una staticità innaturale.
Trascorse un tempo infinito, o solo pochi secondi. Quando la porta che si spalancava sul corridoio con i camerini riservati agli artisti si richiuse, portando via con sé quella specie di burattino senza fili, Mojo mormorò: – Chi ha avuto la brillante idea di inserire nel lettore cd Man-Machine dei Kraftwerk?
Scherzava, perché non c’era nessun robotico disco dei Kraftwerk a diffondere le sue note nel locale. Quella stupida gag serviva solo a esorcizzare l’inquietudine. La scheggia di paura che era strisciata loro sotto pelle. Facendo vacillare certezze profonde.
– Forza, dai, tira fuori la mezza bottiglia di Pernod che è avanzata e non azzardarti ad allungarlo con l’acqua, capito? Offre la casa, s’intende – butto là Mic
– Tranquillo, siamo al Lab", lo fermò Medo. – Crediamo nel sesso, negli acidi, nella musica techno. Nei fottuti ectoplasmi, no. E non ce la faremo sotto davanti al signor Man-Ichino, o sbaglio? È solo un clown, mica il mago Houdini reincarnato nel corpo di Aleister Crowley, la Grande Bestia buonanima. Sai come si è fatto i soldi? Va raccontando in giro che non è stata una donna a partorirlo, nossignore. Giura che dentro di lui siano custoditi i segreti del passato e del futuro, in un connubio perfetto di carne, ossa e stranezze meccaniche. Follie, stronzate.
– Ma hai visto come si muoveva? E gli occhi, dio quegli occhi…
Non ci pensava proprio a staccare le labbra dal bicchiere: un sorso, un altro, un altro ancora, tanto per darsi un tono. Lo sguardo restava fisso sul fondo torbido, perché Mic sperava che quel grumo di spavento potesse dissolversi proprio lì, dentro il liquore giallo sputo, dentro l’aroma dolciastro.
Stupido. Non serviva fingere né tentare di controllare le mani che tremavano. Bastava inventare una scusa, una qualunque, e uscire di scena con eleganza. Buttare là una frase banale tipo.
– Non vi arrabbiate, vado a spararmi un po’ di decibel in cuffia da Magic and Music. Tanto per sentire se ci sono novità. Sarò qui prima che lui salga sul palcoscenico. State scherzando? Quello non me lo perdo, voglio vederlo bene.
Non c’era mai stato un pozzo di luce a rischiarare la strada a fondo cieco che portava all’ingresso del Mystical Lab. Il punto di riferimento, nel buio, erano due lettere fosforescenti: una grande M e una L molto più piccola.
Non a caso proprio loro avevano coniato lo slogan, di cui andavano fieri: – Mystical Lab: un faro nelle tenebre.
Eppure, un buio così profondo, assoluto, Mic non lo aveva mai visto. L’insegna era spenta, in lontananza non si vedeva nemmeno il bagliore dei fari di qualche automobile di passaggio. – È stato davvero bravo Man-Ichino, o come accidenti si chiama, ad arrivare da noi senza spaccarsi la faccia.
Parlava da solo, adesso
Ma chi c’era là nel vicolo?
Con il piede Mic andò a sbattere contro qualcosa di compatto e, al tempo stesso, cedevole. – Maledizione, mi scusi, non ci vedo proprio. Forse mi può aiutare lei, se non le ho fatto troppo male.
A chi diceva quelle cose? Al vuoto, alla notte infinita? Da lontano arrivava un indistinto fruscio, come se qualcuno si fosse messo ad accarezzare dei tubi di metallo con una spazzola per capelli.
Assurdo.
Alzando gli occhi verso il cielo capì che tutte le luci della città s’erano spente. Le maestose nuvole che rotolavano alte sopra di lui non riflettevano più gli apocalittici bagliori fendinebbia che, abitualmente, si diffondevano dalla zona del porto.
Provò a deglutire, ma di saliva non ne aveva in bocca.
Più tardi, Mic raccontò a se stesso che non era stata la paura a ricacciarlo indietro, lentamente. No, piuttosto una travolgente malinconia che lo aveva convinto a ritornare sui suoi passi. Come se qualcuno gli avesse sussurrato che non valeva la pena affannarsi. Che era già tutto deciso, fin dall’inizio del tempo.
Una mano che si allunga a tastare il vuoto, una maniglia che si abbassa senza fare rumore, e Mic si ritrovò nella penombra screziata di rosso del Lab. In quella specie di recinto dentro il quale trascorreva gran parte delle sue giornate.
Salvo, sì era salvo, ma da cosa?
– Sei già qui?
Quanto gli sarebbe piaciuto rispondere che il negozio era chiuso. – Sai come sono quelli di Magic and Music, non capisci mai quando lavorano.
Però non gli andava di mentire, non così. Preferì defilarsi. Prese a pulire tavoli, a riordinare sedie e poltroncine, in silenzio, con gli occhi rivolti verso un punto indefinito. Senza dire niente. Deciso a scoraggiare ogni tentativo di conversazione.
Continuò per un po’. Fino a quando, indietreggiando per vedere se sotto un divano erano rimasti mozziconi di sigarette, andò a sbattere contro la porta che separava la grande sala del Lab dai camerini degli artisti.
Attraversò la soglia. Camminava in punta di piedi, rallentando i passi, contenendo al massimo i gesti.
Si fermò perché il suo respiro gli sembrava esagerato, amplificato. Il soffio di una bestia preistorica intrappolata nei labirinti del progresso.
Due camerini erano aperti, l’altro aveva la porta socchiusa. Dal corridoio si poteva scorgere la sagoma di Man-Chine. Era seduto davanti allo specchio a luci spente. Stava fermo in maniera innaturale. Non un movimento alterava il suo volto. Non un suono proveniva dalla stanza.
A un tratto, con lentezza infinita, girò la testa, disturbato da un rumore che solo lui era in grado di percepire. Il suo sguardo andò a intercettare quello di Mic, che s’era illuso di coglierlo di sorpresa. Di poterlo osservare senza essere visto.
Occhi da bambola lo seguirono mentre provava ad appiattirsi contro il muro. Occhi statici, ipnotici, quanto un fuoco che divampa in mezzo alla neve. Invasi da un’inquietudine antica, da un’angoscia costruita sopra una smisurata saggezza e un’immensa follia.
Avrebbe voluto parlargli. Chiedergli mille cose, provare a scoprire chi si celava davvero sotto quella maschera. Capire perché continuava a recitare la sua parte anche quando era lontano dalla scena.
Non trovò il coraggio, gli mancarono le parole, trattenute in gola da un’incertezza che Mic di solito non conosceva.
Si limitò a indietreggiare, chiudendosi la porta alle spalle e ritornando al suo lavoro di riordino del locale con gesti meccanici.
Man-Chine, quella sera, non si fece