Sherlock Holmes e il labirinto della solitudine
By Luca Sartori
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Sherlock Holmes e il labirinto della solitudine - Luca Sartori
a cura di Luigi Pachì
Luca Sartori
Sherlock Holmes e il labirinto della solitudine
Prima edizione novembre 2014
ISBN 9788867755783
© 2014 Luca Sartori
Edizione ebook © 2014 Delos Digital srl
Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano
Versione: 1.0
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate.
Informazioni sulla politica di Delos Books contro la pirateria
Indice
Luca Sartori
Sherlock Holmes e il labirinto della solitudine
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Delos Digital e il DRM
In questa collana
Tutti gli ebook Bus Stop
Luca Sartori
Luca Sartori è nato a Torino nel 1973. Dopo aver vissuto e lavorato diversi anni in Italia settentrionale, tra Milano e Torino, ha messo a frutto le sue conoscenze linguistiche da autodidatta, acquisite tramite letture e in frequenti soggiorni a Londra, laureandosi in lingue e culture straniere all’Università di Urbino con una tesi sull’apocrifo sherlockiano. Attualmente vive e lavora a Torino, dove si sta specializzando in traduzione letteraria ed editoriale dall’inglese. Grande appassionato e cultore del mondo narrato da Watson e dal suo agente letterario Arthur Conan Doyle, adora la cultura tardovittoriana in generale e fin da giovanissimo raccoglie tutto il materiale che riesce a trovare su questi soggetti. Dal 2013 è un membro dell’associazione USIH, e dal 2014 della John H. Watson Society. Ha collaborato come traduttore con la Delos Books, altri editori e alcuni docenti universitari. È stato coautore di una biografia romanzata di Lord Alfred Douglas e ha al suo attivo diverse pubblicazioni come autore: L’avventura dei candelabri provenzali (The Strand Magazine e Delos Books, 2014), L’ultimo preraffaellita (Delos Books, 2013), Il cane e l’anatra (Delos Books, 2014), Il labirinto della solitudine (Delos Books, 2014). Per il 2015 sono previste le uscite di un saggio dedicato all’apocrifo sherlockiano e di un romanzo breve scritto direttamente in inglese, The Adventure of the Duke’s Study, edito negli USA.
Dello stesso autore
Luca Sartori, Sherlock Holmes e l'ultimo preraffaellita Sherlockiana ISBN: 9788867750399 Luca Sartori, Il cane e l'anatra Sherlockiana ISBN: 9788867751570
Capitolo 1
Quando torno a consultare i miei appunti vedo che la primavera del 1890 fu una stagione in cui il clima inglese, già di per sé volubile, si sbizzarrì oltremodo. Ricordo le fredde giornate di fine marzo, dal sapore quasi invernale, cui seguirono due settimane miti e soleggiate.
Dopo l’insolita avventura di Wisteria Lodge ¹ che ci aveva condotto a Esher, nel Surrey, non mi ero più mosso da Londra e non avevo più seguito Sherlock Holmes nelle sue indagini. A dire il vero ero stato piuttosto occupato a curare le immancabili allergie da pollini che affliggevano alcuni dei miei pazienti più affezionati. Il silenzio del mio amico non mi preoccupava più di tanto, poiché lo conoscevo abbastanza bene da potermelo immaginare totalmente assorbito da un caso intricato o assorto in un meditabondo volo pindarico che gli avrebbe fatto fare il giro del mondo mentre se ne stava comodamente seduto in poltrona. Ogni uomo, del resto, ha i suoi pregi e difetti che quasi sempre si bilanciano gli uni con gli altri. Nel caso specifico di Sherlock Holmes il difetto più irritante che gli si poteva riconoscere era quello di non voler mai far parola di nulla se non quando tutto era già compiuto e risolto; ma d’altro canto, considerando la cosa da una diversa prospettiva, si poteva anche arguire che non volesse gravare troppo sulla coscienza altrui con le sue angosce, e questo era certamente un pregio. Ero ben abituato alla quiete dopo la tempesta e viceversa, ed ero ben abituato ad aspettarmi un suo telegramma da un momento all’altro.
E il telegramma arrivò, chiaro e conciso come sempre, in un bel pomeriggio verso la metà di aprile. Era una di quelle giornate che ti riconciliano con il mondo e con la vita. Un sole tiepido e discreto, appena velato da sottili strascichi di nubi, splendeva di nordica e primaverile lucentezza nel cielo cittadino come in un dipinto del Lorenese. La Pall Mall mi era apparsa altrettanto splendida percorrendola in calesse. Quel lungo e diritto viale fiancheggiato da alberi e palazzi modellati sulle classiche architetture fiorentine mi aveva sempre affascinato perché mi dava la gradevolissima impressione di una nuova rinascenza britannica. Ero così inspiegabilmente gioioso che baciai con fin troppo affetto mia moglie non appena arrivai a casa, e lessi il telegramma solamente dopo aver placato il mio slancio effusivo.
Clima magnifico, Watson. Ho due biglietti per Anton Rubinstein, stasera alla Royal Albert Hall. Esiste un modo migliore per finire una così bella giornata?
La stessa sensazione di gentile euforia mi pervadeva ancora qualche ora dopo, all’imbrunire, allorché stavo smontando da una vettura in Kensington Gore. Ero vestito piuttosto elegantemente, ma Sherlock Holmes mi superava: indossava un completo di velluto gessato con panciotto, stivaletti di vernice e un cilindro scuro che lo facevano apparire un perfetto gentiluomo; e da altero gentleman si comportava, a volte, puntando un raffinato bastone da passeggio contro tutto ciò che lo contrariava. C’era in lui una sommersa indole da dandy che emergeva di tanto in tanto, solo in certe occasioni. Le piante dei vicinissimi giardini di Kensington ci facevano arrivare i loro effluvi floreali attraverso la brezza della sera. Poco prima di entrare nel grande ovale della Royal Albert Hall, accodandoci ad altra gente, mi guardai attorno per alcuni istanti: il cielo stava virando a un blu oltremare molto intenso e le tenui luci dei lampioni a gas lottavano per farsi notare nell’oscurità calante.
Le nostre poltroncine si trovavano al centro della quinta fila in platea. Erano dei bei posti, tutto sommato, da cui si poteva avere una buona visuale sul pianista e un eccellente effetto acustico. Holmes, da avido melomane qual era, era intento a leggere il programma dei brani che sarebbero stati eseguiti. Lasciai che il mio sguardo vagasse liberamente attorno ai cristalli dell’enorme lampadario che pendeva dall’alta cupola del soffitto e lungo gli stucchi delle balconate ormai quasi gremite. Il chiacchiericcio di fondo si tramutò in un applauso quando Anton Rubinstein apparve sul palco, facendo numerosi inchini. L’applauso sfumò e lui si sedette sullo zoccolo, preparandosi all’esecuzione. Le luci a gas nei globi si affievolirono, ma feci comunque in tempo a notare due uomini seduti due file davanti a noi che si erano girati e annuivano l’uno all’altro osservandoci. Mi domandai il perché di quell’insolita attenzione, naturalmente, ma non volli lambiccarmi troppo né distogliere Holmes dalla lettura.
Rubinstein cominciò a suonare un pezzo di Rachmaninov, cui seguirono alcune sonate di Beethoven e molti preludi di Chopin. Per quanto il vecchio ed energico pianista dalla chioma canuta e scarmigliata fosse indubbiamente un grande virtuoso non riuscii a raggiungere quel completo piacere sensoriale che la musica dovrebbe infondere, se non al momento di un für Elise che mi fece nostalgicamente pensare a un romanticissimo episodio della mia gioventù. Holmes, al contrario, appariva come in preda a un’estasi profana: accompagnava ogni nota con piccoli movimenti del capo e delle mani, chiudendo gli occhi di tanto in tanto. Quasi non sembrava quel freddo gentiluomo che aveva varcato la soglia della sala da concerti poco prima. Ora era di ghiaccio, ora era di fuoco: il distacco e la passione gli appartenevano come una sola pelle.
Il pomeriggio del giorno dopo mi trovavo nel buen retiro di Baker Street, e il perdurare del bel clima aveva indotto Holmes a passeggiare quasi tutta la mattinata per i prati di Hampstead Hill. Così, mentre camminava tranquillamente, aveva d’improvviso udito il suono di un violino provenire da una casetta seminascosta tra alcuni alberi. Quel suono gli aveva risvegliato il desiderio di dedicarsi al suo Stradivari da 55 scellini, ma non essendo in vena di esecuzioni si era limitato a liberare le corde dalla pece indurita con un batuffolo di cotone imbevuto in una soluzione di petrolio, e quindi aveva spazzolato molto delicatamente tutte le parti lignee dello strumento con un fazzoletto di cotone mentre io lo osservavo incuriosito. Una volta che ebbe terminato quelle operazioni di pulizia, eseguite con una concentrazione e una dedizione quasi sacrali, sollevò il violino per mostrarmelo con orgoglio. Poi lo avvolse in un panno di seta e lo ripose nella custodia. Sul suo volto s’indovinava quell’espressione di compiacimento che compariva ogni qual volta si sentiva immune dal suo taedium vitae.
– Spero si sia goduto a pieno il concerto di ieri sera, Watson – mi disse subito dopo essersi seduto in poltrona. – Certo che quel vegliardo di Rubinstein ha ancora energia da vendere; ma se suona con un simile impeto credo che dovrà ben presto ridurre drasticamente le sue esibizioni, a meno che non voglia rischiare un esaurimento nervoso alla Clara Schuman.
Le sue parole infransero l’atmosfera quasi ieratica del soggiorno, la cui quiete era unicamente disturbata dai rumori che provenivano dalla strada: voci di passanti e scalpitii di zoccoli ferrati.
– Oh, credo di essermelo goduto abbastanza, ma mai quanto lei – risposi.
– Ah, certamente la mia innata melomania non è cosa comune. Ciononostante, penso che qualsiasi essere umano possa provare l’immenso piacere che un componimento musicale può dare, a patto che lo voglia davvero.
– Che intende dire? Non mi pare che si possa scegliere di essere soddisfatti da un ascolto musicale.
– Lei dice, Watson? – m’interrogò Holmes inarcando le sue lunghe e arcuate sopracciglia. – La sua obiezione non è del tutto priva di fondamento, ma rimane pur sempre un’obiezione superficiale e miope.
– Ah, ma senti un po’ – ribattei piccato. – E allora m’illumini: che cosa avrei detto se non avessi avuto la vista offuscata?
– Avrebbe perlomeno accennato a ciò che le dirò ora. Il fatto è che la gran parte dei comuni mortali si predispone all’ascolto solo con la parte più razionale della mente, trascurando invece gli effetti emotivi e virtuali della musica.
– Effetti emotivi e virtuali?
– Sì, gli effetti emotivi e virtuali – replicò accademicamente Holmes. – Intendo dire che, quando si ascolta musica, bisogna sempre escludere tutto ciò che d’intellettuale c’è in noi. Vede, io sono forse l’essere più logico e razionale di questo mondo, ma quando mi abbandono all’ascolto di un qualsiasi brano di mio gradimento mi dimentico di avere quelle doti cerebrali per le quali sono famoso. Mi dimentico di tutto ciò che mi circonda e di tutto ciò che mi è accaduto, e mi concentro esclusivamente su quello che accade nel mare infinito delle mie fantasie. Per esempio, ieri sera mi è parso di vederla fremere sul für Elise di Beethoven. Immagino che stesse pensando a qualcosa di particolare.
– Sì, immagina bene. Stavo pensando, non me ne voglia mia moglie, a un tenero incontro che ebbi con una ragazza francese durante il mio primo anno di università. Ancora oggi me lo ricordo come se fosse ieri. Eravamo seduti al dehor di un caffè nei Kew Gardens, non lontano dal Cambridge Cottage, in una fresca e profumata sera di fine maggio. Ci guardavamo in silenzio, mentre un fuoco d’amore mi ardeva dentro. Ebbene, dall’interno del caffè giungeva una melodia un po’ stonata, sa, una di quelle canzoncine prefabbricate di quegli strani organetti a rullo. Era für Elise, naturalmente, e io, al sentirla di nuovo, ho meccanicamente associato la melodia del presente a quel momento del passato. Non nascondo di aver provato un certo piacere. Lei era uno splendore, e io un ventenne troppo incline al sentimentalismo. Non vorrà biasimarmi per questo, spero.
– Oh no, caro Watson, non la biasimerei mai per questo. Anch’io ho le mie debolezze sentimentali, sebbene faccia di tutto per nasconderle. Il punto non è l’essere o il non essere sentimentali; il punto è che lei si è limitato ad ascoltare la musica cercando di associarla a un ricordo, a un qualcosa che le è capitato. E così si è perso tutto il meglio. Mi perdoni, ma questa sua maniera di ascoltare musica, che poi è anche quella di molti altri, è davvero un po’ primitiva.
– Primitiva? – protestai, piuttosto stizzito. – Che vuole farci, il cavernicolo che è in me prende il sopravvento,