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Ulthemar la forgia della vita
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Ulthemar la forgia della vita

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About this ebook

a Forgia della Vita si è destata. La torre nell’abisso di Norandur è pervasa dal suo calore. L’energia sprigionata dal nucleo del pianeta pulsa, i forni sono pronti e attendono impazienti i frammenti di quell’astronave precipitata per forgiare l’armatura del Campione. Il tempo dell’Avvento è giunto. Mai le stelle sono state più minacciose per gli abitanti delle Terre Libere. Nelle vene di Saemon e Jan scorre il sangue di quell’antico popolo venuto dallo spazio e dal quale si sono generati gli Arcani, la cui setta intende sfruttare il Portale delle Stelle, costruito da Ulthemar, per invadere il pianeta. Ma i due giovani e i loro compagni, Steev e Sleitan Ven, risponderanno alla chiamata del Re Bianco e uniranno le loro forze in una corsa contro il tempo, alla scoperta del passato, per salvare il mondo. Gli uomini impugneranno l’acciaio per fronteggiare la discesa dalle Terre del Ghiaccio di Thorenthar e dei suoi Arcani in quella che sarà la più grande battaglia per la sopravvivenza.

“Di libri come quello di Antonio Lanzetta non se ne trovano più tanti, in libreria.

Una storia che tuffa il lettore nella polvere e nel sudore, nel sangue e nel metallo.

Schietta e dal ritmo serrato, senza tanti orpelli, in cui l´azione è il punto focale.”

Giulia Marengo (Diario di Pensieri Persi)

“Il mondo di Lanzetta lancia uno sguardo anche al cielo stellato, e unisce l’ambientazione classica all’idea fantascientifica di creature giunte da un altro mondo."

Maurizio Vicedomini (Fantasy Planet)

“Quello di Antonio Lanzetta è un romanzo ambizioso.

Fantasy classico e fantascienza si fondono con l’acciaio rovente, tra scintille di descrizioni sapientemente intessute e piccole schegge di frasi ad effetto pronte a lasciarvi con il fiato sospeso.”

Alfonso Zarbo – scrittore
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateApr 3, 2013
ISBN9788867820665
Ulthemar la forgia della vita

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    Ulthemar la forgia della vita - Antonio Lanzetta

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    Antonio Lanzetta

    ULTHEMAR

    La Forgia della Vita

    BESTGDS

     Antonio Lanzetta

    Ulthemar  La forgia della vita

    © EDITRICE GDS

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda  (MI)

    Tel. 02  9049203

    Illustrazione in copertina di ©Ignazio Piacenti

    Riservati tutti i diritti.

    Questo libro è il prodotto finale di una serie di fasi operative che esigono numerose verifiche sui testi. È quasi impossibile pubblicare volumi senza errori.

    Saremo grati a coloro che avendone trovati, vorranno comunicarceli. Per segnalazioni relative a questo volume: iolanda1976@hotmail.it

    Con affetto,

    alla memoria del mio amico Massimiliano Para

    INTRODUZIONE

    La Forgia della Vita si è destata. La torre nell’abisso di Norandur è pervasa dal suo calore. L’energia sprigionata dal nucleo del pianeta pulsa, i forni sono pronti e attendono impazienti i frammenti di quell’astronave precipitata per forgiare l’armatura del Campione. Il tempo dell’Avvento è giunto. Mai le stelle sono state più minacciose per gli abitanti delle Terre Libere.

    Nelle vene di Saemon e Jan scorre il sangue di quell’antico popolo venuto dallo spazio e dal quale si sono generati gli Arcani, la cui setta intende sfruttare il Portale delle Stelle, costruito da Ulthemar, per invadere il pianeta. Ma i due giovani e i loro compagni, Steev e Sleitan Ven, risponderanno alla chiamata del Re Bianco e uniranno le loro forze in una corsa contro il tempo, alla scoperta del passato, per salvare il mondo.

    Gli uomini impugneranno l’acciaio per fronteggiare la discesa dalle Terre del Ghiaccio di Thorenthar e dei suoi Arcani in quella che sarà la più grande battaglia per la sopravvivenza.

    CAPITOLO I

    Le piantagioni di grano rincorrevano la stradina che portava a Pozzonero. Un mare giallo oro ondeggiò come a salutare Jonas al suo passaggio. L’uomo chiuse gli occhi inspirando gli odori della campagna. Il sole scivolava lento dietro le colline, incendiando la Valle di Hum con una luce calda e avvolgente.

    Il carretto sussultò a causa di una buca, e le labbra di Jonas si incresparono in un sorriso. Aveva percorso quel sentiero così tante volte negli anni che gli sembrava di rivivere ogni giorno lo stesso istante. I rumori della cittadina giunsero trasportati dalla brezza; poteva scorgere le barricate di legno in lontananza cingere Pozzonero in un abbraccio protettivo.

    Donne e uomini avevano scelto di costruire le loro case in quel piccolo fazzoletto di mondo bagnato dalle acque del Fiume Blu. Quelle terre erano state ostili all’uomo. I Goblin che popolavano le alture sull’altra sponda del fiume attaccavano i villaggi nel cuore della notte, sgozzando gli abitanti nei loro letti, facendo schiavi e depredando il bestiame.

    Re Danthrius, stanco delle continue violenze perpetrate a danno dei propri sudditi, aveva inviato la cavalleria per contrastare i clan dei predoni. I Pelleverde, decimati nei duri scontri che avevano tinto di rosso la valle, erano stati braccati e costretti a prendere il mare per abbandonare le Terre Libere. In seguito, il sovrano aveva dato incarico ai suoi ingegneri di progettare e costruire difese per le comunità. A ogni governatore era stato affidato il compito di formare guarnigioni di milizie cittadine.

    Buonasera, Wiltord.

    Giunto all’ingresso del villaggio, Jonas sollevò il cappello in segno di saluto in direzione della sentinella posta sulla torretta di osservazione. Le porte di legno si aprirono scricchiolando, per consentire il passaggio. Come ogni sera alla stessa ora, Wiltord gli rivolse un consueto cenno del capo senza aprire bocca. Indossava un’uniforme verde scuro. Appoggiata contro la spalla, una balestra appariva inutilizzata da anni. La tranquillità di quei luoghi aveva reso i soldati pigri. L’unico vero nemico con cui dovevano giorno per giorno fare i conti era l’ozio.

    Jonas varcò l’ingresso e i battenti vennero richiusi pesantemente alle sue spalle. Le canne fumarie dei camini spuntavano dai tetti degli edifici che fiancheggiavano le strade. Erano state progettate per condurre al centro dell’agglomerato in cui si estendeva la piazza, sede del piccolo mercato settimanale e luogo di ritrovo per gli abitanti nei giorni di festa. Tutti vi accorrevano per assistere agli spettacoli degli artisti itineranti, i quali si esibivano in canti popolari o numeri di prestigio, lasciando a bocca aperta adulti e bambini.

    A quell’ora la via principale era trafficata. Operose figure si apprestavano a completare le loro faccende per fare ritorno a casa. Jonas si diresse al magazzino delle scorte. Il carro oscillò pigramente sul lastricato di pietra basaltica, tra le cui scanalature era cresciuta dell’erbetta verde. Attraversò l’intero villaggio raggiungendo l’ingresso del capannone. Un ragazzo dai capelli ramati e il viso costellato da lentiggini gli corse incontro per aiutarlo a scaricare i sacchi sul retro del carro.

    Come è andata la giornata, Jonas? domandò con cortesia il magazziniere, poco più che quindicenne. Il volto e il collo divennero paonazzi per lo sforzo, mentre caricava sulle spalle un sacco pieno di patate.

    Tutto bene, Tim, grazie. Tu, invece, che buone nuove mi porti? rispose il contadino, nell’assicurare il cavallo a un palo. Si sa qualcosa in più sulla forestiera che è arrivata ieri notte al villaggio? Il governatore le ha già parlato? Se non sbaglio, aveva un bambino con sé.

    Non so molto. Soltanto che tua moglie si è offerta di ospitarla in casa vostra! Il ragazzo aveva un sorriso da ebete impresso sulla faccia.

    Come hai detto?

    L’espressione sul volto di Jonas mutò, le rughe parvero accentuarsi. Massaggiò nervosamente il mento, increspando la barba con le dita callose.

    Sì, proprio a casa tua! Il governatore ha deciso che la Locanda del Gallo D’Oro non è un posto adatto a una donna e a un bambino appena nato continuò Tim che, nonostante la corporatura esile, aveva sistemato con rapidità la maggior parte del carico da solo, accantonando i sacchi sulle pile già disposte lungo il muro nel deposito. Ma non è tutto: mio padre si sta prendendo cura del cavallo della donna. È davvero in brutte condizioni, neanche avesse corso senza mai fermarsi per giorni, fino allo stremo delle forze. Probabilmente non supererà la notte. Il sorriso scomparve dal volto del giovane, lasciando posto a un’espressione amareggiata.

    Forse è meglio che mi sbrighi a rientrare si congedò Jonas. Si sta facendo tardi. Chiuse il retro del carretto, slegò l’animale e impugnò le redini per fare ritorno a casa.

    Dovreste mangiare un po’ di più, signora! Altrimenti dove prenderete la forza per allattare il vostro piccolo?

    La straniera fece per rifiutare, respingendo con la mano il piatto; poi, trafitta da un’occhiataccia della padrona di casa, accettò il brodo di pollo caldo e iniziò a sorseggiarlo, portando il cucchiaio alla bocca e accompagnandolo con del pane.

    La cucina era arredata in modo sobrio. Vicino al tavolo era stata sistemata la piccola culla di legno in cui era stato adagiato il bambino. Poiché Camilla non aveva avuto figli, l’aveva chiesta in prestito alla sorella.

    Mi chiamo Derys proferì la forestiera, che fino a quel momento non aveva aperto bocca. Grazie per quello che sta facendo per me… e soprattutto per mio figlio.

    La sua pelle era bianca, di un bianco non comune tra la gente della Valle di Hum, tendente quasi al pallore. Il viso presentava lineamenti delicati che la rendevano bellissima. Profondi occhi scuri, velati da evidente tristezza, destavano in Camilla preoccupazione ed empatia per quella donna misteriosa. Avvolta in vesti nere con sottili ricami rossi all’altezza del cuore, Derys aveva un aspetto fiero e regale, in netto contrasto con la semplicità della padrona di casa, la quale indossava una veste marrone e un grembiule bianco.

    Non ditelo nemmeno per scherzo. Solo il Creatore sa come siete riuscita ad arrivare qui da noi. Dovete pensare a riposarvi e a prendervi cura del vostro piccolo. Camilla si avvicinò alla culla e osservò il bimbo dormire tranquillo, È bellissimo! Gli avete già dato un nome?

    All’improvviso il volto di Derys si sciolse in un sorriso e per un attimo tutta la sofferenza che si portava dentro sparì. Sfiorò con le dita il bordo della culla e rispose: Purtroppo ancora no. Non ho pensato a che nome dargli: le nostre vite sono cambiate troppo in fretta. È mancato il tempo.

    L’accenno di conversazione tra le due donne venne bruscamente interrotto dal nitrito di un cavallo all’esterno dell’abitazione.

    È mio marito, Jonas, non preoccupatevi. È appena rientrato. Durante il giorno lavora nei campi spiegò Camilla, sbirciando attraverso le tendine bianche della finestra della cucina. Era una donna robusta, sulla trentina. Quando aveva conosciuto Jonas, era rimasta subito affascinata dai suoi modi gentili e dal suo approccio alla vita. Entrambi ricercavano la felicità nelle cose semplici. Purtroppo, nonostante il loro amore fosse forte, il Creatore aveva deciso di negare loro la gioia di diventare genitori. Lui aveva compreso quanto la moglie soffrisse per questa cosa e aveva riempito il vuoto causato dalla mancanza di un figlio con continue attenzioni.

    La porta si aprì e l’uomo fece ingresso in casa. Si tolse il cappello e sorrise alle donne in segno di saluto.

    La signora si chiama Derys. Camilla incrociò gli occhi del marito e si avvicinò all’ospite, cingendole le spalle con un braccio con fare protettivo. Ho detto al governatore che poteva stare da noi. Ha un bimbo piccolissimo e hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro finché restano a Pozzonero.

    Dallo sguardo della moglie, Jonas capì che tutto era stato già deciso e che non c’era alcuna ragione di provare a controbattere. Fece un segno d’assenso con il capo e rivolse l’attenzione alla forestiera.

    Ho saputo che il vostro cavallo non è in buone condizioni, mi spiace.

    Vi ringrazio. È un animale molto forte e dobbiamo a lui se ora siamo qui, sani e salvi. Il volto della donna si incupì e gli occhi si abbassarono sul piatto che aveva davanti, sprofondando nel brodo. Ho dovuto sottoporlo a uno sforzo incredibile. Abbiamo cavalcato per giorni facendo brevissime soste. Non potevamo perdere tempo!

    Jonas avrebbe voluto rivolgerle delle domande: chi era, da dove veniva e soprattutto da chi stava fuggendo? Il modo in cui aveva parlato gli fece intuire che avesse fretta di sparire. Forse è una criminale, disse fra sé, mentre scrutava il viso di Derys.

    Fece per aprire bocca, ma Camilla fu più veloce.

    Suvvia, adesso non pensateci! Qualsiasi cosa vi preoccupi, ora siete al sicuro a Pozzonero. Mangiate. Nel frattempo vi preparo il letto. Non è molto, ma di certo più della Locanda del Gallo D’Oro. Detto ciò, Camilla si apprestò a salire le scale di legno che dalla cucina portavano al piano superiore, su cui erano situate due camere per dormire.

    Non so proprio come ringraziarvi per la vostra ospitalità. Presto mio figlio e io riprenderemo il viaggio verso sud. Dovrò acquistare un nuovo cavallo, se necessario. Gli occhi di Derys seguirono la padrona di casa mentre saliva le scale, poi si posarono sull’uomo.

    Posso procurarvelo io, non preoccupatevi promise Jonas. Le parole erano uscite dalla bocca senza che avesse ponderato. L’espressione della donna era intrisa di una tristezza che faceva sentire il contadino quasi impotente.

    Al pari della moglie, ora intuiva ciò che la straniera si portava dentro. Distolse lo sguardo e osservò il bambino nella culla.

    Era così piccolo. Si ripromise che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli.

    Nonostante il nodo che le stringeva la bocca dello stomaco, Derys consumò tutta la cena. Durante il lungo viaggio aveva dovuto accontentarsi solo delle poche provviste sottratte prima di partire. Per la prima volta dopo dieci giorni si sentiva al sicuro e questo soltanto grazie all’ospitalità di quelle persone. Camilla le aveva prestato biancheria e indumenti puliti, e riscaldato un pentolone d’acqua sul fuoco per concederle il piacere di un bagno caldo. Una volta lavata via la polvere, aveva fatto scivolare sulla pelle umida una camicia da notte. Aveva spazzolato i lunghi capelli, lasciandoli ricadere come una cascata dietro le spalle. Il bambino dormiva sereno dopo l’ultima poppata. Lo prese tra le braccia e lo cullò dolcemente, passeggiando intorno al letto nella piccola stanza adibita a camera degli ospiti.

    Due candele illuminavano l’ambiente. Derys sfiorò le manine serrate a pugno del figlio e lo riadagiò nella culla che Jonas aveva trasportato al piano superiore e sistemato vicino al suo giaciglio. Rimboccò la copertina e lo osservò dormire; era la cosa più bella della sua vita, l’unica cosa buona che lei avesse mai fatto.

    Si volse verso la cassettiera, posta contro una delle pareti. Aveva poggiato su di essa la sacca da viaggio contenente le sue cose. Esitò un attimo, poi scattò. Le dita affusolate aprirono la borsa e iniziarono una breve ricerca, rovistando fino a stringersi intorno a un lungo e spesso fodero di liscio cuoio. Estrasse l’oggetto dalle fattezze pregiate, lungo quanto il suo avambraccio, soppesandone per un attimo il peso, quindi tornò verso il giaciglio. Affondò la testa nel cuscino. Un senso di benessere si diffuse all’istante in tutto il suo corpo, i muscoli si rilassarono. Era da giorni che non si adagiava su un letto e si rese conto che quella sensazione le era mancata. Alla luce delle candele che illuminavano la stanza, osservò il fodero come se per lei fosse la prima volta.

    Distribuita lungo un asse verticale, una colonna di rune incise sulla pelle attraversava l’involucro. Le sfiorò con l’indice della mano destra, una alla volta, lentamente, saggiandone la configurazione con il polpastrello. La custodia terminava con un risvolto, chiuso da un laccio, alle cui estremità erano applicati piccoli sigilli di metallo rosso. Sciolse il nodo. Le dita si chiusero intorno all’impugnatura nera ed ergonomica di una daga. Lungo il manico erano state riprodotte le stesse rune incise sul fodero.

    Derys osservò con venerazione l’arma ancora per un attimo, poi la rinfoderò e l’adagiò sul petto, incrociandovi le mani sopra. Riusciva a sentire il freddo del metallo premuto contro la carne nonostante gli strati che li separavano. Inspirò e le sue palpebre divennero pesanti, gli occhi si chiusero. Rimase ad ascoltare il ritmo incessante del suo respiro gonfiarle il petto, prima di addormentarsi. Il sonno arrivò e con esso i sogni.

    Sognò casa sua, i genitori, suo marito.

    La guardavano con occhi di disapprovazione e rimprovero. Avrebbe voluto spiegare loro le sue ragioni, ma nonostante i suoi sforzi dalla bocca non le usciva alcun suono. Alla fine non aveva avuto altra scelta che fuggire e portare con sé il figlio, lontano dalle loro mani e dai loro occhi. Correva in un mondo privo di colori, senza avere alcuna cognizione del tempo. L’aria gelida le sferzava il viso, mentre stringeva il piccolo tra le braccia. Si sentiva braccata da inseguitori invisibili, che non erano disposti a lasciarla andare via, a privarsi di ciò che apparteneva loro. Girò la testa indietro ma non riusciva a vederli, eppure li sentiva tutto intorno a sé.

    E alla fine capì.

    CAPITOLO II

    Jonas aprì di colpo gli occhi. Era ancora disteso sul letto, quando gli parve di udire il rintocco di una campana. Rimase per un attimo in attesa, lo sguardo puntato contro il soffitto. Si era sbagliato? Forse lo aveva soltanto sognato. La moglie, al suo fianco, sembrava non aver sentito nulla e continuava a dormire avvolta nelle coperte. Poi la campana suonò ancora. Una, due, tre volte, inesorabile. Jonas restò immobile, le orecchie tese nel silenzio seguivano i rintocchi e intanto frugava nella memoria, cercando di ricordare il messaggio riconducibile a quel suono. L’ultima volta che l’aveva sentito era stato da bambino. Un avvertimento?

    Forse un incendio. Il deposito sta andando a fuoco, pensò angosciato.

    Si alzò di scatto e si mosse al buio, urtando con il ginocchio una cassettiera posta contro il muro al lato del letto. Si morse il labbro inferiore, ignorando il dolore, e corse alla finestra.

    La stanza era situata al piano più alto della casa, che a sua volta si trovava nella parte collinare del villaggio. Quella posizione sopraelevata gli forniva una discreta visuale dell’abitato: il suo occhio spaziava sui tetti lignei delle abitazioni antistanti, fino alle mura difensive.

    Ciò che vide era ben diverso da quanto si era aspettato. Il sole non era ancora sorto. La luna era uno spettro d’argento. I crateri e le montagne che ne caratterizzavano la superficie delineavano i connotati di un volto, i cui occhi erano fissi su Pozzonero.

    Una delle guardie cittadine, in piedi sulla torretta d’avvistamento, stava picchiando freneticamente la campana; altre si stavano predisponendo sulla barricata, scambiandosi urla concitate, parole che si perdevano nel vento.

    Tre rintocchi consecutivi.

    Che vuol dire? Un attacco? Ti prego, fa che non sia quello! continuava a ripetersi Jonas.

    Camilla, svegliati! scosse la moglie.

    Mmm, che succede? Lasciami dormire rispose la donna, girandosi sull’altro fianco.

    La campana alle porte del villaggio sta suonando. Presto, alzati! Jonas accese la lampada a olio, posata sul comodino e si vestì, infilando le braghe e una camicia che non abbottonò del tutto.

    Camilla si sollevò, strofinandosi assonnata gli occhi.

    Udì i rintocchi e si portò una mano alla bocca, trattenendo il respiro dallo spavento.

    L’uomo si avvicinò di nuovo alla finestra e vide che anche il resto del villaggio si stava destando. Gli abitanti di Pozzonero stavano lasciando le proprie abitazioni per raggiungere l’edificio del governatore nella parte settentrionale del villaggio, come stabilito nei piani d’emergenza. File di donne e bambini si tenevano per mano, procedendo a passo spedito attraverso le vie.

    Corri a svegliare Derys. Dobbiamo raggiungere il palazzo del governatore disse alla moglie, fiondandosi fuori dalla stanza, giù per le scale della casa.

    Non c’era tempo da perdere.

    Uscì in cortile e una fredda brezza gli sfiorò il petto scoperto e la pelle si increspò sulle braccia. Aprì la porta della stalla e slegò il cavallo. Un forte schianto provenne dalla direzione in cui si trovava l’ingresso dell’agglomerato. Rumore di legno che si spezzava, di cardini divelti. L’entrata era stata sfondata?

    Jonas si pietrificò, una goccia di sudore freddo scivolò lungo la schiena.

    La campana si azzittì. Un suono agghiacciante venne trasportato dalla gelida aria notturna: le urla d’angoscia della gente.

    Il cuore smise di battere.

    Abbandonò l’idea di prendere il cavallo. Chiunque stesse attaccando Pozzonero si sarebbe presto accanito sui fuggitivi in strada. Era meglio nascondersi e pregare il Creatore di non essere scoperti. Non era mai stato un uomo di fede e si stupì accorgendosi di invocare quel nome nella propria mente con ossessione, come a darsi coraggio.

    Aiutaci, ti prego.

    Lasciò la porta della stalla aperta, afferrò l’accetta per la legna infilzata su un ceppo e corse in casa. Varcata la soglia della cucina trovò ad aspettarlo Camilla e Derys con in braccio il figlio che piangeva. Le donne erano terrorizzate.

    Senza spiegare loro cosa stesse accadendo fuori, chiuse l’ingresso alle sue spalle, posò l’accetta sul tavolo e iniziò a spostare la credenza in direzione della porta, per bloccarla.

    Presto, Camilla, dammi una mano! Il panico lo assalì, il petto stritolato in una morsa. In due, facendo leva su gambe e schiena, trascinarono il pesante mobile di legno, appoggiandolo contro l’uscio dell’abitazione.

    Andate al piano di sopra e chiudetevi in camera! ordinò alle donne, senza avere una chiara idea di cosa stesse facendo, pensando fosse la cosa migliore.

    Derys corse nella sua stanza stringendo il figlio tra le braccia. Adagiò il piccolo nella culla e si avvicinò alla finestra, celandosi dietro la tenda. Goblin in sella a iene e lupi sciamavano attraverso le vie del villaggio.

    Cacciatori alla ricerca della preda.

    A pochi passi dall’abitazione di Jonas, un uomo sbucò da un vicolo e si ritrovò proprio nel bel mezzo di una squadra di Pelleverde che si erano fermati a discutere, annusando l’aria come bestie affamate. Quegli esseri corpi bassi e nodosi, ricoperti da sottili fasci di muscoli e dalla pelle verde e dura come cuoio invecchiato ghignarono quando videro l’uomo urlare terrorizzato e scappare nella stessa direzione da cui era venuto.

    Uno dei Goblin imbracciò la corta balestra che portava legata dietro la schiena, incoccò un dardo, prese la mira e colpì il fuggitivo alla nuca, facendolo crollare in avanti in un tonfo sordo. I predoni esplosero in una fragorosa risata, complimentandosi con il compagno per il tiro. Il suono delle loro voci, stridule e gracchianti, rimbalzò contro le pareti delle case circostanti.

    Dal fondo della strada sopraggiunse, in sella a uno stallone, un individuo con indosso una lunga tunica nera. Le spalle erano sormontate da una cappa del medesimo colore, che oscillava al vento simile a un vessillo. Il volto era in parte coperto dal cappuccio e la barba ricadeva come una cascata dorata sul petto. Tirò bruscamente le redini, arrestando la corsa del cavallo a pochi passi di distanza dai Goblin. L’animale si impennò sulle zampe posteriori, nitrendo selvaggiamente. I bruti smisero di colpo di ridere, restando con smorfie inebetite sui volti aguzzi. L’uomo sollevò un braccio e urlò loro qualcosa con tono imperioso. Senza controbattere i Pelleverde spronarono le cavalcature e si sparpagliarono, sparendo tra i vicoli del villaggio.

    A quella vista Derys si ritrasse di scatto, poggiando le spalle contro il muro. Per un istante ebbe la sensazione che il suo cuore avesse smesso di battere; una paura viscerale la paralizzò, inchiodandola come un quadro alla parete. Restò immobile per un lasso di tempo che parve infinito, gli occhi sbarrati.

    Le ombre dei suoi incubi l’avevano raggiunta e stanata.

    Solo il pianto acuto e insistente del figlio la liberò dalla morsa della paura. Sbatté ripetutamente le palpebre e cercò di focalizzare il proprio ruolo. La daga, all’interno del fodero, era adagiata sul letto laddove l’aveva lasciata. Udì la voce di Jonas al piano di sotto urlare qualcosa, ma non riuscì ad afferrare le parole. Era troppo concentrata sul da farsi. Si mosse verso il letto e afferrò l’arma, liberandola dalla custodia. Il cuore prese a battere all’impazzata, martellando nelle orecchie; il volto le si avvampò di calore.

    Quando serrò le dita intorno all’impugnatura, avvertì un improvviso formicolio alla mano. Invisibili aghi infuocati fecero pressione contro il palmo, penetrando a fondo nella carne e propagandosi lungo il braccio. Il sangue ribollì nelle vene, generando un’esplosione d’energia. Le rune impresse sul manico pulsarono di un’accecante bagliore rosso. Si girò di scatto, avventandosi contro la maniglia della porta. La spalancò e discese qualche gradino.

    In un modo o nell’altro, tutto finirà stanotte, si disse, ma ancora una volta l’incessante pianto del bambino la riportò alla realtà. Scosse il capo e affondò i denti nel labbro inferiore. Avvertì il sapore metallico del proprio sangue in bocca.

    I vetri della cucina si infransero in un’esplosione di schegge e poco dopo la porta venne presa d’assalto. Il legno sussultò e la credenza si inclinò in avanti. Alcune porcellane caddero sul pavimento, andando in mille pezzi. Stavano entrando. Udiva il pianto di Camilla.

    Tornò indietro e richiuse il battente alle spalle. La luce emanata dall’arma si affievolì fino a spegnersi. Si diresse verso la cassettiera, afferrò la sacca da viaggio e ne rovesciò il contenuto sul letto. Una piccola fiala di vetro contenente un liquido azzurro rotolò sulle coperte, balzandole agli occhi. Senza esitare, ripose la daga nel fodero e raccolse l’ampolla.

    Perdonami, ma non ho scelta sussurrò e le lacrime scivolarono lungo il viso fino a bagnarle la camicia da notte. Rimosse il tappo di sughero e avvicinò la boccetta al naso del piccolo, muovendola da sinistra a destra, appena sotto le narici. Tentacoli evanescenti di fumo blu risalirono attraverso le vie respiratorie del bambino, che smise quasi subito di piangere. Le palpebre calarono dolcemente, gli occhi si chiusero.

    Derys si piegò e lo baciò con delicatezza sulla fronte.

    Rabbiosa, scagliò via la fiala, che si infranse contro la parete lasciando nel punto dell’impatto una viscida chiazza blu gocciolante. Sollevò il piccolo e lo strinse per l’ultima volta a sé.

    I suoi occhi erano gonfi e rossi per il pianto e non riusciva più a smettere di singhiozzare, ma si costrinse a essere forte. Nonostante le mani le tremassero, avvolse il figlio nelle coperte prese dalla culla e formò un fagotto, tra le cui pieghe infilò anche il fodero contenente la daga. Si inginocchiò e lo fece scivolare sul pavimento, nascondendolo sotto il letto.

    I rumori provenienti dal piano di sotto nel frattempo si erano fatti insistenti. Urla strazianti riempirono le sue orecchie, senza scalfirla. Tirò un profondo respiro e si rimise in piedi. Finalmente avrebbe smesso di sentirsi come un topo in trappola. Aprì la porta della stanza e andò incontro al proprio destino.

    Steev stava viaggiando in sella al suo varano da guerra lungo la Via dei Mercanti che dalla città di Crocevia risaliva verso nord, attraverso la Valle di Hum. Il grosso rettile si muoveva su quattro zampe, artigliando la superficie polverosa della strada e sollevando nuvole di terriccio al passaggio. Il sole caldo del mattino risplendeva alto nel cielo, costringendo il nano a socchiudere gli occhi, infastidito. I raggi solari fendevano l’atmosfera come spade, riflettendosi sul suo cranio completamente calvo e lucente.

    Uno stridio acuto ruppe il silenzio della valle; sollevò il capo incuriosito, schermandosi con la mano. Un falco si era abbattuto in picchiata su un

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