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Il volo del leone
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Il volo del leone

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ROMANZO400 pagine) - STEAMPUNK - Alle macchine di Leonardo da Vinci mancava solo il motore, ma un giorno egli riscoprì un antico congegno a vapore inventato da Archimede, e tutto divenne possibile. Anche volare. In un'Italia rinascimentale alternativa, dietro a misteriosi fenomeni nelle Alpi si nasconde in realtà un'organizzazione segreta che propaganda l'idea dell'unità della Penisola con libri usciti dalle stamperie di Aldo Manuzio, e mira a metterla in pratica usando le macchine di Leonardo da Vinci spinte dal vapore. Ma forze oscure in seno alla medesima organizzazione, anziché repubblicana con Venezia prima inter pares, la vorrebbero sottomessa a un tirannico e machiavellico principe. Azioni di spie e battaglie aeree tra macchine volanti decideranno le sorti della Penisola e del mondo.   Paolo Ninzatti, Milano classe1950. Oggi vive a Tommerup, nell'isola di Fionia, in Danimarca. Pedagogista in pensione, suona in diverse band, o come solista. Presente in diverse antologie edite da Delos Books, Edizioni Scudo, Alcheringa, Reverie, Montecovello. Ha scritto la sceneggiatura del fumetto "Oltre il cielo" di Giorgio Sangiorgi, tradotto anche in danese col titolo "Over Himlen". Con La Mela Avvelenata ha pubblicato l'ebook "Missione Medea".
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateSep 9, 2014
ISBN9788867754533
Il volo del leone

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    Il volo del leone - Paolo Ninzatti

    Medea.

    C’era una volta un mondo che cambiava…

    Capitolo 1

    Anno del Signore 1482. Milano

    – Un mago, state affermando? Qui in città? Alquanto strano, comandante; suvvia, vi conosco come una persona con i piedi per terra. Mi meraviglio come proprio voi possiate credere a una storia del genere.

    Le parole sfidarono il vocio e i rumori della locanda affollata, come uno stormo di uccelli che avesse attraversato una nuvola temporalesca, arrivando all’orecchio della giovane servetta Matilde del Fioretto. La fanciulla riuscì anche a percepire la replica: – A volte bisogna rivedere le proprie credenze davanti a determinati fatti, luogotenente: costui è giunto al Castello soltanto ieri, e già corrono un sacco di dicerie su di lui, cose da non credere. Sua Altezza percorrerà vie contorte, se deciderà di assumere quell’uomo al suo servizio… Benché non stia certo a me giudicare le scelte del duca.

    La frase si impresse nella sua mente come una freccia che, passata per pura fortuna attraverso una feritoia, si fosse saldamente piantata in una parete.

    Pura fortuna? Scherzo del Fato? Oppure…?

    Strano, per un attimo ogni altro suono si era era attenuato come per fare in modo che lei udisse quel brano di conversazione. Aveva visto qualcosa che dopo pochi battiti di cuore era stato dimenticato. O se l’era soltanto immaginato? Un sogno di giorno? Forse, ma quelle parole erano state pronunciate, e soltanto questo contava.

    Ripeté nella sua testa ciò che aveva appena sentito e cominciò a ragionare: le voci dei due avevano un tono serio e sobrio. Ripensò agli insegnamenti del suo maestro che sembrarono risuonare nella sua mente a viva voce, quasi lui le si trovasse accanto e le parlasse direttamente: Ricordati, qualsiasi informazione, anche quella all’apparenza meno importante o addirittura incredibile, può rivelarsi utilissima. Spiare è un’arte, mia cara, quel tipo di arte che concerne l’osservazione e l’interpretazione delle cose per poi dipingerle su una tela, formarle sul marmo, trascriverle sulla carta o narrarle a voce. Trascurerebbe il pittore o lo scultore la nuvoletta di sottofondo a un paesaggio agreste o la ruga sul viso della statua di un santo?

    Ricordò gli incoraggiamenti: Hai un talento naturale nel saper osservare. Farai molta strada.

    Infatti ora, a sedici anni soltanto, lei si trovava in missione da ben sei mesi sotto la finta identità di camerierina sempre sorridente, dagli occhi vivaci e seducenti che serviva vino agli avventori di quella locanda frequentata esclusivamente dai soldati del duca. Occhi però capaci anche di lanciare sguardi simili a dardi col potere di far desistere le libidinose manacce dei più scriteriati d’allungarsi troppo.

    Risoluta, Matilde afferrò una caraffa piena e si gettò in pasto agli avventori sculettando e distribuendo sorrisi a destra e a manca, tenendo le orecchie ben aperte, cercando di localizzare il tavolo dove si stava svolgendo quella conversazione.

    Passò al setaccio inutili suoni e frasi, come un cacciatore che seguisse soltanto il rumore della bestia da catturare.

    Storie scurrili da letto, avventure amorose, fanfaronate da soldato, risse da osteria, fluirono via condite da rutti e risate sguaiate. Nel frattempo, in quegli attimi febbrili, Matilde cercò di dare un senso a ciò che aveva appena udito.

    Un mago. Uno stregone. Esistevano? In tal caso buona parte di costoro era stata bruciata sul rogo.

    Succedeva, di tanto in tanto. La gente distruggeva ciò di cui aveva paura, e se c’era qualcosa da temere, evidentemente poteva anche esistere. O forse soltanto in menti malate e intorbidite dall’ignoranza. Magari, invece, il mago in questione era soltanto un alchimista, un veggente o un ipnotizzatore. In ogni caso, che diavolo ci faceva un uomo del genere alla corte di Ludovico Sforza? Che piani aveva il Moro?

    Certamente niente di buono. I suoi superiori dello spionaggio della Repubblica di Venezia le avevano dato ordini ben chiari: tenere d’occhio, senza scoprirsi troppo, ogni sospetta mobilitazione delle forze dell’ambizioso duca di Milano.

    – Ho sentito parlare di armi inusitate – disse eccitata una delle voci sentite poco prima.

    Finalmente. Matilde aveva raggiunto la sua meta.

    – Chiaramente negromanzia applicata all’arte bellica – rispose l’altra con tono saccente e colto.

    Con la coda dell’occhio Matilde si impresse velocemente nella mente l’immagine di due ufficiali di mezza età: lineamenti fini, barba brizzolata l’uno e grigia l’altro, uniformi eleganti. Nobili, di sicuro; gente che sicuramente bazzicava la cerchia ristretta di Ludovico il Moro. Ebbe la conferma che ciò di cui stavano parlando non fosse una bazzeccola.

    Matilde del Fioretto, si disse, diamoci da fare.

    Non scoprirsi, mantenersi nell’ombra. Istruzioni date da persone altolocate a lei sconosciute, al sicuro in qualche umido palazzo a Venezia; ma il suo diretto superiore, il suo contatto, il suo maestro, l’aveva addestrata ad agire, se necessario, e interpretare gli ordini in base alla situazione.

    All’ombra della pace di Lodi del 1454, che sembrava aver messo fine alle guerre tra gli Stati d’Italia, il Moro stava evidentemente procurandosi armi segrete con l’aiuto di chissà quale inviato da forze occulte. La cosa puzzava.

    Al diavolo gli ordini e le istruzioni di chi non rischiava la pelle direttamente!

    Ogni arma in mano allo Sforza sarebbe stata una spina nel fianco di Venezia. Da quanto aveva osservato fino ad allora, la Serenissima non aveva niente da temere dalle milizie del Moro. Buoni a parlare, vantarsi, ruggire con aria dallo stomaco, pronti a battagliare a letto con qualche prostituta o al massimo guerreggiare con piccole città di confine che Sua Altezza avesse voluto sottomettere.

    I soldati e i marinai di Venezia, invece, erano avvezzi da decenni a un ben più potente, pericoloso e agguerrito nemico: l’enorme Impero Ottomano. I turchi infatti avanzavano inesorabilmente, avevano conquistato Costantinopoli e gli avamposti cristiani; le colonie e i possedimenti di Venezia e della rivale Genova in Levante erano caduti in mano ai musulmani uno dopo l’altro. Spesso le ostilità tra la Repubblica e il sultano venivano interrotte da trattati di pace e compromesso. Il suo maestro era stato agente della Serenissima nell’Impero Ottomano. Le sue parole echeggiarono di nuovo nella testa di Matilde come un cantico ripetuto più volte ma gradevole a riascoltarsi.

    L’antica disputa tra Oriente e Occidente, e quella dei secoli recenti tra Cristianità e Islam, si sta di nuovo svolgendo. La Serenissima è quasi sola tra gli Stati d’Italia in questa lotta, sostenuta ogni tanto di nostri rivali di Genova. I turchi sono un avversario da rispettare. Un vero professionista non deve mai lasciarsi prendere dai sentimenti. Niente odio nei riguardi del nemico del momento né amore per la potenza amica. Soltanto fedeltà incondizionata alla Patria e alla propria causa. Perché gli avversari di oggi possono diventare d’un colpo gli alleati di domani. E viceversa.

    Mentre riascoltava nella mente la sua voce, Matilde ricordò anche quel volto d’uomo sulla quarantina che mutava espressione, corrugandosi in una mal celata rabbia, mentre aggiungeva: Contrariamente al papa che, invece, propaganda odio e disprezzo contro i cosiddetti infedeli e parla di Crociate come ai vecchi tempi. I musulmani credono nella Guerra Santa e, coerenti, la praticano. I cristiani devono invece vedersela con le belle idee di amare e perdonare il proprio nemico. Teorie che mal si confanno ai misfatti che i fedeli a Cristo hanno commesso nel corso degli ultimi secoli: Crociate, Inquisizione e conflitti sanguinosi di interesse terreno.

    Ricordò l'indignazione di quella concione mentre evitava di inciampare sul piede di un soldato corpulento seduto scomposto.

    La Guerra Santa moderna si combatte con i cannoni del sultano che trenta anni fa divelsero le mura secolari di Bisanzio. Il nemico è ben determinato. I cristiani divisi e indecisi. La Roma dei papi di oggi è molto simile a quella imperiale del periodo della decadenza. Sua Santità Sisto IV della Rovere regna su una congrega di cardinali corrotti dalla lussuria terrena: amanti, figli illegittimi e orge sono all’ordine del giorno, e i territori della Chiesa vengono distribuiti a parenti e amici che si comportano come feudatari o signori laici!

    A Matilde sovvenne l’espressione di sollievo dopo quello sfogo e quella raggiante allorché aveva ribattuto: Ma il vento della Storia soffia recando cose nuove. Guardati intorno: nuove filosofie più consone ai tempi teorizzano l’Uomo al Centro dell’Universo, l’Uomo Creatore. Arte, bellezza e sapienza hanno inondato l’Italia, facilitate dalla lunga pace, e fanno eco anche all’estero. La Luce sta ritornando dopo i Secoli Bui: una regola fissa della dinamica storica.

    Matilde ricordò il tono di lui farsi più grave: Bisogna però stare attenti: una tale luce può anche abbagliare e rendere l’Uomo cieco. I tempi belli portano ricchezza, e questa crea spesso ingordigia, e l’ingordigia, conflitti. Il rischio di distruggere il Faro della Civiltà, spegnerne la luce e ricadere nel buio è sempre incombente. Una legge spietata di Madre Storia: al giorno sopraggiunge sempre la notte. Il buio non è di per sé male: spesso porta alla riflessione, alla pace interna. I secoli scorsi ci diedero anche il misticismo del monachesimo e l’eroismo della cavalleria, valori puri sopravvenuti alla corrotta decadenza del Mondo Antico il cui sole volgeva al tramonto.

    Neppure i pesanti commenti per nulla mistici sul suo corpo da parte di un milite poco cavalleresco, la sviarono dal ricordo di quelle parole.

    Ma l’astro è risorto, illuminando le strade che ci portano a grandi cambiamenti, come sempre nel Grande Ciclo. E se si imbocca la via sbagliata, la notte della Storia rischia di cadere troppo presto. La missione del Saggio è di prolungare l’Età dell’Oro il più a lungo possibile alimentando questa fiaccola. È un compito che spetta a chiunque: all’artista che distribuisca bellezza, al filosofo che dia sapienza, allo statista che conduca una politica saggia, ma anche al soldato che difenda dal nemico che minacci questi valori. La spia è un milite che combatte nell’ombra: un ruolo ingrato e spesso disprezzato; agiamo dietro le quinte, i nostri nomi non appariranno mai nelle pagine di cronaca e storia, contrariamente a quelli dei grandi condottieri. Eppure proprio gente come noi può carpire i segreti del nemico e cambiare le sorti di una guerra o, meglio ancora, evitarla.

    Matilde si intristì ripensando a quelle parole riguardo a bellezza, ricchezza e ingordigia. Il pugnale della nostalgia la ferì al fianco allorché si ritrovò a ripensare alla sua nativa Firenze, centro di quel tesoro culturale: Firenze bagnata dall’Arno, illuminata dall’arte, ma oscurata dal dominio dei Medici. Matilde dovette ammettere la sua reticenza nell’imparare a estraniare i sentimenti.

    Ricordò una frase del maestro che lei non era mai riuscita a condividere: Lorenzo

    de’ Medici è una delle più illustri personalità della politica attuale. L’Italia gli deve molto.

    Ricordò di avergli dato ragione con un finto sorriso mentre nei suoi pensieri trafiggeva il Magnifico con uno stiletto nel cuore. Matilde sapeva recitare e mentire.

    Per questo era stata scelta, ma l’odio contro i Medici superava la sua professionalità.

    Gli amici dei Medici erano suoi nemici. Lo Sforza, alleato dei Signori di Firenze, era un avversario di Venezia. Non era del tutto scevra da un odio di riflesso contro il Moro. Ma proprio ciò le diede la forza di agire. Quel pizzico di residuo dell’adolescenza che le era stata tolta e lo spirito ribelle della gioventù, che a volte fa scambiare il rischio col gioco, le diedero la forza necessaria per raccogliere il coraggio a quattro mani. La sua nuova patria non doveva correre il rischio di soccombere alle armi segrete di Milano. Non turco, né milanese, né fiorentino doveva vincere contro il Leone Alato della Regina dell’Adriatico. Matilde doveva assolutamente penetrare nella tana del Moro per quanto difesa essa fosse e, sfidando ogni rischio, scoprire cosa bolliva in pentola. Un compito quasi impossibile.

    Ma lei aveva una carta vincente: da tempo aveva fatto una scoperta, che prima o poi avrebbe svelato ai superiori per ottenere gratificazioni presso il servizio segreto veneziano o, più che altro, il consenso dell’uomo che ammirava, il suo maestro e tutore che le aveva salvata la vita quattro anni addietro.

    Risoluta, agì. Afferrò la medaglietta che si portava al collo. Un minuscolo compartimento conteneva polvere di belladonna. Fece finta di baciare il medaglione mentre aspirava l’estratto che entro pochi istanti le avrebbe dilatato le pupille rendendola ancora più affascinante.

    Si allontanò velocemente dal tavolo dove i due ufficiali stavano conversando e girò la testa alla ricerca di qualche armigero dall’aspetto gradevole, mentre cercava di convincersi che non stava trasgredendo agli ordini.

    I suoi occhi incontrarono quelli innocenti di un giovane ancora imberbe.

    Bene, pensò mentre osservava anche le larghe spalle del milite; avrebbe unito il dovere al piacere. Mancava un’oretta alla fine del suo turno di lavoro.

    Poche ore dopo, mentre scendeva la sera, il soldato, di soppiatto, faceva entrare Matilde dalla porta di una caserma. Passato un corridoio oscuro, il suo accompagnatore le mostrò con aria complice uno dei passaggi segreti che collegavano i bastioni esterni di Milano con il castello dello Sforza. Appartatisi, fecero del cunicolo la loro alcova.

    Dopo l’atto d’amore, Matilde estrasse da una saccoccia appesa a una cintura, l’unica cosa rimastale addosso, una fiasca di pelle e due boccali presi in prestito alla locanda.

    – Vino toscano, delle mie parti – esordì con aria da esperta seduttrice.

    Riempìti i boccali, baciò il soldato mentre di nascosto faceva cadere il contenuto di un altro compartimento del medaglione in quello dell’uomo. Brindarono.

    Pochi istanti dopo l’armigero cadde in un sonno profondo. Matilde sapeva che si sarebbe risvegliato soltanto dopo ore.

    Rassicurata, si rivestì, e subito dopo si incamminò nel passaggio illuminato appena da rare fiaccole appese al muro, la cosiddetta Strada della Ghirlanda, vantata sottovoce dagli armigeri che frequentavano la bettola. Un segreto bisbigliato da molti e pervenuto alle sue orecchie, alle quali nulla sembrava sfuggire.

    Udì un rumore di zoccoli ferrati. Si accovacciò al suolo. Una decina di cavalieri le trottò accanto. Il cunicolo era largo e il soffitto alto: perfino un carrozza sarebbe passata senza difficoltà.

    Per attimi che sembrarono un’eternità Matilde temette di essere scoperta. In quel caso sapeva che cosa l’aspettava. Per prima cosa il suo corpo avrebbe dilettato le infime voglie dei soldati, poi, arrestata, sarebbe stata torturata affinché svelasse il suo proposito e come mai fosse a conoscenza dell’esistenza del passaggio segreto. Infine, qualora non fosse stata condannata a morte, sarebbe invecchiata in una cella.

    Tuttavia non provò paura per se stessa: semmai timore che la sua missione fallisse. Abnegazione che metteva l’esito del suo compito davanti a tutto, anche alla propria vita.

    O era forse la tenebra a irrobustirne la baldanza? Matilde si trovava a suo agio sottoterra e nella penombra. Il suo amore per la luce e gli spazi aperti le era stato rubato dagli sgherri del Medici quattro anni prima, quando aveva provato a sue spese i misfatti del Magnifico.

    Ripensò alle parole del maestro riguardo al buio che portava alla riflessione, alla pace interna e, nel suo caso, anche a un’ebbrezza di coraggio e forza di volontà che rasentava l’incoscienza.

    L’Italia brilla di ricchezza, si paciuga in pace e prosperità, ma sotto la superficie, per questi cunicoli, Sua Oscurità il Moro, degno alleato di Sua Magnificenza Lorenzo il Maledetto, fa sfilare le sue armate, declamò col pensiero mentre il cuore le batteva e il sudore le colava dalla fronte.

    I soldati passarono oltre. Allorché l’ultimo battito degli zoccoli ebbe lasciato posto al silenzio, Matilde si rialzò e riprese ad avanzare.

    Il cammino fu lungo. La semioscurità acuì la sua immaginazione. Fu come se il maestro fosse ora anche visibile al suo fianco, come Virgilio per il poeta Dante, a tenerle compagnia e darle conforto.

    Richiamò le sue parole che stranamente si confacevano quasi più a un filosofo che a uno spione.

    Come la notte, neppure il Buio della Storia cade su tutto il mondo in una volta. La tenebra della barbarie vi fu soltanto in Europa, laddove a Oriente sapienza e cultura continuarono a esistere. Bisanzio, il Califfato Arabo, la Cina descritta da Marco Polo. A volte i conquistatori vengono essi stessi conquistati dalla cultura di sudditi più civili. I romani in Grecia, i mongoli in Cina, i turchi a Bisanzio. L’Occidente, e soprattutto l’Italia si stanno risvegliando dal letargo dell’ignoranza. Ma il sole sorge sempre a Oriente, non dimenticarlo. Molto dobbiamo alla Cina e agli arabi. E molto alla Grecia, l’Oriente d’Europa. Venezia è un ponte tra Levante e Occidente. I nostri mercanti importano merci e spezie, ma contrabbandano anche cultura e informazioni come a suo tempo il Polo.

    L'amor patrio per la città lagunare la invase al ricordo di quelle parole. Ubi es ibi patria, aveva letto da qualche parte. Doveva molto a Venezia, la vita innanzitutto. Sempre grazie all'uomo le cui parole fluivano nella sua memoria, quasi a proteggerla dai pericoli di quel luogo.

    Il ruolo della Serenissima è importantissimo, nonostante la cosa susciti gelosie e invidia tra gli altri Stati d’Italia. Molti ci detestano e vorrebbero la nostra distruzione. Dobbiamo sempre stare all’erta. Spesso c’è più da fidarsi dei turchi che degli altri italiani. Puoi sfidare l’Impero Ottomano e affrontarlo come fosse un grande orso, ben visibile nella sua possenza. Ma, ahimè, i Signori d’Italia ti fanno il bel viso davanti e ti parlano con la stessa favella libando lo stesso vino che beviamo a Venezia e mangiando gli stessi cibi, ma devi sempre stare attento a una pugnalata alle spalle.

    – …O ad armi stregate – continuò lei a denti stretti fantasticando sul desiderato cenno d’assenso da parte del suo immaginario compagno. Sapeva che lui avrebbe approvato la sua iniziativa. La leonessa nascosta dentro di lei le diede ulteriore vigore.

    Arrivò finalmente a una diramazione. Passò attraverso un’apertura e salì una rampa di scale. Varcò guardinga una porta ritrovandosi in una saletta austera con lance e alabarde appese al muro: sicuramente gli alloggi del comandante delle guardie.

    Veloce, passò un portone, e si ritrovò presso un ponte levatoio abbassato che attraversava cinque o sei piedi d’acqua. Da tempo aveva osservato dal di fuori la struttura del Castello, e sapeva che l’edificio in cui si trovava ora era situato in mezzo a un largo fossato come un’isola costruita da provetti muratori. Il ponte levatoio che dava all’esterno era sicuramente alzato, e le sentinelle tenevano certamente d’occhio l’altra sponda.

    Attraversò il passaggio legnoso a pie’ leggero, per evitare che questo scricchiolasse.

    Le grandi fauci di un portone sembrarono inghiottirla, quasi la tana del Moro in cui si accingeva a penetrare fosse stato un mostro vivente la cui ombra incombeva nella tarda sera alla luce delle fiaccole. Alla sua destra si parò una specie di fortezza nella fortezza: la Cittadella. Alla sinistra si intravedeva invece un magnifico giardino circondato da un colonnato. Si incamminò nel portico e varcò la prima porta che incontrò.

    Udì voci di donne mentre si immetteva in un corridoio. Salutò con un sorriso tre giovani ancelle, le quali la ignorarono.

    Bene, pensò.

    Seguì l’odore di cibo e si ritrovò nelle vicinanze della cucina. Un corteo di cameriere, che brandivano guantiere d’argento zeppe di avanzi di manicaretti di ogni tipo, le marciò accanto sparendo al di là di una porta che odorava di spezie.

    Quasi contemporaneamente, da una rampa di scale emerse un’altra fila di ancelle recanti caraffe dorate. Con aria naturale e gentile, Matilde si offerse di alleviare una delle servette del prezioso recipiente che sembrava gravarle sul braccio sinistro. Quella la ringraziò con un sorriso, e Matilde si unì al corteo arrivando infine a una porta al di là della quale si intravedeva una sala lussuosissima affollata di gente.

    La prima cosa che la colpì prima di entrare fu la musica. Fin da bambina Matilde era stata abituata a musici e cantori, ma raramente aveva udito il suono di un liuto tanto cristallino e una voce tanto melodiosa. C’era qualcosa di speciale, in quell’armonia. Chissà che a cantare e suonare non fosse proprio il mago di cui si era parlato. Forse non si trattava di un vecchio barbogio e rugoso, ma di un giovane bello che sapeva incantare come una sirena dalle fattezze maschili, un moderno Orfeo capace di domare con la musica. Gente del genere era più pericolosa dei sicari. Rendevano ebbro il pubblico mentre con lo sguardo li soggiogavano ipnotizzandoli.

    L’incanto seguitò allorché lei entrò ritrovandosi sommersa da una marea di abiti variopinti e abbacinata da una costellazione di gioielli, perle e gemme. Quelle facce sorridenti e festose erano però, nonostante tutto, il nemico.

    In mezzo a loro Matilde si immaginò la figura del maestro che, come uno spettro visibile soltanto a lei, le mormorasse consigli a riguardo: Mettiti sempre nel punto di vista dell’avversario, assumi quasi la sua identità, pensa come lui, se necessario convertiti al suo Dio, credi nelle sue filosofie. Per i musulmani, ad esempio, gli infedeli siamo noi, e per i levantini in genere ai loro occhi siamo un’orda di volti pallidi malaticci che camminano troppo in fretta, che cambiano moda troppo spesso; hai notato che in Oriente non hanno mutato molto il modo di vestire da quando noi andavamo ancora in giro in toga o tunica nell’aria mediterranea o in pellicce di animali nella foreste del Settentrione? Per loro i nostri costumi sono incomprensibili e incivili. Assumi questa ottica e indovinerai le loro mosse.

    Grazie, gli disse col pensiero. La cosa valeva per i turchi. Ma al momento il nemico consisteva in gente come lei, con cui, rango a parte, divideva anche il modo di gesticolare.

    Cominciò a osservare la gente intorno a lei, a udirne i dialoghi a carpire dettagli.

    Sorpassò una coppia, lui, belloccio con la baldanza di chi ha amici influenti, portava al dito un anello con lo stemma degli Sforza intagliato in un rubino, lei sarebbe stata attraente se si fosse tolta dal viso quell’aria eternamente disgustata.

    Le poche frasi che si dissero, con un tono scevro da sentimenti reciproci, avevano la cadenza milanese. Alle sue orecchie, quasi in armonia con l’incantevole musica, arrivarono frasi dall’accento fiorentino. I suoi vecchi concittadini erano ben rappresentati in quell’occasione. Almeno una ventina, a giudicare.

    Assumere l’identità del nemico, insegnava il maestro. Niente di più semplice in quell’occasione, ma che tristezza essere dall’altra parte ora!

    Seguendo la traccia eterea della musica, Matilde si imbatté in un paio di stranieri: uno, vestito di una cappa che ostentava i Gigli di Francia, non lasciava dubbio sulla sua provenienza, l’altro, con in testa un fez alla moda dei turchi, neppure.

    I due, incuranti della musica, insistevano a conversare in buon italiano con due personaggi, uno con accento genovese, l’altro ambrosiano da capo a piedi a giudicare dalla favella.

    L’ottomano, con una posata, aveva tracciato sulla tovaglia lo schizzo della mappa del mondo. La sua vocetta, che mal si confaceva alla possente barba, uscì da una bocca nascosta dai mustacchi. Con una cadenza tra la sua lingua e il veneziano, l’uomo col fez proferì: – Ecco qui il mondo, tondo e piatto come una focaccia, i suoi limiti, Zipangu a Oriente e le Colonne d’Ercole a Occidente, ecco il Catai, o Cina, ecco qui sotto l’Africa, qui il territorio inesplorato dove ci sono i leoni a Meridione e, a Settentrione, i ghiacci eterni. Osservate bene quanto sia grande il nostro glorioso impero, visibile dal cielo agli angeli, al nostro Dio, al vostro e a quello dei giudei. Guardate invece questo puntino e altri puntini. Oh, che dico, datemi una lente, così ingrandiamo questa cacca di moscerino! Ecco Venezia, piccola piccola con le sue colonie piccole piccole e una manciata di terra in Italia. I veneziani insistono a pungere l’impero del sultano come zanzare. Sognano di batterci. E quand’anche ci riuscissero e ci conquistassero, non avrebbero tanto posto per metterci. In ogni caso prima o poi le zanzare si schiacciano e non danno più fastidio.

    Il genovese rise sguaiatamente, il milanese gli fece eco con voce roca. Il francese si limitò a sorridere; Matilde notò i suoi occhi immersi nello schizzo di mappa che passavano in rivista il resto dell’Italia con pervasa cupidigia.

    Sorridendo, la giovane versò il vino alla compagnia, omettendo volutamente il turco per rispetto alla sua religione, nonostante avesse voglia di avvelenarli tutti e quattro per quegli insulti alla Serenissima, e proseguì attenta alla ricerca del duca e del mago. La magica armonia terminò, sostituita da un applauso scrosciante.

    La folla si diradò.

    Altri musici iniziarono a pizzicare i loro liuti tradizionali che però, già dalle prime note, dimostrarono di non poter competere con la sonorità di quello del solista di prima. Una voce bella, ma insipida se paragonata a quella del magico cantore, intonò in musica versi ben noti: «Quant’è bella giovinezza, che già fugge tuttavia…»

    Fu come se Matilde avesse ricevuto una frustata. Il sonetto di Lorenzo il Magnifico varcava i confini ricordandole con amarezza della propria giovinezza stroncata sul fiorire.

    «Chi vuol esser lieto sia, di doman non v’è certezza» continuò il cantore. La sua voce le entrò nella testa trasformata in un urlo di morte, il suono degli strumenti distorto e mutato in un clangore di spade.

    Belle parole, Lorenzo, si gridò nella testa cercando di non svelare emozioni, dedicale a coloro ai quali i tuoi sgherri tolsero sia la giovinezza che il domani!

    Matilde si ricompose e proseguì nella sua ricerca. Scorse in un angolo un uomo dalla carnagione olivastra dall’aria altezzosa davanti al quale tutti si prostravano. Di fianco a lui ce n’era un altro voltato di spalle con in mano uno strumento dalla forma strana. Nonostante la distanza, Matilde vide che l’uomo porgeva al Signore di Milano un rotolo di carta o papiro. La fanciulla seguì attentamente tutti i movimenti.

    Se il misterioso menestrello era il mago, probabilmente in quel plico erano scritti riti, formule o segreti. Doveva impadronirsene a tutti i costi!

    Il Moro chiamò un servo, e dopo avergli parlato nell’orecchio gli affidò il rotolo.

    Infine si accomiatò dall’ospite, si alzò e si immise tra la folla, la quale si divise subito al suo passaggio come le acque del Mar Rosso a quello di Mosè prostrandosi servilmente in inchini.

    Matilde avrebbe voluto avvicinarsi per vedere bene il negromante in viso, ma al momento quei documenti erano molto più importanti: da essi avrebbe saputo di più.

    Gli sguardi del pubblico erano tutti rivolti ai musici, molti canticchiavano i versi scritti dal Medici all’unissono col magro solista.

    Inosservata, posò la caraffa di fianco allo stipite della porta e si diede a seguire discretamente il servo. Fino a quel momento nessuno l’aveva degnata di un minimo di attenzione, vestita com’era da ancella, quasi facesse parte dell’arredamento.

    La cosa giocava a suo vantaggio. Forse sarebbe stata un’imprudenza aggirarsi per il Castello, ma al momento lei era tanto invisibile quanto un albero in una foresta.

    I problemi si presentarono nel corridoio. Due armigeri armati di alabarde montavano guardia agli appartamenti del duca. Lasciarono passare il servo, mentre lei si tenne nascosta.

    Poco dopo, quello uscì di nuovo. Matilde si infilò dietro un tendaggio cercando di mettere assieme un piano per superare quell’ostacolo al momento invarcabile. Ma un attimo dopo quel problema passò in secondo piano: una voce muliebre dall’accento fiorentino squillò alle sue spalle: – Cosa diavolo fai qui, servetta?

    Matilde si voltò. Nella penombra poté distinguere la figura di una donna tra i venti e i trenta anni, vestita in un abito elegante giallo. La parure di gioielli che adornavano la donna luccicava alla luce delle torce del corridoio, ivi compreso il diadema che portava attorno alla cuffia che le copriva la testa.

    La dama, con un tono altezzoso, seguitò: – Sei qui per rubare vero? Piccola ladruncola, aspetti soltanto l’occasione per penetrare negli appartamenti del duca. Ma tra poco ti aggiusto bene io!

    Tra poco, pensò Matilde. Perché non subito? Avrebbe potuto chiamare le guardie e farla arrestare. E che diavolo invece ci faceva lei l’ingioiellata madonna fiorentina nascosta lì dentro?

    Formulò un’ipotesi, conoscendo le frivole corti italiane presso le quali le storie di infedeltà e giochi d’amore abbondavano, oltre la nomea che le sue compaesane godevano in quel campo.

    Passi ruppero il silenzio. L’uomo di bell’aspetto che lei aveva visto portare al dito l’anello con lo stemma di Milano passò nel corridoio, solo. Matilde scorse nella penombra lo sguardo della donna che esprimeva attesa e una perversa gioia, notando anche che l’anello del nobiluomo era ora appeso alla sua collana. La voglia della carne si palpava nell’aria. Il pericolo pure: la scorfana l’avrebbe chiamato denunciandola. Formulò un piano e agì.

    Allungò improvvisamente la mano chiudendo le dita sulla gola della donna.

    Quindi, bisbigliando profondamente, imitando la voce di un uomo e l’accento milanese, minacciò: – Potrei strozzarvi in un attimo, ma se state docile e buona avrete salva la vita. Mi avete insultato poco fa chiamandomi ladruncola. Guglielmino Passaporte non è un ladro qualsiasi. Siete forestiera, nevvero? Non conoscete la fama di colui che, travestito, riesce sempre a penetrare nelle corti dei ricchi per arraffare e dare al popolo ciò che esso vuole. Nell’Italia dell’abbondanza son pochi a morir di fame. Il volgo ha ora il pane, ma vuole di più: il lusso.

    Si alzò la gonna, estrasse la fiasca dalla saccoccia appesa alla cintura. La aprì con una mano, vi versò il sonnifero. Scosse il recipiente e infine lo infilò tra le labbra della dama, intimando: –Adesso bevete. Non è veleno. Dormirete per un bel po’ di ore. Quando vi sveglierete vi avrò portato via tutto, gioielli e vestito. Ma state tranquilla: non mi approfitterò di voi mentre dormite. Francamente, non valete questo sforzo…

    Seguì un silenzio rotto soltanto da un parlottare sommesso. L’uomo stava dando istruzioni alle guardie come Matilde aveva previsto. Riuscì a carpire brani di dialogo.

    –… Una dama fiorentina… diadema… cuffia… un anello…

    Poco dopo Matilde uscì da dietro il tendaggio lasciandosi dietro la sua vittima addormentata e seminuda della quale indossava ora gli abiti e i gioielli. Arrivò spavalda al cospetto delle guardie, le quali alzando le alabarde la lasciarono passare.

    Una le bisbigliò: – Seconda camera a sinistra.

    L’altra aprì la porta che conduceva agli appartamenti ducali il cui corridoio era illuminato. Evitando la stanza dove l’ospite aspettava la sua amante, Matilde sbirciò nelle altre. Escluse quelle meno lussuose fino a ritrovarsi in quella che evidentemente era l’alloggio di Ludovico Sforza.

    Frugò nella saccoccia estraendovi subito dopo una piccola lampada a olio e un acciarino. Accese il lume. Sulla scrivania troneggiava il rotolo consegnato dal menestrello.

    Aprì la lettera e lesse.

    La descrizione di cose mirabolanti scorse davanti ai suoi occhi in forma di parole scritte con penna e inchiostro, come un’armata di orchi in marcia.

    Capì di aver agito nel modo giusto. Estrasse dalla bisaccia una penna, un foglio di carta e un calamaio, e si affrettò a trascrivere parola per parola l’incredibile contenuto dell’epistola. Non appena ebbe finito, asciugò la copia con la carta assorbente e la ripose nella borsa. Rimise infine la lettera del misterioso ospite dove l’aveva trovata, spegnendo subito dopo la lampada che finì anch’essa nella saccoccia.

    Soddisfatta, uscì dalla camera. Stava ormai raggiungendo l’uscita, allorché la porta di una stanza si aprì, e l’amante della fiorentina fece capolino dicendo: – Mia diletta, vi siete forse persa in questo labirinto? Venite dentro, il mio sangue sta bollendo di passione.

    Suo malgrado, Matilde entrò cercando di nascondere il volto con la mano simulando finto pudore. Non appena lei fu entrata però, l’uomo, completamente nudo, fu lesto a chiudere la porta con la chiave appendendola poi al collo. Il suo tono cambiò improvvisamente.

    – O forse stavate cercando di andarvene. Vi conosco, puttane di Fiorenza. Mutate idea e voglie a ogni pie’ sospinto. Ma ho preso le mie precauzioni: le guardie hanno l’ordine di non lasciarvi uscire senza il mio consenso. Ora siete qui con me, siete mia proprietà. Siate carina e non recitate la parte della vergine: toglietevi la mano dal viso e gli abiti dal corpo.

    – Rilassatevi mio signore – rispose Matilde sommessamente tenendo sempre il volto nascosto. – Il mio cuore batte come un tamburo anelando al vostro fisico statuario.

    Tirò su la veste e ne estrasse la fiasca, porgendola all’uomo. – Il magico elisir di Bacco vi darà più voglia nelle vene mentre mi spoglierò davanti a voi, con una mano mentre l’altra farà da velo al volto, secondo il costume delle donne dell’Arabia misteriosa. Vi supplico umilmente di bere dal calice di Dionisio.

    L’uomo, raddolcito, ingurgitò il vino soporifero.

    Poco dopo dormiva come un angioletto.

    Matilde sapeva ora che l’unica via d’uscita possibile era quella che lei avrebbe voluto evitare a ogni costo: attraverso la finestra. Trasse un respiro profondo cercando di vincere la paura, e pose piede sul davanzale. Sotto di lei scorreva l’acqua limacciosa del fossato.

    Si trovò sospesa nel vuoto, tremante. Le tornò in mente l’incubo di quattro anni prima. Rivide se stessa, dodicenne, a Firenze un attimo dopo che la sua famiglia e la compagnia teatrale della quale lei era la giovane speranza, massacrata dagli armigeri del Medici. Due scagnozzi l’avevano già sollevata e si accingevano a gettarla giù dal balcone del palazzo. Ricordò di aver invocato l’angelo custode.

    Come se qualcuno dall’alto l’avesse udita si era sentita presa al volo mentre già vedeva la strada sottostante minacciosa.

    Il ricordo del suo salvatore le diede la forza di fare tre passi. Pose il piede in un buco nel muro e, usando questo a mo’ di scala, si issò fino a toccare l’arco a sesto acuto del finestrone. Afferrandosi a un altra scabratura, scalò ulteriormente il muro avvicinandosi sempre di più agli spalti merlati.

    Il panico la riprese.

    Cercò di resistere.

    Doveva andare ancora più su, ma la paura le bloccava i movimenti. Si costrinse a ricordare come l’avesse scampata quella notte in cui la sua famiglia era stata accusata di avere congiurato contro i Medici insieme ai Pazzi. Ricordò sangue, una corsa attraverso i corridoi del palazzo, una cavalcata nella notte, una nave veneziana che la portava in salvo, ma per sempre lontana dalla sua Firenze che non avrebbe mai più riveduto.

    Nei suoi ricordi era salva di nuovo.

    Si issò fino allo spazio tra due merli e vi si aggrappò. Si spinse in avanti, scavalcò il muro e atterrò sul camminamento coperto da una tettoia, fortunatamente deserto.

    Non appena si ritrovò la terra sotto i piedi, la paura le passò di colpo. Ma immediatamente dopo venne presa da quello strano malessere che da quattro anni in qua le dava strani bruciori al corpo. Accadeva ogni volta che i suoi piani non andavano come previsto.

    Ogni piccola contrarietà le causava quel male. E ogni volta, per liberarsene, doveva prendersi una piccola rivincita o vendetta contro chi lei riteneva essere la causa diretta o indiretta del contrattempo. Dolente, corse fino alla scala che portava al piano di sotto giungendo inosservata nell’atrio che portava alla grande sala.

    Avrebbe potuto ora uscire dal castello senza ostacoli. Gli abiti che indossava erano un lasciapassare. Un sorriso, e avrebbe avuto libero ingresso agli alloggi del capitano delle guardie. Ma il bruciore imperversava. Doveva prendersi una rivincita per calmarlo. Era più forte di lei.

    Rientrò nella sala. Ora non era più invisibile. Sentiva sguardi accarezzarla: ammirazione degli uomini, gelosia palpabile delle donne: la magia dell’abito che indossava e dei gioielli che portava. Stava facendo una pazzia, lo sapeva. Provando l’emozione di un’effimera gloria nel paradiso ineccessibile dei Signori non nascondeva neppure il volto. Si rivide sul palco anni prima: quanto era importante il costume!

    Udì complimenti pesanti pronunciati con accento francese: quel pomposo ambasciatore di poco prima in compagnia del turco; l’ottomano era da tutt’altra parte, e l’uomo vestito di gigli sembrava ora scrutare le dame presenti con la stessa avidità con cui poco prima aveva guardato la carta d’Italia.

    Via, scappa Matilde!, si disse. Invece si trovava ancora lì con quel francese che la seguiva con lo sguardo e un paio di dame che la guardavano con sospetto, mentre il bruciore si faceva più intenso.

    Intravide tra la gente la moglie del pomposo

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