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La fratellanza della daga - il romanzo
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La fratellanza della daga - il romanzo

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ROMANZO (220 pagine) - FANTASY - Solo la daga può tenere in vita un rinato. E la daga appartiene alla Fratellanza. Il ciclo completo de "La Fratellanza della Daga" in un unico, appassionante, romanzo!

Konor apre gli occhi in una stanza colma di penombra. Al suo capezzale due ragazzi misteriosi, che gli raccontano di averlo risvegliato dal coma, per poi sparire nel nulla. Torneranno diverse lune più tardi, per consegnargli una daga di bronzo, strumento che gli consentirà di entrare a far parte della Fratellanza della Daga, un'organizzazione misteriosa che combatte esseri mostruosi giunti da un mondo parallelo. Konor è tornato a vivere, ma scoprirà ben presto che il prezzo richiesto dalla Fratellanza è più di quanto lui sia disposto ad accettare. I primi tre episodi riveduti e corretti e i due capitoli conclusivi della saga. Il ciclo completo de "La Fratellanza della Daga" in un unico, appassionante, romanzo!

Luca Di Gialleonardo nasce il 31 ottobre del 1977 a Teramo, trascorre i primi anni di vita a Sassuolo (MO) e si trasferisce in via definitiva ad Anagni (FR), lo storico paese famoso per lo "schiaffo". Non appena impara a leggere e scrivere, queste due attività diventano i suoi interessi principali. Nel 2009 pubblica con la Delos Books il romanzo "La Dama Bianca", nella collana Storie di draghi, maghi e guerrieri. Nel 2013 è finalista al Premio Urania. Nel 2014 è finalista al Premio Tedeschi e al Premio Odissea e pubblica in coppia con Andrea Franco "Di fame e d'amore", un episodio di "The Tube" Exposed (Delos Digital), "Big Ed", romanzo breve per la collana Serial Killer di Delos Digital e "Il calice della vendetta", nella collana History Crime (Delos Digital). Ha pubblicato diversi racconti in riviste e antologie. Sulla "Writers Magazine Italia" cura una rubrica su tecnologia e scrittura.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 11, 2014
ISBN9788867755486
La fratellanza della daga - il romanzo

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    La fratellanza della daga - il romanzo - Luca Di Gialleonardo

    9788867753895

    Prologo

    Tommen, ottavo dì della sesta luna, trentunesimo ciclo dal lampo

    Quando Ven rientrò, Lahra era immersa nel buio, in un angolo della casa, con le braccia strette intorno alle gambe e il viso nascosto dalle ginocchia. Osservò la sagoma del ragazzo stagliata sulla soglia, la luce del giorno che lo contornava a si intrufolava nella stanza. Strizzò gli occhi, accecata.

    – Che ci fai lì? – chiese Ven.

    Chiuse la porta, tagliando fuori la luce. Lahra sentì gli occhi rilassarsi per poi essere colpita di nuovo quando Ven aprì le imposte, lasciando che la stanza riprendesse colore.

    – Allora? – incalzò Ven. – Ti avevo detto di metterti a dormire.

    Lahra riuscì a guardarlo. Aveva il viso macchiato di terra e gli occhi assonnati. Quando si tolse il mantello rivelò una camicia sporca di sangue e polvere.

    – Dove lo hai portato? – gli chiese.

    – Dove nessuno lo troverà mai.

    – Lo cercheranno.

    – Non aveva famiglia. Nessuno lo cercherà. E se qualcuno lo farà, non lo troverà.

    Lahra schiacciò gli occhi sulle ginocchia. Fino a qualche tempo prima non avrebbe provato alcuna emozione nel sentire quelle parole. Quanti ne aveva uccisi lei, a sangue freddo? Sospirò e tornò a guardare Ven. – Sei tornato a piedi.

    – Non avevo abbastanza forze per traslarmi. Lo scontro con Bose mi ha stremato.

    – Devi dormire.

    – Devi farlo anche tu.

    Lahra annuì. – L’ho fatto.

    Ven non sembrò convinto. – Che ci fai lì?

    – Penso. A quello che è successo. Ai nostri amici.

    – Non è stata colpa tua.

    Lahra rinunciò a rispondere. Tentò un sorriso. – Va’ a riposare, ora. Fra poco torno a letto anche io. Questa posizione mi calma.

    Ven sbuffò dal naso. Neppure lui doveva avere la forza di continuare a parlare. Raggiunse la propria stanza, lasciando orme di fango alle sue spalle. Lahra tornò al proprio dolore, in attesa di sentirlo russare. Non ci volle molto.

    Portò una mano alla schiena ed estrasse la daga d’oro. Traslò, portandosi nel centro nero. Avevano lasciato quel quartiere solo poche centine prima. La casa della preghiera non mostrava segni della battaglia che si era scatenata al suo interno durante la notte. Varcò le porte. Faceva freddo e l’aria era impregnata di un odore di morte. Lahra restò a fissare una macchia di sangue schizzato sul pavimento. Il simbolo del suo fallimento.

    Si costrinse a distogliere lo sguardo e si inginocchiò. Doveva trovare la concentrazione. Strinse le dita intorno all’elsa della daga e lanciò il richiamo. Le finestre della casa della preghiera sembrarono risucchiate dalla pietra, l’oscurità precipitò su di lei ingoiandola in un vortice.

    Pian piano, dal buio emersero delle arcate che proiettarono un alone luminescente da quelle che sembravano alte vetrate fatte di nebbia. Lahra si vide avvolgere dalle vacue pareti di una grande casa della preghiera, le narici furono riempite dall’odore di polvere, come se si fosse trovata in un luogo antico abbandonato dall’uomo.

    Il pavimento era accarezzato da un tappeto di nebbia che pulsava di luce rossastra. Cinque sbuffi vermigli si alzarono verso l’alto e si solidificarono in altrettante figure dalla forma umana.

    Cinque persone avvolte in cappe evanescenti tinte di rosso che coprivano una spessa armatura. Il volto era nascosto da una maschera, gli occhi erano lampi di luce che brillavano nel buio.

    Lahra sapeva di avere davanti tre uomini e due donne. I membri del Concilio della Fratellanza.

    Fu l’uomo al centro a parlare per primo. Era l’unico armato di spada. Lahra non conosceva il volto nascosto dalla maschera. Sapeva solo il suo nome: Jamena.

    – Che la daga sia con te, fratello.

    – Che la daga sia con voi, fratelli – rispose lei.

    – Quali notizie ci porti? Avete trovato l’evocato?

    Lahra sentì stringersi il petto. Annuì, dopo un lungo momento di riflessione, ma quando tornò a parlare furono altre le sue parole. – Oggi ho perso parte della mia squadra. – Alzò la daga verso Jamena porgendola con le palme delle mani rivolte in alto. – Non sono degna di questa lama.

    Parte I - Risveglio

    1

    Picco del sole, ventesimo dì della quarta luna, trentunesimo ciclo dal lampo

    Lahra socchiuse la bocca e strinse gli occhi, interrompendo il respiro regolare. Un incubo.

    Ven la osservò nel buio, incerto se svegliarla. Non ci volle molto perché la fronte della ragazza si rilassasse e lei riprendesse a respirare con tranquillità. Nemmeno i brutti sogni potevano ferirla per troppo tempo, rifletté Ven con un sorriso.

    Si strinse nel mantello, alla ricerca del sonno che non voleva coglierlo, malgrado la stanchezza gli pulsasse nei muscoli. Si tirò a sedere. Insistere ancora sarebbe servito solo a farlo innervosire ancora di più, precipitandolo in un circolo vizioso. Meglio trovare prima la calma.

    Il camino spento sembrava emanare gelo. Ven lo avrebbe acceso volentieri, pur sapendo che non sarebbe stato prudente. Melis di Jeine poteva essere nascosto nei dintorni, il fumo lo avrebbe avvertito che gli erano alle calcagna.

    Ven raggiunse la finestra. Mancava ancora molto all’alba e la foresta che circondava il rifugio appariva tetra, macchiata dalle ombre generate dalla luna. Una luce vibrò tra gli alberi, in direzione nord-est. Restò visibile per qualche secondo, prima di spegnersi con la stessa rapidità con la quale era apparsa. Ven sentì guizzare i muscoli. Quella luce non era stata naturale. Scrutò il buio dalla finestra finché non si convinse che così non avrebbe concluso molto. Se davvero lì fuori c’era qualcuno, le tenebre lo avrebbero nascosto alla sua vista.

    Senza far rumore, raccolse il mantello, indossò i guanti, imbracciò la balestra e si avvicinò alla porta, attento che gli stivali non facessero scricchiolare troppo le assi del pavimento. Con la mano sulla maniglia dell’uscio, Ven si voltò a guardare Lahra. Stava ancora dormendo profondamente, stringendo la daga al petto.

    Il gelo sembrò volerlo afferrare con invisibili artigli non appena la porta fu aperta. Ebbe l’istinto di chiudere fuori quella belva affamata, poi, con uno scatto deciso, uscì e tagliò alle sue spalle il flebile calore del rifugio.

    Restò ancora qualche attimo in attesa, perlustrando più con l’udito che con la vista gli alberi davanti a lui. Impugnò l’elsa della daga, ma la lasciò subito. Era meglio non traslarsi e conservare le energie.

    Appena s’inoltrò tra gli alberi anche il chiarore della luna parve spegnersi. Poteva accendere la daga per farsi luce, ma sarebbe stato pericoloso. Camminò lentamente, lasciando abituare la vista al buio, toccando i fusti degli alberi man mano che gli passavano accanto.

    Quando il rifugio non fu più visibile alle sue spalle, allungò il passo, puntando verso nord-est. Si costrinse a rallentare diverso tempo dopo, quando ritenne di non essere più molto distante dalla meta. Se davvero da quelle parti c’era qualcuno, doveva evitare di far troppo rumore.

    Tese le orecchie e cercò per quanto possibile di riconoscere nella neve qualcosa di simile a delle orme. Impossibile con quel buio.

    Non trovò segni di fuochi o di presenza umana. Probabilmente quella luce era apparsa solo nella sua immaginazione. Oppure Melis di Jeine era più scaltro di quanto lui avesse pensato.

    Si sedette su una grossa radice e poggiò la balestra al tronco dell’albero. Estrasse la daga d’argento, avvolse le mani intorno all’elsa. Chiuse gli occhi e iniziò a respirare profondamente, lasciando che il gelo gli rinfrancasse i polmoni. La concentrazione eliminò tutto il superfluo intorno a lui e a poco a poco smise di sentire anche il suono del proprio respiro. Le energie circostanti cominciarono ad accarezzarlo, a insinuarglisi nella pelle e a farsi comprendere. Percepì una lepre che si era soffermata a osservarlo incuriosita, sentì il respiro profondo di un animale in letargo e il fruscio della neve che cadeva dal ramo di un albero, appesantito da qualcosa ben più grosso di un gufo.

    Aprì di scatto gli occhi, mentre l’adrenalina gli frizzava nella schiena. Si gettò a terra sentendo il fischio dell’aria tagliata da un dardo. Un dolore gli graffiò il braccio destro strappandogli un grido. Rotolò nella neve afferrando la balestra e si nascose dietro l’albero.

    Una freccetta aveva lacerato la manica e ora pendeva attaccata alla stoffa. Era riuscita a ferirgli la pelle, pur non affondando nella carne. Non era un normale quadrello da balestra. Qualcuno aveva cercato di iniettargli qualcosa. Non doveva essere veleno, o avrebbero fatto prima a piazzargli un dardo in testa. Gettò via la freccetta. Si strinse al petto la balestra e rimase in attesa. C’era qualcuno nella foresta. Melis? No, lui non era tipo da attaccare. Era buono solo a fuggire. Sempre che l’evocato che dormiva dentro di lui non si fosse risvegliato.

    Lahra. Doveva avvertirla del pericolo. La daga era caduta nella neve. Per prenderla si sarebbe scoperto troppo.

    Fu raggiunto un soffice tonfo. Qualcuno era saltato giù da un albero e si stava avvicinando.

    Ven si alzò in piedi, restando appoggiato con la schiena al tronco. Solleticò la chiave con le dita, pronto a scoccare il quadrello. I passi si avvicinavano. Per quanto il cacciatore tentasse di muoversi piano, la neve scricchiolava sotto i suoi scarponi. Aiutandosi con i denti, Ven si sfilò un guanto. Lo prese tra le dita nude e lo lanciò alla sua destra, poi scattò dalla parte opposta uscendo allo scoperto. Un’ombra dalla forma umana stava puntando verso il guanto e solo con un attimo di ritardo si accorse che la preda era apparsa altrove.

    Il quadrello gli si conficcò nella testa. Ven non si dette il tempo di guardar cadere il cadavere. Raccolse la daga e si lanciò oltre una breve e ripida depressione del terreno.

    Giunsero le voci concitate di altri uomini. Non fu in grado di capire quanti fossero e nemmeno si preoccupò di farlo. Ora che uno di loro era fuori gioco non si sarebbero più preoccupati di prenderlo con la sorpresa.

    Sentì degli ordini urlati poco lontano da lui. Prima o poi lo avrebbero preso, bastava seguire le orme che lasciava dietro di sé. Scappare in quel modo non sarebbe servito a molto. Doveva escogitare un altro trucco. Se il numero di inseguitori era ridotto, c’erano margini per salvarsi.

    Corse fino a infilarsi tra alcuni cespugli, poi si fermò di colpo. Tornò sui suoi passi, stando attendo a calpestare le orme già impresse sulla neve, cercando più di ricordarsi dove aveva posato i piedi che affidandosi alla vista. Quando fu abbastanza vicino a un albero si infilò la balestra a tracolla e saltò fino ad afferrare un grosso ramo. Si tirò su e si appollaiò al buio.

    Tese le orecchie. I rumori non erano ancora abbastanza vicini. Ne approfittò per tirare la corda della balestra oltre il perno e inserire un quadrello al posto di quello sparato poco prima. Poco dopo scorse due uomini attraverso le fronde dell’albero. Impugnavano delle piccole lampade e le agitavano alla ricerca di qualcosa. Ven riuscì a guardarli meglio. Erano soldati armati con piccole balestre a una mano. A tracolla ne portavano altre automatiche, alimentate a gocce. Ven digrignò i denti. Quelle armi erano in grado di sparare dardi a ripetizione.

    Trattenendo il respiro, attese che i soldati passassero sotto di lui. Puntò la balestra, prese la mira puntando alla testa di quello più vicino. Tirò, colpendo in pieno l’obiettivo. Il rinculo lo spinse indietro. Lo stivale scivolò sul ghiaccio che copriva il ramo. Ven perse l’equilibrio, mentre il secondo soldato accorreva a soccorrere il compagno. Gli bastò alzare lo sguardo per scorgerlo mentre tentava invano di ritrovare la presa sul legno, puntò contro di lui la piccola balestra e fece fuoco.

    Ven si sentì colpire al petto. Un attimo dopo si ritrovò sulla neve. Vide una nuova freccetta puntare verso l’alto. Stavolta lo avevano preso in pieno. E, di nuovo, avevano evitato di ucciderlo. Sorrise, pensando che quella scelta sarebbe stata fatale per loro. Avvicinò la mano al fianco. Finse di non riuscire a muoversi e attese che il soldato gli si avvicinasse.

    – Figlio di puttana – mormorò questi, muovendo lo sguardo dal suo commilitone a Ven. Si avvicinò di un altro passo, puntando l’arma. Aveva poggiato la lampada sulla neve. La sua ombra abbracciava gli alberi, facendoli sembrare più tetri di quando già non fossero.

    Avanti, ancora un po’, pensò Ven. Si sentiva rintronato e non sarebbe riuscito a prendere la mira. L’uomo si mosse verso di lui. Ora era a pochi passi. Ven si tirò a sedere sfoderando la daga. Senza interrompere il movimento la scagliò nell’aria. Vide uno schizzo di sangue esplodere sulla coscia del soldato, dove la lama era affondata. La mira era andata, constatò Ven, che aveva puntato al petto. Cercò di alzarsi in piedi, ma un giramento di testa lo fece cadere.

    – Bastardo! – gridò il soldato. – Fermati!

    Con terrore, Ven vide che ora impugnava la balestra automatica. Di certo non c’erano freccette lì dentro. Si bloccò con un groppo in gola.

    – Non mi importa se gli ordini sono di non ucciderti. Io ti apro la testa!

    Ven alzò le braccia. – Mi volete vivo? Perché?

    Le labbra del soldato tremavano di dolore. Doveva essere poco più grande di lui, si disse Ven. Aveva poca esperienza e in quel momento la paura di morire poteva portarlo a compiere gesti inconsulti. Tenendo gli occhi puntati sull’automatica, Ven iniziò ad abbassare le braccia il più lentamente possibile. Si sentiva annebbiato, ma aveva ancora la forza di muoversi.

    – Non mi rispondi? – chiese per distrarre il soldato.

    – Non ti riguarda! – urlò l’altro. Poi, digrignando i denti iniziò a mugugnare. – La mia gamba… ti ammazzo, bastardo…

    – Sei solo?

    – Alza le mani!

    – Non ce la faccio – rispose Ven tenendo le braccia a metà altezza.

    – Alzale! Alzale o ti sparo!

    – Non riesco a stare in piedi, figuriamoci ad alzare le mani. – Una macchia di sangue si stava allargando sempre di più tra le gambe del soldato. – Morirai dissanguato, se non cerchi aiuto – gli disse Ven.

    Incapace di reggersi su una sola gamba, il soldato crollò in ginocchio. Mollò la balestra automatica, poi si accasciò nella neve. Ven barcollò verso di lui, si lasciò cadere accovacciato. Quando gli estrasse la daga dalla coscia si sentì meglio. Stringere il cuoio dell’elsa tra le mani gli dava una maggiore tranquillità. Doveva contattare subito Lahra.

    – Adesso basta – disse una voce alle sue spalle. Il freddo di una lama sulla nuca lo convinse a non tentare reazioni.

    Ven non lo aveva neppure sentito arrivare. Una mano gli portò via la daga, mentre altri uomini armati di spade si disposero davanti a lui. Si sentì strattonare e poco dopo si ritrovò con le mani legate davanti a sé, costretto in ginocchio. La luce di diverse torce illuminò quel brandello di bosco.

    – Questi due sono morti, signore – disse uno dei soldati, osservando i compagni.

    Un uomo corpulento si pose davanti a Ven. Doveva essere il capo di quella divisione. Indossava una cotta di maglia su un busto di cuoio e il mantello lasciava intravvedere una frusta arrotolata al fianco. – Da solo sei riuscito a uccidere tre dei miei ragazzi.

    – Mi pare evidente che erano scarsi, come soldati – rispose Ven.

    L’uomo ridacchiò, poi lo colpì con un calcio sullo zigomo. Lo afferrò per i capelli e lo costrinse a rialzarsi. – Tu non sei Melis.

    Ven sentiva una gabbia di dolore irradiarsi dallo zigomo e circondargli la testa. Anche loro stavano cercando l’evocato.

    – Tiratelo su – disse il soldato.

    Preso per le braccia, fu rimesso in piedi e sorretto. La maglia di cuoio che indossava sotto la lana aveva impedito al sonnifero contenuto nella freccetta di essere più rapido, ma gli effetti si facevano sentire sempre di più. Cercavano Melis e lo volevano vivo. Lui si era trovato in mezzo.

    – Forse ho capito chi sei – mormorò il capo dei soldati osservando la daga, dopo averla pulita del sangue del soldato sul cadavere stesso. Accarezzò la lama d’argento, seguì l’intaglio che disegnava la testa di un lupo. – Che la furia mi guidi –  lesse con fare solenne. – Sarebbe questo il tuo motto, fratello?

    Ven trasalì. Come faceva quel soldato a conoscere la Fratellanza?

    – Stupito, eh? – ridacchiò il comandante poggiando la daga sulla guancia di Ven. – Vediamo se questa lama è affilata!

    Con uno scatto, sferrò un fendente e un taglio iniziò a bruciare sul viso di Ven.

    – Sono questi gli uomini della Fratellanza? Quanti cicli stagionali hai vissuto? Diciotto? Venti? Sei solo un ragazzino!

    Ven strinse i denti per non urlare di dolore. Il sangue gli colò dalla guancia e una goccia s’insinuò tra le labbra serrate. Si sentiva scoppiare la testa. Allungò le braccia e strinse le mani intorno alla lama della sua daga.

    Il comandante lo fissò divertito, stringendo la presa sull’elsa. – Guarda che ti fai male, così.

    – Non sarò io quello che si farà male – rispose Ven.

    Solo un sorriso, prima di liberare la furia.

    Il risveglio lo raggiunse di colpo, con un gelido senso di soffocamento. Annaspò come se stesse nuotando in un mare ghiacciato, sentì la terra solida tra le dita. Si tirò su, riempiendo i polmoni di aria.

    Era sdraiato con la faccia nella neve, per questo non riusciva a respirare. Gli ci volle qualche secondo per rendersi conto di trovarsi ancora nel bosco, ora illuminato dal sole che stava sorgendo. Dove il viso era rimasto schiacciato, la neve era impregnata di sangue. Ven si tirò a sedere e provò a toccarsi le guance. Una era gonfia, l’altra era martoriata da una ferita profonda che continuava a sanguinare, seppure con un leggero rivolo.

    La testa gli pulsava come dopo una sbronza e la bocca ardeva di sete. Si massaggiò le tempie alla ricerca delle idee che faticavano a rimettersi in ordine. Provò a muovere il capo e vide una scarpa entrare nel suo campo visivo. Con un brivido si rese conto che non c’era un corpo attaccato alla gamba che usciva dalla calzatura.

    Saltò in piedi e riuscì ad arretrare solo di un passo prima di inciampare e cadere. Sotto le gambe, un corpo senza testa. Rotolò da parte e si rialzò, per poi pietrificarsi davanti allo spettacolo che lo accolse.

    I cadaveri fatti a pezzi arrossavano di sangue la neve. Un soldato era su un ramo, piegato sulla schiena come un lenzuolo steso ad asciugare. Un altro era seduto appoggiato al tronco, con lo stomaco sventrato da solchi lasciati da grossi artigli.

    Devo tornare da Lahra, si disse. Si stava facendo giorno e non voleva che lei si svegliasse senza trovarlo accanto. Ma prima doveva accertarsi che il plotone di uomini non fosse più un pericolo.

    Si costrinse a guardare i resti dei soldati. Era stato lui a compiere un simile scempio. Impossibile capire quanti uomini avesse soppresso e comunque non ricordava quanti militari che lo avessero circondato. Cercò il corpo del comandante, l’unico armato di frusta, senza riuscire a identificarlo. Era davanti a lui quando si era abbandonato al potere: non poteva essere fuggito.

    – Devo tornare da Lahra – ripeté, stavolta parlando a voce alta.

    Raccolse la daga d’argento. La pulì con la neve. Si concentrò, pensando al rifugio. Ottenne solo un giramento di testa. Aveva ancora i sensi troppo annebbiati, non sarebbe riuscito a traslarsi facilmente. Meglio non insistere, rischiava di riapparire chissà dove.

    Non gli restava che affidarsi alle gambe. Si allontanò in fretta, quasi correndo, per mettere al più presto la maggiore distanza possibile tra lui e l’inferno di corpi. Si rese conto di non sapere dove si stesse muovendo. Osservò la posizione del sole, poi riprese la corsa in direzione sud-ovest.

    Quando fu nelle vicinanze del rifugio, era ormai giorno. Decise di fermarsi per riprendere fiato. Gli parve si sentire un rumore alle sue spalle e trattenne il rantolo nel petto. Si voltò alla ricerca di una qualsiasi ombra. Riprese a respirare quando vide un animale indefinito che spariva tra le ombre.

    Raggiunse a passo svelto il rifugio e si precipitò dentro. Trovò le coperte, ma non Lahra. Il comandante… è arrivato prima di me.

    Una mano gli afferrò i capelli e tirò indietro, mettendo la gola a disposizione della lama dorata. Durò un attimo, poi la presa si allentò.

    – Sei tu, dannazione!

    Ven si voltò verso Lahra. Era furiosa.

    – Dove sei stato? – fece lei, poi gli vide il viso. – Cosa ti è successo?

    Le sorrise. Stava bene.

    – Aspetta – lo interruppe lei. – Sei fradicio, meglio accendere il fuoco.

    – Forse non è prudente – la ammonì.

    Lei continuò a graffiare la pietra focaia sulla legna. – Melis non è qui.

    – Come lo sai?

    Le scintille fecero presa. Una fiammella fumeggiò sui rametti e iniziò a spandersi. Lahra spinse Ven sulle spalle per farlo sedere accanto al fuoco. Gli tolse il mantello, poi andò a frugare nella bisaccia. Tornò con un vasetto di unguento.

    – Allora? – le chiese, mentre lei spalmava l’olio sul taglio.

    – Mentre non c’eri mi sono messa in meditazione profonda. Melis è scappato sul Picco del sole, come pensavamo, ma abbiamo sbagliato il versante. Credo sia vicino alla Torre della vedetta, se non proprio al suo interno. Adesso dimmi tu chi ti ha ridotto così.

    – C’è qualcun altro che cerca Melis – rispose Ven. Le raccontò dell’incontro con il comandante.

    – Hai detto che aveva una frusta? – chiese Lahra al termine del racconto.

    – Sì, e quegli uomini erano ben addestrati.

    – Le fruste di

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