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About this ebook

Valentina, una ragazza di quindici anni e suo padre, arrivati da pochi mesi direttamente dal Sud Italia in un paesino tra le Alpi del Nord, sono alle prese con una serie di difficoltà legate al trasloco, alla solitudine, alle incomprensioni e al dolore. Entrambi in lutto per la perdita prematura di una donna che è stata madre per l’una e moglie per l’altro, si ritrovano a fare i conti con un rapporto a due per il quale non sono pronti e all’interno del quale ognuno custodisce i propri segreti ed elabora, soffrendo, le proprie bugie. A sconvolgere la monotonia della vita di paese e i difficili equilibri familiari arriva Christian, un uomo dal passato misterioso, affascinante, ultimo di una tribù estinta di indiani d’America, in fuga da qualcosa che sembra precludergli la possibilità di stringere contatti con altri esseri umani. Tra Christian, di dieci anni più grande e Valentina, alle prese con i turbamenti della propria adolescenza, scatta un’alchimia irresistibile che li porterà ad essere,incredibilmente, prima amici e poi complici, fino all’incredibile finale.
LanguageItaliano
PublisherAbel Books
Release dateFeb 6, 2016
ISBN9788867521685
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    Ewas - Annapaola prestia

    Annapaola Prestia

    EWAS

    AbelBooks

    In copertina foto Piccola Donna di Manuela Morgia

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 AbelBooks

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    AbelBooks – Massimo Lerose editore

    via Leonardo Da Vinci Pal. CEEPLA snc

    04019 Terracina (Latina)

    ISBN 9788867521685

    Al mio verde paese, agli anni migliori trascorsi in compagnia di amici dal cuore grande. Non mi sono mai sentita tanto a casa come qui con voi.

    A Susy, che aveva promesso di leggermi sempre.

    A mio padre: questo scrivevo, durante le lunghe ore di ospedale.

    Ecco, adesso puoi sbirciare…

    Giovedì 20/12/2012

    Ore 23:08

    La nebbia sembra aver avviluppato la città. Mi alzo dal divano e scosto le tende cercando di guardare fuori: nient’altro che un grigio sporcato di bianco, punteggiato qua e là da lucine intermittenti inghiottite dall’ovatta. A quanto pare, la nebbia ha deciso di fermare anche il consumismo del Natale che avanza.

    - Vado di là… - Dico brevemente a mio marito Matteo, che annuisce senza staccare gli occhi dallo schermo piatto a 40 pollici del nostro televisore. Non ho bisogno di spiegare, né di giustificarmi; è da due settimane ormai che il nervosismo non mi abbandona mai, né durante le mie interminabili giornate di lavoro né, più tardi, a notte fonda, quando le poche ore di sonno confuso ed agitato mi accelerano il respiro strozzandomi le urla in gola.

    - Manca meno di un’ora alla fine del mondo! – Dichiara compiaciuto il conduttore del programma televisivo interamente dedicato alla profezia Maya che sta riempiendo i giornali di tutto il pianeta da almeno due mesi a questa parte. Non riesco a reprimere un brivido che affiora sulla superficie della mia pelle, mentre la telecamera inquadra l’ultimo branco di idioti che ha saggiamente deciso di riparare in un paesino di montagna ed ora festeggia a suon di alcolici e musica da quattro soldi, scrutando il cielo di una notte senza stelle.

    Socchiudo la porta della stanza che, negli anni, ho battezzato biblioteca e mi accoccolo sul divano a luce spenta. Melina, la mia gatta arancione, evidentemente disturbata per un attimo dal movimento che il mio peso ha prodotto accanto a lei, borbotta sommessamente prima di rigirarsi a ronfare sulla pancia. Affondo le dita nel suo pelo soffice e colorato, spruzzato di bianco a strisce marroni e cerco di calmarmi, assorbendo, attraverso le mie estremità, il tranquillizzante alzarsi ed abbassarsi della sua piccola gabbia toracica. Ma non resisto a rimanere seduta troppo a lungo: l’orologio fosforescente brilla nella semi oscurità: sono da poco passate le 23. Faccio mentalmente un conto, un’operazione che compio ormai da anni, in qualsiasi momento della giornata, qualunque cosa mi stia impegnando in quel preciso istante non ha importanza. 23 meno 7 fa 16.

    Non è ancora iniziata.

    È buffo, penso riaccomodandomi sul divano: ai Maya, grandi esploratori ed astronomi precisissimi dovevano essere comunque sfuggiti i misteri dell’orologio cosmico. La fine del mondo sarebbe dovuta avvenire a mezzanotte, ma poiché la notte abbraccia la terra in momenti diversi a seconda dei luoghi, così anche la devastazione dell’Apocalisse avrebbe dovuto colpire il mondo seguendo le regole del fuso orario. Per un momento mi immagino a bordo di un aereo supersonico, in fuga dalla distruzione, in senso contrario al cataclisma: con addosso gli occhiali dei primi avieri ed un foulard colorato attorno al collo, potrei stringere la cloche del timone contro di me e riuscire a precederlo, andando indietro nel tempo, fuso orario dopo fuso orario, potrei riuscire a farla franca?

    Sorrido di un sorriso amaro: mi sto nuovamente perdendo nei miei pensieri e, intanto l’orologio, crudele, continua ad avanzare. Mi sollevo dal divano, facendo l’ultima carezza a Melina e mi avvicino alla scrivania sotto alla quale, anche a luce spenta, so che spunta il pomello azzurro del mio cassetto delle carte. Il cassetto delle carte è una sorta di paese delle meraviglie in miniatura, non è semplicemente un contenitore in legno che straripa di documenti, lastre di antiche visite mediche, appuntamenti non mantenuti, appunti di romanzi che sono rimasti poco più che pensieri, pezzi di giocattoli rotti, vecchie pile ormai corrose dall’acido, piccoli elettrodomestici che la modernità e la rivoluzione digitale hanno reso ormai inutili ed inutilizzabili e matite spuntate. Il cassetto delle carte è un riassunto della mia vita: lui e questa vecchia scrivania tarlata sono il mio bagaglio esistenziale, sono tutto ciò che, in decenni di traslochi, spostamenti e rivoluzioni, ho sempre portato con me, sono la struttura che tiene assieme ciò che io sono, l’ossatura della mia memoria. Nessuno mette le mani in questo cassetto tranne me; a volte passano degli anni dalla mia ultima visita, magari capita che niente di nuovo vi entri o niente di troppo malandato vi esca anche per parecchi mesi ma il cassetto con il suo fedele pomello di un azzurro laccato ormai consumato e scrostato sulla punta, rimane in vigile attesa, come un amico fidato dalla bocca chiusa.

    Lo sfioro con l’indice, quindi afferro il pomello con due dita e lo sento cedere, senza alcuna difficoltà. È la notte giusta, penso, per rivelare finalmente qualche segreto, anche il mio vecchio amico sembra stanco di rimanere perennemente in silenzio.

    Dò una rapida occhiata alle mie spalle ma non percepisco nulla, al di là del bagliore azzurrognolo della luce da corridoio che abbiamo comprato, qualche mese fa, per diminuire gli incidenti domestici notturni in cui sia io che Matteo continuavamo ad incappare a causa dell’oscurità.

    - Avrete il corridoio che conduce al bagno più luminoso della cabina di un aereo! - Ci aveva assicurato il commesso per giustificare il prezzo assurdo appena richiestoci. Sorrido, scrollando le spalle: più che una cabina di aereo, il mio corridoio assomiglia al vicolo di una vecchia cittadina infestata dai fantasmi, tutto buio e bagliori azzurrini che disegnano ombre e profili di oggetti che al mattino riconosco e che invece, alla sera, si trasformano in masse informi dalla dubbia identità ma va bene così. Ho sempre pensato che la poesia si nascondesse soprattutto nel mistero.

    Rassicurata dall’assenza di movimenti sospetti, affondo la destra nel cassetto e passo in rassegna tattile le buste con le lettere d’amore dei miei primi fidanzati, il diario segreto della mia quinta elementare con quel ridicolo lucchetto che i miei compagni di scuola avevano forzato al primo colpo con una semplice graffetta, i pezzi in plastica di una sorpresa di chissà quale uovo di Pasqua e, finalmente, trovo quello che sto cercando e lo estraggo con cura, avvicinandolo al mio volto.

    Mi porto accanto alla porta finestra che dà sul balcone e mi ci appoggio contro con una spalla: ho bisogno del freddo del vetro, sul quale si sta formando una specie di condensa appiccicosa e viscida, per avere il coraggio di rivoltarmi questa cosa tra le mani.

    - È soltanto una foto… - Mi dico sottovoce, cercando di riempirmi i polmoni di aria – Nient’altro che una vecchia fotografia.

    La notte, fuori, è fonda e lattiginosa ma non ho bisogno di luce per vedere ciò che la mia mente conosce a memoria: c’è una ragazza, in quella fotografia, se ne sta sdraiata a pancia in su con le braccia incrociate sotto alla testa, i capelli scuri raccolti in due buffi codini di cui uno praticamente sciolto le si spargono attorno al capo come una specie di aureola, una ciocca nera le attraversa la fronte e le copre parzialmente un occhio, come la benda di un pirata dei cartoni animati e le sue labbra sono increspate in un inizio di sorriso misterioso ed ondivago, che sembra quasi guizzarle sul viso come la luce di una fiammella. Il mento della ragazza, magra come uno spillo, punta dritto al cielo così come i suoi occhi, socchiusi, sotto al quale, forse, stanno iniziando a formarsi dei sogni; a causa della posizione delle braccia, la maglietta leggera, a maniche corte, di un rosa confetto come quello dei vestiti che indossano le Barbie, si è sollevata, lasciando intravedere l’ombelico ed un addome piatto e teso, come quello di un ghepardo affamato e scattante.

    Scuoto la testa e faccio scorrere le dita lungo il bordo della fotografia: chi è questa ragazza, nella quale non mi riconosco più? C’è stato un tempo, mi chiedo, durante il quale lei era viva ed io non esistevo ancora? E quando è avvenuta la trasformazione, quando è iniziato il cambiamento e la realtà ha fatto breccia nella sua vita, cancellando i suoi sogni, soffocando le sue attese, quando è capitato che io le abbia rubato i giorni ed i respiri, tagliandole i capelli, modificandole gli abiti, fino a farla sparire dalla mia esistenza? Appoggio la fronte al vetro e colgo, per qualche secondo appena, quello che ora è il mio volto: all’apparenza non è poi così diverso dal suo, è più ovale, meno spigoloso, gli occhi grandi adesso sono accompagnati dalle prime linee sottili che si ispessiscono quando mi concentro su un problema di difficile soluzione e altre linee stanno comparendo, agli angoli delle labbra, il mento è meno appuntito, la fronte si spiana con meno facilità. Ma questa, mi ripeto, è solo apparenza; la sostanza è tutta un’altra cosa. Da quell’estate, dei miei quindici anni, a questo inverno dei miei 33, mi sembra di aver attraversato centinaia di vite e mi sento improvvisamente stanca. Forse la fine del mondo è un bene: un lampo di luce a mezzanotte, tutto qui, nessuna gioia, nessun dolore, semplicemente niente di niente. I saggi Maya si sono estinti, portandosi i loro segreti nella tomba, lasciandoci qui alle prese con questa cosa, la vita, che non sappiamo né comprendere né governare e che, quando finisce, ci lascia il più delle volte con l’amaro in bocca. Ripenso a mia madre, a quando la vita l’ha abbandonata una notte di tanti anni fa, alla domanda che le è rimasta appiccicata agli occhi rivoltati verso l’alto, incollata sulla sua fronte sudata, che né la marea di rosso che l’ha quasi sommersa, né i miei disperati tentativi per tenerla stretta a me e a questo mondo, sono riusciti a cancellarle dalla faccia: perché?

    Già, perché? Perché? Perché? Perché?

    La domanda mi rimbomba nel cervello e le immagini mi scorrono rapide sotto alle palpebre: è impossibile tentare di non vedere, la mia memoria infantile, invece di cancellarli, ha impresso questi orribili ricordi a caldo direttamente sul mio cuore e la mia mente precipita in un circolo vizioso dal quale, da piccola, riuscivo ad uscire con un unico gesto doloroso. Sollevo freneticamente la manica del mio pigiama blu scuro, accartocciando, senza vederli, i buffi pinguini che lo decorano da destra a sinistra, avvicino rapidamente pollice ed indice puntando le unghie come se le volessi unire in una sorta di improbabile preghiera e le dirigo verso il mio avambraccio. La visione della mia pelle lattea, quasi rilucente in questa notte ovattata, blocca il pizzicotto prima che questo si possa abbattere, con furia, sulla carne tornita e morbida delle mie braccia e, trasformandolo in un massaggio, mi permette di tirare brevemente il fiato. Pericolo scampato. Ripenso a quando ero adolescente, a come avevo ridotto i miei avambracci a furia di pizzicotti dolorosi, avevo la peste dei Promessi Sposi, mi piaceva pensare, quella che aveva colpito, senza distinzione, la santa Lucia e il peccatore Don Rodrigo, quella fatta di bubboni lividi puntinati di rosso da nascondere al resto del mondo, che nessun altro poteva vedere né, tantomeno, immaginare. Erano il glorioso marchio del mio peccato, della mia colpa e della mia redenzione attraverso la sofferenza. Io non sono degna… mi ripetevo, pensando a mia madre, a quella sua ultima notte, al panico che mi aveva assalita: forse lei mi aveva perdonato, così avrebbe detto il prete ma io non ero in grado di perdonare me stessa per la mia incapacità. Infilo, per precauzione, la mano destra sotto al sedere e, in questa notte di ricordi sul ciglio della fine del mondo, preferisco non rischiare ed evitare di cedere alla tentazione: il nostro cervello funziona per associazioni, legami, archi voltaici, fili elettrici che si innescano quando veniamo a contatto con uno stimolo; il rapporto perverso che lega piacere e dolore, vittima e carnefice, sofferenza e redenzione è qualcosa che i miei neuroni non possono aver dimenticato e lì dove mio marito ama affondare i suoi denti quando ci amiamo, sotto strati di pelle di burro e ciccetta, forse potrebbe esserci ancora annidata la rabbia e la distruzione.

    Serro gli occhi, deglutisco e mi prendo qualche secondo, come insegno a fare in studio, ai miei pazienti: Segua la mia voce, ascolti il suo respiro, si concentri sui movimenti del suo diaframma…E uno…Inspiri…E due…Espiri e soffi fuori tutto… e tento di fare mie queste preziose massime orientali. Se si potesse, con un respiro, soffiare davvero fuori tutto, rabbia, angoscia, disperazione, se bastasse soffiare via il nostro passato e semplicemente scrivere in una nuova pagina bianca l’inizio del nostro futuro, credo che non avrei più pazienti e dovrei cercarmi un nuovo lavoro.

    Non appena una parvenza di calma mi scivola dentro, giro la fotografia e, come ogni volta in cui ripenso a mia madre, soffoco un singhiozzo prima che si porti dietro anche una lacrima: non è per lei, questa specie di veglia, non più.

    Una mano maschile ha tracciato dei numeri, una data, sul retro della mia fotografia, una data e un’ora, con una forza tale che le cifre si sono impresse, al contrario, su parte del mio viso e del collo e anche senza luce, semplicemente accarezzando al buio, come i ciechi, riconosco ogni numero e lo metto nell’ordine giusto. 12/20/12 h 06:05 pm. Non c’è scritto altro dietro alla fotografia, né c’è bisogno di ulteriori parole. Questa fotografia viaggia con me e con il mio cassetto delle carte da 17 anni esatti; per mesi l’ho nascosta, seppellita sotto un mucchio di schifezze, ho tentato di dimenticarla, ho sperato, invano, che ne arrivasse un’altra con nuove scritte, magari altre cifre, meglio ancora, senza cifre, solo parole, ho finito per odiare i numeri, sono diventata allergica alle date. Quando la ricevetti mi ci volle del tempo per comprendere che cosa significasse, quale fosse il senso esatto di questo rompicapo che mi era stato recapitato per posta: dalla sera del 15 agosto 1994 non avevo più sentito parlare di Christian, attorno a lui si era creato una specie di silenzio becero, un misto di omertà e di crudele invidia che non ero riuscita a lacerare in nessuna maniera. Mio padre mi aveva proibito anche solo di nominarlo ed aveva ordinato a Giuseppina, la cameriera che si occupava di me e della casa quando lui era via, di fare altrettanto. In paese le bocche erano state sigillate: nessuno avrebbe parlato con nessuno, tanto meno con me, l’ultima arrivata, la ragazzina siciliana, l’estranea del Sud in un paese incastrato tra le Alpi, la figlia del direttore generale di una nota fabbrica Italiana, che, dalla bassa, come gli abitanti del posto nominavano ciò che era al di sotto del fiume Po', aveva deciso di mettere radici in zona. Quando eravamo arrivati io e mio padre, in paese, dicevano i vecchi, erano iniziate tutte le sventure: un inverno praticamente senza fine e senza neve durante il quale il termometro aveva toccato spesso i quindici gradi sotto lo zero, un’estate afosa e senza pioggia, un’invasione di insetti rossi e repellenti che si erano divorati il già scarso raccolto dei campi e l’arrivo di Christian, il diavolo in persona, che aveva squassato l’ordine millenario ed immutabile della montagna, fatto di mucche da mungere e di uova da raccogliere, turbando i sogni delle donne anziane e delle ragazzine in età da marito. Io e Christian eravamo stati avvistati addirittura insieme, durante quella maledetta sera, naturale che nessuno avesse voglia di parlare con me e che, anzi, di più, godesse un sacco a bisbigliare dietro alle mie spalle, pugnalandomi con un finto sorrisetto innocente ogni volta che mi voltavo, di scatto, cercando di mettere a tacere i chiacchiericci sussurrati a mezza voce.

    Non avevo più avuto alcuna notizia di Christian per oltre un anno, fino all’arrivo di quella foto, in busta chiusa, con quella data e quell’orario, scritti sicuramente da lui, sul retro. Ricordavo perfettamente il giorno limpido, quel pomeriggio accecante durante il quale me l’aveva scattata, un giorno di agosto del 1994, uno dei giorni più belli della mia vita; che cosa avesse a che fare tutto questo con il 20 dicembre 2012, che, per me e la mia mentalità da ragazzina, rappresentava un giorno futuro così lontano nel tempo da essere quasi inimmaginabile, non lo compresi per parecchio. Mi arrabbiai moltissimo: era passato un anno, un anno intero senza ricevere da lui niente, nemmeno una cartolina e adesso, a 12 mesi e più di distanza, tutto quello che ricevevo, da un posto nel Texas di nome Huntsville non era nient’altro che una mia fotografia e delle cifre che per me non avevano alcun significato. Gettai con rabbia la fotografia nel cassetto e lasciai che, lentamente, anno dopo anno, il tempo e la quotidianità facessero il loro lavoro, seppellendola sotto altre carte e foto e diari e ricordi di giornate sempre uguali che avrei preferito far scivolare nel dimenticatoio della mia vita domestica. Gli anni ed il divieto, ebbero su di me l’effetto sperato: una damnatio memoriae completa; se, per puro caso, mi capitava di ripensare a Christian, a stento riuscivo a ricordarne il volto, il bagliore riflesso dei suoi capelli corvini o il suono che aveva la sua voce. Lui aveva deciso di cancellarmi, di liberarsi per sempre di me rispedendo al mittente la mia fotografia, quella che aveva giurato di tenere con sé e così avrei fatto io, ripagandolo con la stessa moneta. Parecchia polvere si accumulò sul mio cuore e dentro al cassetto, facendo sparire quella foto e quella ragazza che, per un'estate aveva danzato al chiarore della luna sulle note di una musica indiana, tra le pieghe della storia di tutti i giorni. Fino a quando, dieci anni dopo, non mi capitò di leggere un vecchio articolo sul pensionamento di Jim Willet, soprannominato il boia di Huntsville, direttore del penitenziario texano con il braccio della morte più attivo degli Stati Uniti d’America, 89 esecuzioni durante la sua più che onorevole carriera al servizio della giustizia del Texas e una sequela di incubi notturni e sensi di colpa che non lo aveva mai realmente abbandonato. Capii in un battibaleno il significato di quelle cifre scritte a penna dietro alla mia fotografia, di quell’attimo segnato nello spazio e nel tempo, di quel 20 dicembre 2012 che stava inesorabilmente avanzando, un punto fisso nell’universo come, del resto, tutti i secondi che lo avevano preceduto e quelli che, immancabilmente, lo avrebbero seguito, qualcosa di inevitabile e da cui nessuno, nemmeno il mitico Doctor Who con la sua astronave a forma di cabina blu a spasso per la galassia, sarebbe stato capace di scappare.

    Mi siedo meglio di fronte alla scrivania ed accendo il mio portatile, schermandomi gli occhi con una mano: mi ci vuole un po’ per abituarmi al ronzio prodotto dai circuiti che si attivano; trattengo il respiro e rimango, per un attimo, in attesa ma non sento altro che il rumore regolare di Melina, che fa le fusa anche mentre dorme, sovrapposto agli schiamazzi televisivi per l’imminente fine del mondo, in arrivo dal mio soggiorno.

    Clicco, tra i miei preferiti un sito internet senza nome, decorato con una stella bianca in campo rosso, lo apro tutti i giorni, da quando ne ho scoperto l’esistenza: nell’era dell’informatica e della globalizzazione nessun posto è lontano, nemmeno il braccio della morte di Huntsville, Texas. Scorro i nomi ordinati in una tabella di nove colonne per otto righe, scritti in caratteri piuttosto piccoli e gli occhi mi bruciano per lo sforzo, ma non ho alcuna intenzione di accendere la luce: stanotte deve rimanere un segreto, perfino per Matteo.

    Lo trovo subito, perché ormai so dove cercare: tra l’elenco delle esecuzioni programmate, ordinate per data ed ora, il suo nome figura, in caratteri neri su sfondo chiaro, prima il cognome e poi il nome, come fosse l’elenco scolastico, Norris Christian, presente! Mi verrebbe quasi da aggiungere. Generalità, iniziali e dati dei suoi genitori, data di nascita, etnia, codice assegnato al suo caso, data di ingresso nel braccio della morte e, prima tra tutte, nell’ordine, la data della sua uscita dallo stesso, uscita da Huntsville e uscita dalla vita, poco prima della fine del mondo prevista dagli odiosi Maya, il 20 dicembre del 2012. Mi accorgo che il respiro mi diventa affannoso: non ci sono aggiornamenti rispetto a ieri, il nome di Christian, il giorno del suo compleanno, tutto è ancora lì, è il primo della lista; ci sono altri sei nomi che lo seguono ma se i Maya saranno clementi, forse il braccio della morte di Huntsville si svuoterà tutto in un colpo, assieme a quello che rimane di questo mondo senza giustizia. Muovo rapidamente le dita sul touchpad del mio portatile e attivo il collegamento evidenziato in rosso che recita Offender Information. Più che al servizio della giustizia, come declama lo slogan del sito del penitenziario, mi sembra che tutta questa meticolosità sia al servizio del desiderio macabro della gente comune di volerne sapere di più. Ed ecco che, dopo meno di un secondo, l’Adsl mi proietta per l’ennesima volta nell’orrore senza fondo della cronaca nera: c’è l’immagine di Christian, il suo viso liscio da angelo venticinquenne all’epoca dei fatti, di fronte e di profilo, com’è giusto che sia nelle foto segnaletiche della polizia, i suoi precedenti, piccoli reati, qualche furtarello, possesso di sostanze stupefacenti e poi, a grandi lettere, il riassunto del caso, in poche righe, il motivo di questo omicidio ordinato dallo stato alle 06:05 pm, ora locale.

    Mando la pagina in icona, non resisto a rileggere quelle parole, sento che mi sta venendo la nausea e sono costretta a sorreggermi la fronte con una mano per evitare di sbatterla contro la tastiera.

    - Christian… - sussurro a bassa voce; - Christian… - ripeto poco dopo, trattenendo il respiro. E, come quando avevo 15 anni, mi volto verso la finestra, ad occhi chiusi e prego, intensamente, con tutto l’ardore che solo il primo amore sa infondere, che lui si materializzi proprio lì, dietro al vetro, che mi tiri i sassolini dalla strada per attirare la mia attenzione.

    - Christian… - Dico ancora una volta, come se il suo nome potesse essere una specie di parola magica declinata nella lingua morta della sua tribù, che sua madre gli aveva insegnato quando era ancora un ragazzo. Sento in gola il sapore salato delle mie lacrime, lacrime di rabbia nei suoi confronti, lacrime di disgusto nei miei. –Non posso fare altro, Christian, perdonami… - Singhiozzo ad occhi chiusi, cercando di convincermi delle mie stesse parole. – Anche io ho fatto un patto con ewas – aggiungo, asciugandomi malamente una lacrima –come tu avevi fatto il tuo…

    Scuoto la testa e mi allontano, con tutta la sedia, dalla scrivania; quello che sto facendo non ha alcun senso, non c’è nessuno ad ascoltarmi al di là dello schermo. Lancio una rapida occhiata all’orologio che continua, indifferente, a mandare avanti i numeri sul proprio quadrante, uccidendo un secondo dopo l’altro. Tra poco qui sarà mezzanotte e la mia paura più grande non è l’improbabile fine del mondo, quanto piuttosto la probabilissima continuazione dello stesso. Dopo la mezzanotte i minuti seguiteranno a scorrere e con essi le ore e i giorni e i mesi e le stagioni e non finirà assolutamente niente e mi sentirò per sempre come quei criceti che desideravo tanto quando ero bambina, imprigionati nelle loro gabbiette, che corrono continuamente dentro la ruota, sperando che tutto questo affannarsi li porti veramente da qualche parte.

    - Il criceto non è un animale da compagnia, è solo un topo, un surci chiù grassu! E i surci

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