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Ricomincio da Sydney
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Ricomincio da Sydney

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About this ebook

Nel 2009 decisi di mollare tutto e partire per l' Australia. Un'avventura alla ricerca di me stessa attraverso la scoperta di un paese straordinario. Sono scappata dal mio paese, lasciandomi alle spalle un lavoro da precaria e una vita che non mi soddisfaceva più. Ho riposto nell'Australia, una terra che non conoscevo, tutte le speranze per una vita migliore. Ho conosciuto un popolo fiero, molto organizzato, molto spiritoso e con una grande voglia di vivere. Mi sono rimessa in gioco, ho ricominciato da zero, per riscoprirmi e incominciare seriamente a volermi bene. E a un certo punto ho capito che era ora di tornare a casa.

Questo libro racconta un punto di vista personale su uno dei problemi più sentiti nel nostro paese: la voglia di riscatto dei giovani che decidono di mollare l'Italia e cercare fortuna altrove.
LanguageItaliano
Release dateDec 15, 2015
ISBN9788867515059
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    Book preview

    Ricomincio da Sydney - Angelica Giambelluca

    Bibliografia

    OIT20Enfermera Julien Buratto 2 0 2015-01-26T10:45:00Z 2015-11-25T09:20:00Z 2015-11-25T09:20:00Z 214 56275 320774 Clinica Baviera 2673 752 376297 15.00

    Prima di iniziare…

    Caro Lettore,

    Grazie prima di tutto per aver deciso di leggere la mia storia.

    Spero che queste pagine ti divertano, ti informino e ti facciano riflettere su cosa significhi partire per vivere e provare a costruirsi una nuova esistenza in un altro paese.

    Non so come definire questa opera. Racconto, diario, resoconto, romanzo? E’ un po’ tutto questo, ma è soprattutto la mia testimonianza su quello che è stato un periodo fondamentale della mia vita.

    Tutto quello che leggerai è frutto della mia personale esperienza e le opinioni che troverai sono solo le mie, basate su quello che ho vissuto io. Là fuori ci sono di certo persone che hanno avuto esperienze diverse e hanno pertanto diversi punti di vista dal mio.

    Ora basta con le chiacchiere.

    Buona Lettura!

    OIT20Enfermera Julien Buratto 2 0 2015-01-26T10:45:00Z 2015-11-25T09:20:00Z 2015-11-25T09:20:00Z 214 56275 320774 Clinica Baviera 2673 752 376297 15.00

    I

    Tempo di partire

    Era aprile del 2009. Quella pianta bellissima, di cui mi sfugge ancora oggi il nome, sbucava dal giardino di fronte casa mia tutta fiorita, il sole splendeva forte e a Genova faceva caldo.

    Anche quella mattina, come le altre, mi ero alzata con molta calma verso le otto e mezza e mi ero fatta il mio solito mezzo litro di caffè nell’attesa che il mio vecchio macinino mi mostrasse il desktop.

    Poi avevo iniziato il mio solito lavoro di cacciatrice di notizie, che per il resto dell’universo si chiama fare la giornalista. Freelance: cercavo notizie, chiamavo le mie fonti, che poi erano carissimi amici che a chiamarli fonti mi viene quasi da ridere.

    Dopo il solito giro di telefonate, mi ero messa a scrivere la solita e-mail ai caporedattori con le proposte per gli articoli nella speranza che me ne facessero scrivere almeno uno, perché avevo le bollette da pagare.

    Fuori l’aria era limpida e quella pianta di cui non so il nome mi fissava con i suoi boccioli bianchi, a cascata, pendenti dal muro di cinta che divideva il palazzetto stile vecchia Genova in cui vivevo io da un villone pazzesco di cui riuscivo a malapena a intravedere il tetto. Sembrava prendermi in giro quella pianta, lei che aveva la fortuna di vivere al di là di quel muro mentre io me ne stavo nella casetta che perdeva pezzi ogni giorno.

    Mi rimisi a scrivere sul mio macinino che ogni due per tre mi ricordava che stavo consumando un po’ troppo, da qualche parte nella sua memoria scassata, una roba chiamata Cpu di cui ignoro a tutt’oggi il significato. Ma doveva essere qualcosa di importante perché di lì a poco il mio macinino avrebbe tirato gli ultimi respiri.

    Mi calai di nuovo nei panni della freelance d’assalto. D’assalto non lo so quanto, ultimamente assalivo le panetterie per la fame e il nervoso, ma comunque.

    Non era una vita facile, quella del freelance. Questo termine evocava qualcosa di fantastico, e in effetti nei paesi anglosassoni fare il giornalista freelance era una scelta e pure ben pagata. Da noi le cose erano un po’ diverse. Freelance, almeno per quello che mi riguardava, era sinonimo di precario, senza un contratto fisso. E non è che lo sceglievi, quello c’era. Perché l’ipotesi dell’assunzione, almeno per me, era un sogno.

    Finito di scrivere le ultime e-mail, il mio cellulare squillò. Era il mio capo, non un caporedattore, ma il capo del mio secondo lavoro che dovevo fare per sbarcare il lunario: l’ufficio stampa. Perché con quello che guadagnavo da freelance ci pagavo giusto le bollette, il mangiare e l’affitto lo pagavo grazie all’ufficio stampa.

    Ciao Angelica mi salutò con la sua voce baritonale Mister T.

    Ciao, come va? gli risposi in modo distratto, con lo sguardo fisso sul macinino che ancora si lamentava della povera Cpu.

    Io bene grazie. Tu stai bene?. Il baritono divenne un soprano e nella mia testa cominciò a accendersi qualche lampadina.

    Si…bene. Perché?. Glielo chiesi mentre la riposta cominciava a manifestarsi nella testa.

    Perché ci sarebbe da organizzare una conferenza stampa oggi…ricordi?.

    Ringraziai che Mister T non potesse vedermi in quel momento, la mia faccia esprimeva il contrario di quello che mi accingevo a dirgli: Ma certo che mi ricordo! Stavo giusto contattando i giornalisti per ricordare loro l’importante appuntamento di oggi!. Quale appuntamento? Angelica pensa, pensa, pensa.

    Mister T. si convinse, o fece finta di convincersene. Bene, a tra poco allora.

    Compresi in un nanosecondo che l’appuntamento era un importante incontro con i giornalisti che stavamo organizzando da mesi, ma negli ultimi tempi mi ero talmente fusa che quasi me ne stavo dimenticando. Se non mi avesse chiamato, sarei rimasta davanti al mio macinino e probabilmente sarebbe scoppiata la Terza Guerra Mondiale.

    Ingurgitai il resto del caffè, corsi a farmi una doccia, mi cambiai e uscii di casa. Tutto in cinque minuti. Saltai sul primo bus verso il centro e, stretta tra una vecchietta con le borse della spesa e la cartella di un ragazzino che doveva essere un secchione perché sarà pesata venti chili minimo, mi misi al telefono a cacciare i colleghi per ricordare loro dell’importante appuntamento del pomeriggio, con la speranza che almeno un disgraziato avesse avuto voglia di presentarsi.

    Questa scenetta si ripeteva da mesi, più o meno quasi ogni giorno. Articoli al mattino, ufficio stampa al pomeriggio, perché Mister T. aveva tante cose da comunicare all’universo ed erano di importanza vitale per il bene dell’umanità.

    L’incontro con i giornalisti andò bene, la giornata fu estenuante come al solito.

    Ma, diversamente dal solito, quel giorno accadde qualcosa di diverso.

    Successe quel pomeriggio, mentre rientravo a casa.

    Ero seduta sul 44 che dal centro mi avrebbe portato a San Martino, il quartiere dove abitavo.

    Il bus era vuoto, il sole ancora caldo. Mi rilassai sui sedili e iniziai a riflettere seriamente su dove stessi andando a parare. Dove stavo andando? A casa, certo. Ma intendevo in senso più ampio.

    Cosa volevo fare della mia vita?

    Da anni facevo la giornalista precaria con la speranza di poter essere assunta, prima o poi. Avevo coltivato quel sogno nel mio cassetto segreto, avevo macinato letteralmente chilometri a caccia dell’articolo sensazionale o del servizio esclusivo per dimostrare il mio valore. Ma da qualche tempo cominciavo a dubitare che tutto questo servisse davvero. Avevo la sgradevole sensazione di aver sbagliato qualcosa.

    Vivevo con la speranza che un giorno il caporedattore o direttore o editore si sarebbe accorto del mio talento e mi avrebbe fatto la grazia di assumermi con un contratto a tempo pieno. Un contratto tipico. E’ così bello essere tipici, alle volte.

    Erano cinque anni che aspettavo di diventare tipica. Vedevo assumere gente di ogni tipo, stagisti con esperienza pari a zero, colleghi venuti dopo di me. Mi facevo tanto nervoso ma cercavo di resistere, consapevole che prima o poi qualcosa di buono sarebbe dovuto succedere anche a me. Non funziona così? Non è vero che a furia di insistere poi qualcosa di buono deve per forza accadere? Forse, o forse a furia di dare testate finisci per scalfire il muro e farti male.

    Eleonora, carissima amica di quel periodo frastornato, cercava di tirarmi su il morale come poteva, con scarsi risultati. Ce la metteva tutta, intendiamoci, ma io cominciavo a essere stufa persino della compassione, perché per me di quello si trattava.

    Sei in gamba – non devi mollare mi diceva in una delle nostre solite aperabbuffate, non semplici apericena. Se loro non lo capiscono, non è colpa tua. Non rinunciare a te stessa insisteva con grande enfasi mentre addentava due pizzette in un colpo solo.

    E io, affogandomi nel Chardonnay, cercavo per un attimo di darle ragione, ma solo per un attimo.

    Non bastava credere in se stessi. Io ci avevo creduto e ci credevo, da cinque anni combattevo per fare in modo che qualcuno nell’olimpo del giornalismo si accorgesse di questo astro nascente dell’informazione, ma non era successo.

    E’ colpa mia invece rispondevo ad Eli. E finivo in un sorso il mio vino bianco.

    Ho sbagliato direzione, ho sbagliato lavoro, ho sbagliato tutto e via a ubriacarmi per non pensarci.

    Queste scenette negli ultimi mesi si erano susseguite frequentemente, la mia testa era alla costante ricerca del motivo del mio fallimento professionale. Era colpa mia, non poteva essere altrimenti. Me ne stavo autoconvincendo.

    Il bus si fermò poco dopo essere ripartito dalla prima fermata in corso Buenos Aires: un ragazzo correva e si sbracciava verso l’autista e questi, mosso a compassione, aveva deciso di commettere un’infrazione gravissima fermandosi poco dopo la fermata e aprendo le porte. Il ragazzo, trafelato, era salito sul mezzo e, senza la forza di parlare, aveva ringraziato con un cenno della mano il suo eroe.

    Sorrisi a quella scena, ripensando a quante volte invece io ero rimasta come una scema alla fermata perché l’autista di turno non aveva avuto la stessa compassione.

    Ripresi a pensare. E quel ragazzo tutto sudato che si era seduto due sedili davanti a me mi fece venire in mente un altro ragazzo. Il mio. Non perché sudasse, intendiamoci.

    Il fatto era che, accanto al momento professionale non particolarmente brillante, stavo vivendo la fase discendente della mia storia sentimentale. E la fase discendente stava viaggiando alla velocità della luce.

    Stavamo insieme da cinque anni e la crisi era iniziata qualche mese prima.

    Generalmente si chiama crisi del settimo anno per un motivo ben preciso, ma pensai che forse con me il momentaccio avesse voluto mostrarsi in anticipo.

    Il momentaccio mi aveva lasciato perdere per un po’, poi da qualche mese a questa parte era tornato e pareva non avesse voglia di passare.

    In quegli ultimi mesi mi ero ritrovata spesso a fissarlo, il mio ragazzo, quando lavorava nel nostro studio a casa.

    Lo fissavo per capire, ma mi sentivo immobile, vuota.

    Lo fissavo mentre dormiva, per capire con chi stessi dormendo. E anche lì mi assaliva la stessa sensazione di immobilismo e vacuità. Con chi stavo condividendo la mia vita?

    Che cos’hai? mi chiedeva ormai tutte le sere. Sentiva che qualcosa non andava, ma io non avevo il coraggio di dirgli niente. Perché non sapevo cosa dirgli esattamente. Che mi sentivo immobile? Che quando lo guardavo, sentivo solo un vuoto?

    Dov’è l’Angelica che conoscevo io? mi chiedeva sferzante. Aveva ragione, evidentemente Angelica aveva deciso di farsi un bel trip da qualche parte nell’universo e al suo posto era rimasta un’ombra che non sapeva da che parte girarsi. In quel periodo era come se la parte buona di me avesse deciso di abbandonarmi e di lasciarmi con la mia parte oscura, il diavoletto della situazione, quello che ti trascina nei guai e colora tutto di nero pessimismo.

    Scesi dal bus alla mia fermata nel ridente quartiere di San Martino. La fermata era proprio di fronte al portone dove viveva la famiglia di Fabrizio Quattrocchi, il paramilitare italiano ucciso in Iraq nel 2004. Mi ricordo ancora quando successe, avevo appena iniziato a muovermi nel mondo del giornalismo ed ero rimasta affascinata dalla calca di reporter assiepati di fronte quel portone alla ricerca di un cenno da parte dei famigliari della vittima che in realtà non avevano nessuna voglia di parlare con loro.

    Con l’immagine dei giornalisti che occupavano il quartiere, mi diressi verso casa.

    Scorsi la sua macchina, era rientrato prima di me.

    Entrai. Non era nel suo studio, nemmeno in cucina o in bagno.

    Lo trovai seduto in camera da letto. Ci fissammo per un attimo, in silenzio.

    Poi glielo dissi. Non vi riporto tutto il dialogo. Ma non ebbi il coraggio di dirgli subito che era finita. Lui non mi avrebbe creduto o non lo avrebbe accettato.

    Gli dissi che avevo bisogno di tempo.

    Lui ci credette o fece finta di crederci.

    Io mi trasferii dai miei. Ci vedemmo ancora, lui chiedeva spiegazioni, che io provai a dargli nel modo meno doloroso possibile, il tempo fece il resto, e la nostra storia, o sogno, finì.

    Da quel momento, iniziò la mia trasformazione.

    Come prima cosa, decisi che non sarei mai più entrata in quella casa a San Martino.

    Come seconda cosa, da classica donna in preda alle crisi sentimentali, scappai dal parrucchiere. Mi feci le extensions, cioè l’allungamento dei capelli con ciocche di capelli veri. Sembravo una bambola. Di lì a qualche mese me le sarei strappate con le forbici per la disperazione, ma in quel momento mi sembravano i capelli più belli del mondo.

    E dopo la trasferta dai miei e la chioma nuova, arrivò la ciliegina sulla torta. La fuga.

    Il viaggio aveva sempre fatto parte della mia vita, avevo viaggiato molto sin da piccola, avevo lavorato come tour leader e ogni qualvolta ero lontano da casa vivevo come una trasformazione, tornavo ogni volta diversa, arricchita.

    Avevo capito tutto. L’epifania della verità era giunta anche per me: dovevo andarmene. Ma non per un breve periodo, io dovevo andare a viver da un’altra parte. Letteralmente.

    Avevo poco da perdere: collaborazioni giornalistiche che avrei potuto congelare e poi riprendere successivamente. Probabilmente avrei perso il mio eventuale treno di assunzione in qualche testata. Ma era un rischio che ormai ero disposta a correre.

    Il punto era questo: avevo bisogno di ritrovarmi, perché mi ero persa. Avevo bisogno di capire quale fosse la mia direzione e l’unico modo che mi venne in mente in quel momento fu la fuga da qualche parte nel mondo. Per sopravvivere avrei dovuto fare uno sforzo immane: vivere da sola, lontana da tutto e da tutti, rimboccandomi le maniche e partire da zero, senza aiuti e senza raccomandazioni.

    E in questo ero avvantaggiata, perché se c’era una cosa di cui potevo essere certa era quella di non aver mai ricevuto raccomandazioni da nessuno in vita mia.

    Non ero un tipo tenace. Diciamo pure che non ero tra le mie fan più accanite. In prima linea a sbandierare cartelli con forza Angelica c’era mia madre come sempre, scatenata come le fan più fanatiche, seguita dietro da mio fratello che tifava in modo più pacato ma di certo non meno profondo e a ruota mio padre, secondo il quale io avrei avuto successo sempre, qualsiasi lavoro avessi svolto.

    Diciamo che, a differenza di mia madre e mio fratello che per me sognavano sempre qualcosa all’altezza delle celestiali aspettative che nutrivano nei mie confronti, mio padre vedeva un mio grandissimo successo in qualsiasi cosa avessi fatto: dalla cameriera in un baretto di Genova a 18 anni come primo lavoro fino alla giornalista. Per lui era un successo sempre e comunque.

    Io, come mia fan personale, stavo decisamente in retroguardia, direi al limite dell’uscita di sicurezza dell’ipotetica arena in cui la mia famiglia invece si sbracciava per sostenermi.

    Kofi, il mio compagno di università, cercava in tutti i modi di dissuadermi, o meglio di capire cosa mi stesse passando per la testa. Non ci riuscivo io a capirlo, figuriamoci lui.

    Dopo l’università avevamo continuato a frequentarci, di solito prendevamo un caffè o un aperitivo in uno dei baretti del centro storico. La sera in cui gli confessai la mia voglia di partire eravamo seduti al Nouvelle Vague, a due passi da San Lorenzo, a sorseggiare vino circondati dai libri.

    Ma sei sicura, Ange? – mi aveva chiesto insistentemente - No dico, è tutto a posto, io sono con te. Ma perché vuoi scappare?.

    Per lui stavo scappando. E aveva ragione.

    Era forte Kofi. Avevamo fatto l’università insieme, ma lui era sempre stato due spanne avanti a tutti e tutto. Gli avevo sempre detto che l’unico lavoro all’altezza dei suoi talenti sarebbe stato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, ma lui amava fare il musicista. Un grande talento anche nella musica, certo, ma io lo vedevo come il successore di Ban Ki-Moon. Ecco perché quando eravamo tra di noi, lo chiamavo Kofi. E a lui, sotto sotto, quel nomignolo piaceva.

    Kofi aveva ragione a farmi quella domanda così schiettamente, senza girarci troppo intorno.

    In fondo volevo mollare tutto e tutti per fare un colossale salto nel buio, trasferendomi non sapevo ancora bene dove, senza conoscere nessuno e senza nessuna certezza su ciò che mi aspettasse

    Ma non tutti erano così scettici.

    A sto punto fregatene, parti e divertiti!. Usò queste semplici parole magiche Eleonora, l’amica delle grandi abbuffate. Aveva smesso di consolarmi ed era passata a una nuova strategia: assecondare l’amica pazza. Ele era sposata da poco e, sotto sotto, un pochino bramava quella libertà che io, a differenza sua, avrei potuto prendermi: quella di mollare tutto e partire per inseguire i miei sogni.

    A me, sinceramente, non importava di dubbi e perplessità avanzati da amici e famigliari.

    Nulla di strano, in fondo: quando è il cuore a comandare, quando desideri ardentemente qualcosa di estremo, come un cambiamento radicale nella tua vita, allora non c’è niente che ti possa fermare. Perché quel cambiamento è la tua salvezza.

    Nulla mi fermò, in effetti. Nemmeno lo sguardo di mia madre, quello sguardo mesto che si incollò al mio fin dal momento in cui le dissi che volevo andarmene per….per non so quanto tempo e in un luogo di cui ancora non sapevo il nome.

    Me la ricordo ancora, quando avevo otto anni e lei mi diceva sempre, tutti i giorni, di non andare a prendere la focaccia in quella drogheria a una decina di metri da scuola, perché c’era un giardinetto un po’ nascosto che la divideva dalla strada ed era poco frequentata. E io non c’ero mai andata, anche se avrei voluto perché ci andavano tutti e mi sentivo fin stupida. Ma non volevo darle un dispiacere.

    A distanza di vent’anni, aveva ancora quello sguardo: non importava se era la focacceria vicino alla scuola o il viaggio della vita, lei era comunque preoccupata.

    Solo che a una figlia di 28 anni non poteva dire di non andare perché era pericoloso. Anche se lo avesse fatto, non sarebbe servito.

    I suoi erano gli occhi di chi non voleva dire niente per non rovinare la felicità altrui, ma moriva dentro dal timore del nulla, del buio, della non conoscenza. Il timore di perdere una figlia.

    A quel tempo io non mi accorsi di ciò che stavo provocando intorno a me.

    Sapevo solo che stavo cambiando pagina. Anzi, stavo finendo un libro della mia vita e ne stavo per ricominciare un altro, pieno di pagine bianche da riscrivere.

    OIT20Enfermera Julien Buratto 2 0 2015-01-26T10:45:00Z 2015-11-25T09:20:00Z 2015-11-25T09:20:00Z 214 56275 320774 Clinica Baviera 2673 752 376297 15.00

    II

    Verso l’ignoto

    Non scelsi io l’Australia. Fu l’Australia a scegliere me.

    Da quando, quel fatidico pomeriggio di aprile dell’ormai lontano 2009, era iniziata la tempesta perfetta nella mia mente avevo messo gli occhi su un’agenzia di viaggio che si trovava sotto l’ufficio di Mister T.

    ll giorno in

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