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La pergamena bianca
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La pergamena bianca

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Entra nel mondo di Cora...e lasciati emozionare da “LA PERGAMENA BIANCA”, una deliziosa e avvincente storia d’amore e di passione per la vita. Narra la presa di coscienza di una giovane donna della sua vera identità che aspira all’indipendenza e alla forza interiore.

Il romanzo è diretto ai giovani e meno giovani che nella vita desiderano compiere il loro viaggio personale che li condurrà alla conquista dell’autonomia e dell‘indipendenza.

La storia, scritta per diventare un film, è ambientata a Cava de’ Tirreni e a Parigi, città multiraziale, dove Cora, la protagonista, abbandona la condizione di agiatezza familiare per divenire una donna in fuga: dalla sua vita, dai suoi genitori, dalle sue radici, dalla sua stessa identità. Spinta da questo innato e autentico desiderio di libertà, raggiunge il suo fidato amico Livio per vincere la scommessa che ha fatto con se stessa: per la prima volta nella sua vita vuole essere lei a decidere e quello che avverrà sarà un susseguirsi di eventi che scriveranno il suo destino.

Durante il corso della narrazione, messa a punto con una tecnica evocativa dei sensi, visuale e scorrevole, la protagonista attraverserà una serie di eventi e colpi di scena maturando la consapevolezza che la scoperta del grande amore e la ricerca personale sono diventate la sua ragione di vita,

ma a volte...
LanguageItaliano
Release dateDec 9, 2015
ISBN9788867515455
La pergamena bianca

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    La pergamena bianca - Giovanni Scafaro

    Gibran)

    Capitolo 1

    «Non partire!».

    «Mamma devo andare».

    Era stato il lento movimento della maniglia, quel sottile cigolio della porta, a far percepire a Cora l’arrivo di Francesca. Quel corpo leggero, che aveva sempre ammirato, profumava tutta la stanza con note fresche di bergamotto. Cora l’aveva vista mille volte inclinare la testa, facendo scivolare i capelli di lato, e mille volte da bambina aveva imitato quel gesto. Era così che sua mamma le manifestava il proprio dissenso e questa volta lo aveva percepito prima ancora che parlasse.

    Francesca rimase a fissarla sotto la porta, incredula per la calma con cui continuava a ripiegare i vestiti. Adorava quel suo modo di sistemare la biancheria sul letto, sempre accurato e meticoloso. Sembrava quasi che quell’ordine desse vita a un carosello di forme e colori.

    Quel pomeriggio i pensieri di Francesca furono interrotti dal click della chiusura della valigia. Sembrava che il tempo si fosse fermato in quella stanza di Cava de’ Tirreni, che affacciava sul corso storico con i suoi portici di epoca medioevale.

    Come in una sequenza a rallenty, Cora si lasciò cadere sul letto, soddisfatta per il lavoro eseguito.

    Rimase con gli occhi fissi in direzione della scrivania, sicura che avrebbe trovato Codina, la sua gatta. Stava là, acciambellata sulla seggiola e scodinzolava la sua coda bianca, come il piumino di un’abile cameriera.

    Si alzò dal letto e la prese in braccio. L’avvicinò al petto e la strinse. Fu solo allora che si rese conto di quanto calore Codina sapeva donarle. Era tutto suo il modo in cui incurvava il dorso per farsi lisciare il soffice pelo.

    Quel pomeriggio di maggio i raggi del sole facevano fatica a illuminare la stanza. Il cielo si era improvvisamente coperto di nuvole. Sui vetri della finestra apparivano i primi schizzi di pioggia, che si riunivano in mille goccioline formando rivoli che colavano giù. Sembrava quasi che la pioggia volesse accarezzare quella finestra rimasta socchiusa.

    Fu un leggero ticchettio, quasi impercettibile, che richiamò l’attenzione di Cora. Rimase sbalordita quando si accorse di cosa stava accadendo. Quei rivoli d’acqua scendendo giù finivano sul davanzale della finestra e da lì si espandevano a chiazza sulla scrivania, dove aveva lasciato i documenti per il viaggio.

    Codina, come se avesse intuito l’intenzione della sua padrona, le guizzò dalle braccia lasciandole il tempo di raccogliere i biglietti, prima che la carta diventasse poltiglia.

    «Proprio adesso che tutto era pronto».

    «Dai Cora, rimani qui, ci sono ancora tante cose da fare. Il giorno più bello deve ancora arrivare, e poi sabato c’è l’inaugurazione del nuovo atelier».

    Cora non rispose. Da quando era ritornata da Parigi per l’Erasmus passava ore intere a fissare il soffitto, sul letto esausto che reclamava la propria scarcerazione. Era troppo per una giovane ragazza venticinquenne. C’era qualcosa che le rodeva dentro. Ma cos’era? Sentiva una voce misteriosa, una voce che l’attirava, che l’ammaliava e la rendeva prigioniera della sua inquietudine.

    Questo suo stato d’animo si era acceso due settimane prima, a causa di una telefonata arrivata dalla Francia da parte di Livio, suo amico d’infanzia e di studi.

    Non si fermò a pensarci due volte. Spazzò via in un attimo gli oggetti che teneva ordinati sulla scrivania, tranne Carlotta, la bambolina di pezza, per fare spazio ai documenti che dispose come tessere di un mosaico.

    China sulla scrivania, intenta ad asciugare i suoi effetti, sentì le mani affusolate della mamma cingerle i fianchi. In quel momento notò il dito anulare della mano sinistra. La sua attenzione si fermò sulla pelle della falange, su quel cerchio bianco lasciato immacolato dai raggi del sole, che un tempo faceva da segnaposto alla fede nuziale.

    «Cora devo dirti una cosa. Chiederò la separazione da tuo padre».

    Restò ferma. Lì. Come un abete ricoperto di neve. Sentiva quel fastidioso pulsare, sotto le palpebre dell’occhio sinistro. Pensò di dirle tante parole, quelle che avrebbe voluto dire da tempo, ma in quel momento sembrava che la gola si fosse rimpicciolita. Si voltò, la guardò negli occhi e sentì le lacrime scendere sul viso.

    Quell’attimo interminabile di silenzio fu interrotto dal cicalino del citofono. Il taxi era già sotto casa.

    Pochi istanti dopo Cora aveva indossato il soprabito blu, quello che la mamma le aveva disegnato in occasione della sua laurea. Prese la valigia e la borsa e prima di varcare la soglia di casa diede un ultimo sguardo alla sua camera. Passò in rassegna con una sola occhiata la libreria bianca, lucida e sobria. La poltrona del dolce riposo, di pelle rossa, comoda e con i braccioli morbidi, e la scrivania in mogano, con il lume ricoperto di stoffa cachemire e Carlotta che se ne stava là appoggiata alla base del lume, con la sua testa pelata, quasi come se volesse dirle torna presto. Codina invece era sul letto che la fissava senza muoversi.

    Il cicalino del citofono si faceva ancora sentire.

    È ora di andare pensò Cora. Poggiò le valigie a terra, abbracciò la mamma dicendole «Mamma stai tranquilla. È la cosa giusta da fare, devo chiarire molte cose. Non starò via molto».

    La baciò sulla guancia, estrasse dal soprabito una lettera e gliela porse mentre il suono del clacson rimbombava nella cassa delle scale.

    Dalla finestra Francesca vide il tassista sistemare il bagaglio di Cora che era già salita in auto. La mano di Cora si protendeva fuori dal finestrino. Sapeva che la mamma la stava guardando.

    «Dove la porto, signorina?». Le chiese il tassista.

    Gli occhi di Francesca rimasero incollati alla sagoma del taxi che si allontanava, ma la sua mente era dentro la busta bianca che aveva tra le mani. Sul dorso c’era semplicemente scritto A mia mamma. Nonostante le tremassero visibilmente le mani riuscì ad aprire il lembo senza rompere la lettera e iniziò a leggere.

    ***

    Era da tempo che volevo scriverti, ma solo adesso trovo il coraggio per dirti cose che ho sempre desiderato confidarti. Ti amo, ma sento dentro di me un grande senso di colpa per la tensione che si è creata tra te e papà, a causa mia. Ho 25 anni e gli anni migliori della mia vita li ho trascorsi ascoltando le scenate tra te e papà. Lui che voleva educare la sua unica figlia come un perfetto soldatino da impiegare nella sua azienda e tu che volevi fare di me una stilista affermata nel campo della moda internazionale. Non ho un ricordo preciso della mia infanzia, avverto solo la presenza di tante ombre. Quello che ricordo chiaramente sono le vostre decisioni e mai una volta che potessi provare la libertà di scegliere, di uscire con i miei amici, di prendere una camicetta e di esprimermi così come mi andava. Facevo di tutto per andare bene a scuola e sono diventata la migliore. Volevo essere il vostro orgoglio, ma allo stesso tempo mi sentivo sempre più esclusa dalle vostre decisioni, sempre più sola e incompresa.

    E come potevo essere compresa se neanche mi ascoltavate? Papà sempre impegnato nella sua grande azienda e tu sempre presa dal tuo atelier. Papà continuava a dirmi Hai tutto, una casa, una famiglia, e non ti manca nulla. Fai il tuo dovere: studia! Hai uno futuro che ti aspetta. E così per soddisfare il suo orgoglio mi ha inserito d’autorità nella sua impresa, dopo essermi laureata in economia e commercio, privandomi della possibilità di studiare antropologia, cosa che ho sempre desiderato fare.

    Amo papà e gli voglio un gran bene, nonostante la severità con cui ha punito ogni mio labile tentativo di ribellione alla sua autorità. Ho amato e odiato i tuoi impegni, le sfilate di moda, il tuo atelier. Sentivo la tua mancanza e l’unico punto di forza che avevo era la mia bambolina di pezza, che abbracciavo e tenevo stretta al cuore. Quella bambola custodisce tutti i miei sogni, i miei ragionamenti, le mie emozioni e i miei segreti. Una cosa che ho fatto fatica a confidarle, e che solo ora trovo il coraggio di dire a te, è stato il tuo incontro con il pittore francese, quello che ti ha rimodernato l’atelier. Venivo per caso alla sartoria. Erano le due del pomeriggio ed ero da poco uscita da scuola. Avevo deciso di farti una sorpresa. Entrai dalla porta del giardino e dalla finestra socchiusa che dava sul retro della bottega vidi Alain, il pittore, che ti afferrava per i capelli e ti schiacciava il volto vicino alla parete e con la punta dei piedi ti dava calci per farti allargare le gambe. Rimasi impietrita, non sapevo che fare, volevo gridare ma non avevo la forza.

    Quella inaudita violenza mi paralizzava. Credetti che ti stesse per violentare e rimasi lì fino a quando tu ti voltasti e lo baciasti con grande segno di gratitudine. Anche se avevo 14 anni, quel tuo bacio appassionato a bocca aperta mi fece capire tutta la drammaticità di cosa stava succedendo. Ciò che ho visto quel pomeriggio ha segnato tutta la mia vita. Ogni volta che vedevo papà mi veniva la tentazione di dirgli tutto, ma poi pensavo alla sua reazione e avevo paura. E così ho tenuto ogni cosa chiusa dentro di me. Ancora oggi provo un doppio senso di colpa. Sono stata fedele a te e non dovevo esserlo e sono stata infedele a papà per avergli taciuto la verità.

    Oggi parto mamma, vado a Parigi, da Livio. Mi ha telefonato due settimane fa e mi ha chiesto di raggiungerlo. Mi ha detto che aveva bisogno di me, doveva parlare alla sua migliore amica. Anche se è stato molto enigmatico sento di dovere andare. Voglio prendere in mano le redini della mia vita, come l’auriga nel mito della Biga alata di Platone.

    Mamma parto perché per la prima volta voglio provare a me stessa che sono capace di realizzare il mio futuro.

    Ti voglio bene, Cora.

    Capitolo 2

    Il passare del tempo veniva scandito dal rumore ritmico delle rotaie dell’Eurostar diretto in Francia.

    Erano passate quasi diciotto ore dall’inizio del viaggio e Cora iniziò ad avere le gambe indolenzite. Accavallò la gamba destra e riprese a sfogliare la rivista che aveva con sé. Notò l’occhio del passeggero, che stava seduto accanto a lei, scorrere lungo la sua gamba. Quello sguardo fu un raggio laser. Fu come se quegli occhi le avessero scandito l’intera gamba, dalla caviglia sottile fino all’orlo della gonna. Si turbò e non poco, ma poi si accorse che non era uno sguardo peccaminoso e un sorriso le si stampò sul volto. Quasi a compiacersi per le calze alla moda che aveva scelto con la maglia lavorata e di tonalità scura.

    Si portò le mani affusolate al colletto della camicia e controllò se l’abbottonatura fosse in ordine. Nel modo di muoversi aveva una garbata insicurezza che la rendeva ancora più bella di quanto già non fosse.

    Continuò a sfogliare le pagine del magazine e l’occhio le ricadde sull’angioma sanguifero che aveva sul dorso della mano destra, tra il pollice e l’indice. Quella voglia di colore scarlatto, che guastava la sua immagine personale, le dava da sempre preoccupazione.

    Senza accorgersene esclamò a voce alta «Bill Viola» il suo artista preferito.

    Le immagini a colori, vivide, surreali, di un uomo in fiamme che usciva da un rogo, le trasmettevano qualcosa di intimo, familiare. Una torcia umana che correva a braccia aperte verso chissà quale dove.

    «Tutto bene?» chiese l’uomo che le sedeva accanto.

    «Sì, mi scusi per l’esclamazione involontaria» e rivolse lo sguardo sul vetro del finestrino.

    Cora sentiva il calore interno salire su, fino al volto, e già si immaginava il viso coperto da macchioline rosse.

    Presa dall’imbarazzo, si alzò e si diresse verso il centro del vagone. Avvertì una sensazione di sbandamento, dovuta all’alta velocità del treno.

    Gli occhi di un giovane passeggero, si posarono sul plissé della gonna di Cora. Osservava le strisce di stoffa mettere in risalto il bustino che le stringeva la vita, dando forma a quel seno in fiore. La vedeva barcollare incerta nella sua direzione, con i passi che si susseguivano insicuri.

    Un piede in fallo la fece flettere sulle gambe e Cora non poté fare altro che aggrapparsi a lui, che sostenendola l’abbracciò. Uno sguardo rapido unì i loro occhi, ma solo per un interminabile momento. Nell’urto il gancetto del bracciale si incastrò nella maglia di quel giovane e si ruppe. Si udì una sonora capocciata, mentre le loro mani cercavano di raccogliere i pezzi del bracciale sparsi sul pavimento.

    «Mi scusi, non volevo» disse Cora.

    «Di niente. Capita, specialmente quando si è seduti per molto tempo. Mi chiamo Andrè e lei?».

    «Mi chiamo Cora».

    Rossa in viso e senza aggiungere una parola se ne ritornò al suo posto, seguita dallo sguardo basito di quel giovane passeggero.

    Prima di sedersi poggiò il maglioncino di filo sulle spalle, annodando le maniche al collo. Aprì la rivista XL sul tavolino che separa i quattro posti dello scompartimento e si mise a leggere, rammaricandosi con se stessa per la figura goffa che aveva fatto. Poi pensò tra sé e sé Avrei voluto continuare la conversazione con quel bel ragazzo, mi ha fatto sentire protetta tenendomi tra le braccia, ma mi sono sentita così inadeguata.

    Dlin dlon, si udì il suono precedere la voce dell’annunciatrice «Prossima fermata stazione di Chambery, trenta minuti all’arrivo».

    Il suo sguardo fu attratto da uno stormo di uccelli, che volavano in formazione, disegnando complesse

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