Memorie di una tata: Come i bambini ci insegnano la vita Un report per adulti consapevoli
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Siamo abituati ad una visione del mondo diviso in due parti.
Da un lato abbiamo i colti adulti e dall’altro gli incolti bambini a cui bisogna insegnare tutto.
Ma cosa succede se proviamo a cambiare il punto d’osservazione?
Cosa possiamo scoprire quando ci liberiamo di ciò che crediamo di sapere ed apriamo mente e cuore permettendo a queste piccole creature di ricordarci tutto ciò che anche noi sapevamo quando eravamo piccoli?
In questo libro sono loro i maestri che permetteranno di acquisire nuove consapevolezze attraverso una visione nuova dove l’apprendimento avviene attraverso il gioco, la gioia ed i sorrisi.
Una report illuminante, rivolto a chiunque senta con il proprio cuore la necessità di capire il potenziale di ogni piccolo essere umano e la necessità di creare le condizioni migliori affinché ogni bambino possa esprimere il meglio di se stesso per creare un mondo nuovo.
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Memorie di una tata - Serena Milano
srl
PREFAZIONE di Erica Francesca Poli
Secondo un proverbio Zen, nella vita bisogna fare tre cose: fare un figlio, scrivere un libro e piantare un albero.
Perché proprio queste tre cose e non le tante altre che potremmo immaginare?
Forse perché fare un figlio, scrivere un libro e piantare un albero sono atti vicini all’essenza della forza vitale che tutto anima in questa dimensione.
Sono atti creativi, messaggi viventi, per il tempo lineare in cui crediamo di scorrere, dal senza tempo in cui abitiamo.
È così che i nostri figli saranno sempre i nostri bambini anche quando avranno quarant’anni e saranno già diventati genitori a loro volta, è così che a un libro affidiamo noi stessi per chi verrà e di un albero pensiamo che crescerà e vivrà oltre noi a gettare le sue braccia al cielo.
È così profondamente vero che compiamo questi atti perché ci avvicinano all’essere.
Libro, albero e figlio richiedono tuttavia la verità di chi siamo.
Non si può barare con simili esseri: o meglio, si può, ma lo riveleranno inesorabilmente, come lo specchio ingrato della strega di Biancaneve o quello impietoso di Dorian Gray.
In tutti questi casi, e in primis nel fare un figlio, noi dichiariamo inevitabilmente la nostra posizione verso la vita.
Fare un figlio, oggi più che mai, significa credere alla vita.
Citando Milan Kundera se ho un bambino, è come se dicessi: sono nato, ho assaggiato la vita e ho constatato che essa è così buona che merita di essere moltiplicata.
E quando l’abbiamo messo al mondo, l’abbiamo procreato, allora comincia l’avventura della più piena creazione: educarlo, farlo crescere.
Anche qui l’analogia con il libro e l’albero è suggestiva: un libro richiede tempo e cure, un giardino va coltivato.
Al tempo stesso un libro va poi consegnato alla sua vita propria, alla sua unica e incontrollabile interazione con tutti coloro che lo leggeranno e un albero non si può continuamente guardare per vedere che cresca.
Ci si assicura che abbia acqua e sole, che sia in un buon terreno, che le tempeste, inevitabili, non lo spezzino al tronco e poi lo si lascia crescere nel silenzio.
E intanto? Intanto si impara…
Non ce lo dicono che fare un figlio ci catapulta in un viaggio dentro di noi, dentro i figli che siamo stati e che, mentre lo educhiamo, come dice il Talmud, stiamo educando il figlio di nostro figlio.
Non ce lo dicono che una volta messo al mondo quel figlio, i nostri occhi, ciglia, cuore, mani, cervello saranno dislocati qua e là: all’asilo dove prenderà virus vari e si sbuccerà le ginocchia, nel suo lettino mentre dorme e vent’anni dopo in discoteca dove speriamo che non si faccia una canna, per non dire altro.
Ma, soprattutto, non ci dicono che quel figlio o quella figlia sarà felice nella stessa misura in cui siamo felici noi, che imparerà non da ciò che diciamo, neppure dalle punizioni più o meno equilibrate che daremo, ma da come vedrà noi stessi trattarci.
A volte, il piccolo maestro o la piccola maestra sono l’unica ragione per cui iniziamo a trattarci meglio.
Spesso, durante una seduta di psicoterapia, una persona sblocca finalmente una ferita di anni, incancrenita e contorta, quando le chiedo di immaginare se a stare così fosse il suo bambino o la sua bambina.
Allora in quel momento giunge una forza indicibile che spezza le catene della colpa e abbatte il muro della vergogna.
Allora è vero che questi figli sono la fonte della guarigione e che per questi figli ogni essere umano è pronto a oltrepassare il suo limite.
Vi è in questo meccanismo qualcosa di potente e primordiale, animale e spirituale.
Non possiamo non vederlo, non possiamo dimenticarlo. Dobbiamo anzi enfatizzarlo, farne una via di realizzazione dell’umano.
È per questo che un libro come quello di Serena Milano è un piccolo dono prezioso.
Serena appartiene a quella categoria di persone che, pur adulte, continuano a mantenere intatta una certa quale natura infantile: forse perché è stata protagonista di un viaggio dal cancro alla rinascita quando era poco più che una adolescente o forse ha potuto compiere quel viaggio proprio perché principiante della vita come una bambina.
Ride spesso, Serena, e parla con quel tono dei bambini che chiedono i perché.
Credo sia per questo che le viene facile stare con i bambini e in questo libro, con la stessa freschezza, racconta quel mondo, perché dai bambini possiamo imparare e ai bambini, che pure hanno estremo bisogno di noi adulti, possiamo ben insegnare.
I bambini sono felici quando… si incantano, giocano tanto, non si ricordano che è pronto!
e ridono senza motivo.
Quando si perdono nelle fiabe e nei loro disegni con tanti colori. Quando sono curiosi di tutto, esultano per il loro piatto preferito e poi corrono a giocare senza neppure finirlo. Quando fanno i capricci e non vogliono dormire.
Sono felici quando sono piccoli, e piccoli possono essere lasciati finché possono, finché l’incarnazione nella materia non si farà più pesante, oscurando un po’ di più la vibrazione dello spirito in loro.
I bambini come gli alberi dovrebbero essere non educati, ma aiutati a crescere e a maturare.
Sono perfetti così, tutto è già in loro, come la quercia è già nella ghianda.
Vivono la dimensione della magia, del qui e ora
, conoscono in modo innato ciò che conta, hanno un senso dell’etica e del sacro, hanno una mente del tutto diversa da quella adulta, che va rispettata.
Alan Watts soleva ricordare che secondo la saggezza Zen è importante riuscire, nella vita, a tornare almeno un po’ bambini perché è ai bambini che compete un modo di vedere il mondo originale che la mente adulta non possiede.
In una scena famosa del film Mary Poppins i personaggi principali levitano ridendo; più ridono, più diventano leggeri, vincono la gravità finché si ritrovano tra le risate al soffitto.
Leggendo il libro, me la sono immaginata così Serena, con i suoi
bambini e le sue
bambine.
I figli dell’amore sono imperfetti, chiosava il film Gattaca, e felici, si evince dalle memorie di questa speciale Tata: questo è perfetto.
Erica Francesca Poli
Medico psichiatra e psicoterapeuta
INTRODUZIONE
LA MIA RICERCA
Premetto subito di non aver ancora ricevuto una formazione accademica in merito all’infanzia, ma a breve inizierò un percorso per trasformare questa mia ricerca in una professione riconosciuta.
A 13 anni quando fu il mio momento di scegliere la scuola superiore a cui iscrivermi desideravo fortemente di poter accedere ad un istituto magistrale per poter diventare un’insegnante.
Complici il fatto che l’istituto più vicino fosse in un’altra città rispetto a quella in cui abitavo, la giovane età e la mia mamma chioccia, non ebbi il permesso di frequentare quella scuola e così mi iscrissi all’Istituto Tecnico Agrario del paese in cui abitavo.
Furono anni caratterizzati da un grande divertimento e dallo studio di materie interessanti che però si discostavano da quelli che erano i miei interessi veri.
Io trovavo affascinante il mondo dell’infanzia.
Dal 2000 al 2010 circa, molti comuni della pianura padana aderirono ad un progetto per portare salute ai bambini nati nella zona bielorussa contaminata dalla tristemente famosa esplosione nucleare di Chernobyl del 26 Aprile 1986.
Il progetto consisteva nell’affidare, a famiglie che si rendevano disponibili, un bambino o una bambina, di età compresa tra i 7 ed i 13 anni, per 6 settimane.
Statisticamente questi bambini nati e cresciuti in contesti contaminati, spesso in maniera molto grave, dalle