Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Io, le persone, le chiamo per nome
Io, le persone, le chiamo per nome
Io, le persone, le chiamo per nome
Ebook456 pages5 hours

Io, le persone, le chiamo per nome

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

La storia di Luce e Nasoapunta, all’anagrafe Lucia e Andreina, una ragazzina sorda costretta in carrozzina dalla nascita e la sua educatrice.

È la storia di un percorso educativo durato molti anni, che porterà Luce dall’isolamento verso la comunicazione e l’autonomia, non senza difficoltà e ripensamenti da parte di tutte e due.

Lo stesso percorso viene prima  raccontato dal flusso di pensieri di Luce e in seguito rivisto da Nasoapunta: due persone molto diverse per origine e abilità, ma che vivono, in fondo, le stesse difficoltà e le stesse emozioni.

Una storia che si snoda tra l’Italia e la Polonia, e che vede il suo fulcro nelle difficoltà comunicative, nel bilinguismo e nella lingua dei Segni italiana, vista non come scelta obbligata ma come valore aggiunto nella vita delle persone sorde.

LanguageItaliano
PublisherPM edizioni
Release dateNov 14, 2015
ISBN9788899565060
Io, le persone, le chiamo per nome

Related to Io, le persone, le chiamo per nome

Related ebooks

Psychological Fiction For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Io, le persone, le chiamo per nome

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Io, le persone, le chiamo per nome - Loredana Scursatone

    Loredana Scursatone

    Elena Cauda

    Io, le persone

    le chiamo per nome

    Viaggio nel mondo

    delle parole e dei segni

    Copyright © 2015

    PM edizioni

    via XXIV Maggio, 1

    00049 Velletri (RM)

    www.pmedizioni.it

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

    Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

    ISBN 978-88-99565-06-0

    Prima edizione: novembre 2015

    Introduzione

    Questo non è esattamente un romanzo, e non è nemmeno un testo scientifico nel vero senso della parola; ma allora che cos’è?

    A dire la verità non è semplice collocarlo: potrebbe essere un romanzo di formazione, ma non ha la struttura di un romanzo, e non tratta di semplice adolescenza.

    È un libro che parla di lingua dei segni e di bilinguismo, ma non è un libro sulla lingua dei segni. È piuttosto un libro sulle possibilità, su quanto, talvolta, ci sembra irrimediabilmente compromesso ma riserva invece svolte inaspettate.

    È inoltre un testo impaginato con un allineamento a sinistra per renderlo maggiormente accessibile alle persone con problemi di letto-scrittura.

    Quello che a noi interessava era di offrire un punto di vista, di quelli che non fanno comodo a nessuno, perché non hanno aspetti romantici e smuovono, a livello interiore, quello che a noi esseri umani fa più paura.

    La forma che più ci è sembrata adatta a rappresentare il punto di vista di chi non può esprimersi, o deve cercare strade alternative per farlo, era quella del flusso di pensieri.

    Ma i punti di vista non vengono mai da soli: si incrociano con altri, cambiano direzione, si fanno influenzare o si irrigidiscono su se stessi; e quindi perché rappresentarne solo uno?

    In fondo tutti i percorsi sono fatti di molte persone, soprattutto quando si parla di pedagogia speciale, e tutti quelli che abbiamo sostenuto o costruito nel nostro lavoro e nelle nostre avventure sono racchiusi in questo libro.

    Luce non è un’eroina, non è una di quelle persone disabili che possono mostrare i propri successi in televisione strappando lacrime agli spettatori, non è nemmeno un personaggio realmente esistito; ma non per questo è meno vero, perché rappresenta, nei suoi pregi e nei suoi difetti, nelle sue capacità e nelle sue enormi difficoltà, tutti quelli che abbiamo incontrato sul nostro cammino, così come anche la sua famiglia e il mondo che le ruota attorno.

    C’è un po’ anche di noi due in Luce, dei nostri pensieri e di quelli che abbiamo interpretato di chi non poteva comunicarceli. E non c’è meno di noi di quanto ci sia in Nasoapunta; perché, si potrebbe pensare, che sia più simile a noi perché è normale, perché fa il nostro mestiere, perché è una donna e una mamma.

    Ma in realtà le difficoltà di Luce sono in gran parte quelle di tutti, e noi le abbiamo rivissute tutte rivedendo la nostra vita: dalle difficoltà ad apprendere, alla discriminazione, ai problemi a socializzare, alle tensioni in famiglia. Insomma, quello che tutti gli esseri umani vivono quotidianamente.

    Quando si ha di fronte una persona gravemente disabile, si è portati a pensare che tutti i suoi problemi derivino dalla sua disabilità, perdendo di vista il fatto che le persone vivono tutte gli stessi bisogni e gli stessi sentimenti.

    Nasoapunta e Luce vivono le stesse emozioni; rabbia, solitudine, fatica, soddisfazione, esaltazione ed amore. Certo non contemporaneamente, almeno non sempre, ma il loro rapporto si sviluppa nel tempo proprio su queste basi. Talvolta una non è al corrente delle azioni o dei pensieri dell’altra, ma, alla fine, arrivano sempre alle medesime conclusioni. Amerete qualche personaggio, qualcuno lo odierete, vi alleerete con alcuni e vi dissocerete da altri; in fondo è quello che facciamo tutti quotidianamente.

    Chiunque può leggere questo libro, anche chi non sa nulla di psico-pedagogia e non è mai venuto a contatto con il mondo della disabilità, ma non aspettatevi lacrime o facili anatemi: la realtà non è fatta di persone che vincono a tutti i costi i propri limiti ed abbattono gli ostacoli con l’ariete della propria determinazione; la realtà è fatta di persone, di esseri umani che commettono errori madornali, a volte ce la fanno ma la maggior parte delle volte no, che talvolta rinunciano e ottengono molto meno di quello che potrebbero.

    La nostra società ci ha, ormai educati, a digerire storie che assumono il ruolo di motivatrici, che puntano sull’orgoglio del se ce l’ha fatta lui posso farcela anche io, che sgomberano il campo da ogni debolezza; ma la realtà non è questa.

    La realtà di Luce e Naso a punta è fatta di piccole cose: non si vincono para-olimpiadi, non si guarisce dai propri handicap, non avvengono miracoli, proprio come nella vita della maggior parte di noi.

    Perché la forza e la debolezza fanno parte dello stesso pacchetto, ed è questo che ci rende umani.

    Loredana Scursatone

    Elena Cauda

    Lucia sono io, e non esordirò con un buongiorno a tutti o con un mi presento: quando una persona è conciata male come me non si perde in convenevoli.

    Ho 15 anni e sono seduta su una carrozzina, oltre ad essere sorda dalla nascita e ad avere una montagna di altri problemi.

    Il mio nome, Lucia, non ha avuto un senso fino ad alcuni anni fa, e cioè fino a quando non ho incontrato Naso a punta, la mia educatrice.

    Lucia in lingua dei segni si traduce abbastanza facilmente con il termine luce, ma Naso a punta dice che me l’ha dato perché quando è riuscita ad agganciare il mio sguardo (gli educatori si esprimono così) è rimasta stupita dall’azzurro dei miei occhi.

    Non sono in molti a sapere che ho gli occhi azzurri, perché tendo a tenere la testa rivolta verso il basso e do l’impressione di non considerare molto il mio prossimo. Questo in passato mi è quasi costato una diagnosi di autismo, anche se l’autismo non rientra nella montagna di problemi che mi porto appresso.

    La mia diagnosi, o meglio le mie diagnosi, comprendono ipoacusia bilaterale profonda, tetraparesi spastica e ritardo cognitivo, e sono tutte corrette: è vero che sono sorda, è vero che sono spastica ed è probabilmente vero che ho un ritardo cognitivo, perché non riesco a fare quello che fanno gli altri non solo col corpo e con le orecchie ma anche con il cervello: faccio fatica a contare (i numeri non hanno significato per me, sono solo una rottura di scatole), scrivo molto lentamente facendo un mucchio di errori, fatico a memorizzare date e luoghi.

    Questo però non significa che io non comprenda quello che accade attorno a me e che non mi sia fatta un’idea molto precisa su come vada il mondo.

    Prendiamo i nomi per esempio: ci avete fatto caso che la gente fa una fatica enorme a chiamare gli altri per nome? Sono in pochi a rendersi conto che questo accade, ma io l’ho notato già molto tempo fa: ho tanto tempo per osservare la gente e farmi delle idee su quanti problemi si crea da sola.

    Non voglio fare la parte della disabile arrabbiata col mondo e con tutti quelli che si creano dei problemi pur avendo orecchie e gambe funzionanti, è uno stereotipo troppo banale e io ho passato troppo tempo a pensare per cadere nella trappola degli stereotipi.

    Molte persone faticano a chiamare per nome gli altri, ed è un fenomeno che si sta aggravando con il tempo, o almeno a me sembra così.

    Eppure i nomi sono una cosa bellissima, ci appartengono e ci descrivono, oppure descrivono persone che sono vissute prima di noi, o eventi che hanno portato alla scelta proprio di quel nome lì. Io, per esempio, mi chiamo Lucia perché mia nonna si chiamava così; mio fratello si chiama Attilio perché quando è nato urlava come un barbaro infuriato e mia mamma ha pensato ad Attila.

    Chiamare le persone per nome significa dare loro importanza, riconoscerli come esseri umani, ammettere insomma che esistono.

    Tutte queste idee me le sono fatte da sola, ma mi sono anche documentata su internet: digitando difficoltà a chiamare per nome viene fuori un forum che parla di questo problema. Allora non era solo l’impressione di una che non ha un cavolo da fare tutto il giorno, è un problema reale, mi sono detta.

    Io ho una posizione privilegiata: posso osservare una quantità enorme di situazioni, senza che a nessuno venga mai in mente che mi stia facendo un’opinione. Nessuno si sente giudicato, forse perché la maggior parte della gente pensa che io non sia in grado di sentire o capire: di conseguenza le persone, in mia presenza, dicono cose che non direbbero in presenza di altri, scaricano un sacco di parolacce, insultano gli assenti.

    Essere conciata così presenta degli indubbi vantaggi: tutti mi immaginano immersa in una bolla asettica, priva di suoni e di pensieri. Ma il pensiero ha una forma propria, prima ancora di assumere quella del linguaggio: tutti pensano, animali, bebè in fasce, persone apparentemente prive di pensiero. Io adesso penso in lingua dei segni, ma prima il mio pensiero esisteva, ed aveva la forma delle immagini che avevo impresse nel cervello.

    Per esempio quando mi sono accorta che le persone preferivano non pronunciare il nome del proprio interlocutore ma tenersi sul vago, avevo appena otto anni e non conoscevo ancora la lingua dei segni.

    Per me quell’idea ha avuto sempre la forma della prima volta in cui mi sono resa conto del problema: stavo alla stazione dei pullman ed osservavo il dialogo tra un ragazzo ed una ragazza.

    I due si erano appena incontrati, ma si conoscevano evidentemente da parecchio tempo. I loro corpi, la posizione che assumevano, mi dicevano che lei era molto contenta di vederlo e che, forse, era innamorata di lui.

    Lei gli era andata incontro e l’aveva salutato chiamandolo per nome, forse Marco a giudicare dal movimento delle labbra. Lui non si era mosso, aveva appena ruotato i piedi per rivolgere il proprio corpo nella direzione di lei, ed aveva risposto solo salutandola senza chiamarla per nome. Nel corso della conversazione lei lo ha chiamato per nome diverse volte, lui mai.

    All’epoca leggevo a malapena un po’ il labiale, avevo una conoscenza piuttosto limitata dell’italiano e nessuno pensava che io pensassi. Il mio pensiero era fatto di qualche parola in Italiano e tante immagini.

    I due, l’innamorata e il cretino, non si erano nemmeno accorti che li stavo osservando e non li ho mai più rivisti. Tutt’ora non sanno che la loro conversazione vuota e inutile nella mia testa è diventata il sinonimo di difficoltà a chiamare per nome; ogni volta che penso a questo problema vedo la loro conversazione e le loro facce.

    Nel tempo ho osservato tante altre conversazioni, ma quella è rimasta impressa nel mio cervello come il prototipo non solo della difficoltà a chiamare per nome, ma anche della stupidità delle donne a prostrarsi di fronte a uomini vuoti e stupidi pur di non rimanere da sole. Di tanto in tanto ci ripenso, ho tanto tempo per pensare, e mi immagino lei che lo manda a cagare e si prende la sua rivincita sulla cafoneria maschile.

    Dopo aver imparato la lingua dei segni tutto questo ha cominciato ad avere la forma dei gesti e delle mani, ma il mio pensiero continua ad avere forme diverse, a volte colorate, a volte in bianco e nero a seconda del significato dei ricordi che evoca.

    Il giorno in cui ho incontrato Naso a punta ha un colore arancione, anche se quel giorno pioveva.

    Avevo da poco compiuto nove anni e mi trovavo a scuola, pioveva e sembrava una giornata come tante. Il mio educatore si era licenziato da qualche giorno, come gli altri prima di lui: ne ho avuti molti, ragazzi e ragazze, neolaureati e educatori vecchia scuola (loro si definiscono così), da quando facevo l’asilo fino ad allora, e nessuno è mai durato molto.

    Troppo pochi soldi, poche ore, contratti non rinnovati, troppo difficile la mia famiglia, troppo difficile io. Qualcuno era simpatico, qualcuno negato, qualcuno mi capiva, ma mai nessuno mi aveva trattata come una persona in grado di comprendere.

    D’altra parte nessuno degli specialisti mi dava speranze: la neuro psichiatra infantile, dal cartellino Elisabetta, mi pare, ma per me è Manicurefrench, scuoteva la testa. Lei e lo psicologo, Pezzodilegno, mi vedono a malapena una volta all’anno, e non smettono mai di scuotere la testa. Quando parlano con i miei genitori leggo sulle loro labbra la parola grave, come se io non capissi o non fossi presente.

    Tutti gli educatori, prima di conoscermi, parlano con Manicurefrench e con Pezzodilegno. Quando li incontro per la prima volta sono sempre rigidi, leggo nei loro corpi diffidenza e paura, hanno sempre nella testa un grosso punto di domanda: ce la farò?

    Quel giorno sapevo che Franco, il mio educatore che all’epoca non aveva un nome segno ma che avrebbe potuto essere Manicodiscopa, non sarebbe più venuto perché aveva trovato lavoro in una comunità.

    Franco non era male, un po’ ingessato forse, e mi dispiaceva non vederlo più. Ma d’altra parte sapevo che non sarebbe tornato a trovarmi come aveva promesso, non lo faceva mai nessuno: per dirmelo aveva usato le immagini del comunicatore, cosa che io detestavo, e lui lo sapeva. Parlavamo poco io e lui, ma ci divertivamo abbastanza: mi portava al parco a fare le corse con la carrozzina sul vialetto di cemento, a prendere il caffè in piazza Duomo, al centro commerciale a comprare cose inutili. Tutte cose che con i miei genitori non faccio mai, perché si vergognano profondamente di me e di loro stessi.

    Ovviamente nessuno mi aveva anticipato nulla, forse nessuno lo riteneva utile o possibile. Non mi anticipavano mai niente, e io andavo in ansia, mi agitavo e mi inacidivo. Pensavo che mi sarebbe piaciuto un altro educatore come Franco, e mi ero fatta l’idea che sarebbe stato un altro ragazzo.

    Ed invece arrivò Naso a punta, una strana ragazza che non sembrava né carne né pesce.

    Non appena arrivò nella stanza, io ovviamente stavo guardando in basso, mi si avvicinò mettendomi una mano su una spalla e tirandomi su il mento; mi disse: ciao, io sono Naso a punta, piacere!. Ovviamente non avevo capito un accidenti di quello che aveva detto, ma rimasi ipnotizzata da quelle mani che si rivolgevano a me, proprio a me e a nessun altro. Continuò a gesticolare e disse: tu hai degli occhi molto belli, il tuo nome è Luce.

    LUCE, io, proprio io. Mi aveva puntato il dito contro il petto ripetendomi tu, Luce. Sapevo di chiamarmi Lucia, l’avevo scritto diverse volte con il computer e qualche volta qualcuno me lo aveva fatto scrivere con la mano libera anche con la penna, ma non lo avevo mai sentito pronunciare e nessuno si era mai rivolto a me chiamandomi per nome.

    Quel giorno è arancione nei miei ricordi, anche se non sapevo che cosa mi aspettasse e quanta fatica avrei fatto quell’anno.

    Naso a punta, all’anagrafe Andreina, per gli amici Andrea, è una strana creatura: poco femminile, molto secca nei modi, educata ma mai gentile (in lingua dei segni è un bel guaio, perché educato e gentile si segnano nello stesso modo). Non è bella, decisamente no, ma ha uno stile che mi piace: d’estate ha sempre un paio di bermuda e delle infradito, d’inverno porta pantaloni a zampa di elefante ed ha sempre una dolcevita che le copre il collo. È piccola e compatta, porta capelli corti e non ha né piercing né tatuaggi (sembra che non esista più nessuno al mondo che non ne abbia, soprattutto tra gli educatori). Tutto in lei è essenziale, tranne il naso a punta, unico tratto fine nella sua figura compatta e senza fronzoli.

    Quel nome non se l’era dato lei: tempo dopo, quando abbiamo cominciato a comportarci non più come educatrice esigente e paziente oppositiva ma come due persone civili che parlano tra loro, mi ha raccontato che a darglielo era stato un altro bambino molto tempo prima.

    Questo bambino era sordo-cieco (cosa credi Lucia, mi dice spesso, che non esista al mondo nessuno di più sfigato di te?), e sottolinea era per farmi capire che non c’è più; le toccava il viso per esplorarla e conoscerla, e si soffermava su questo naso appuntito, strano in mezzo ad un viso compatto e massiccio. Il suo nome era rimasto Naso a punta.

    Sembrava l’inizio di una favola, di quelle dove si scoprono poteri magici e capacità che nessuno aveva mai visto prima: e invece era una storia di fatica che terminava con la morte del protagonista.

    Io le favole non le conosco molto bene, nessuno me le ha mai raccontate: quando è arrivata Naso a punta ero già un po’ troppo cresciuta per iniziare a raccontarmi le favole, e c’era tanto lavoro da fare con me, tanto che a ripensarci mi gira ancora la testa.

    Le favole sono poi andata a leggermele da sola su internet, un po’ per curiosità un po’ per sentirmi un’adolescente come le altre (pare che le adolescenti credano nelle favole più delle bambine).

    La mia favola era finita subito, appena dopo aver pensato finalmente qualcuno che mi capisce e che mi considera: Naso a punta era venuta tre volte per l’osservazione (sempre espressioni da educatore), scriveva su un blocchetto, mi sorrideva e mi parlava in quella strana lingua con le mani; io ero affascinata da quelle mani, chissà cosa mi stavano dicendo.

    Fino a quel momento gli educatori mi avevano portata in giro, avevano provato a farmi interagire con i miei compagni, mi avevano fatto scrivere e provato a farmi leggere abbinando immagini e lettere, poi parole ed immagini (qualcosa sapevo leggere, non ero così caprona); ma nessuno aveva mai preteso nulla da me.

    Il primo giorno in cui siamo rimaste sole io e Naso a punta è stato un disastro, ma per me quel ricordo è sempre di colore arancione.

    Naso a punta mi aveva fatto segno di ritirare le penne dentro all’astuccio: pazza! avevo pensato, io sono spastica! Mi aveva messo le penne davanti e mi aveva ripetuto con calma ma seccamente di ritirarle. Continuava a ripetere il segno prova, io avevo capito benissimo cosa significava, ma continuavo a pensare ma perché non lo puoi fare tu, sei qui per questo!.

    Prova Luce, lo puoi fare!, nessuno mi aveva mai costretta a fare qualcosa che non volessi fare. Si era seduta davanti a me e non sembrava avere intenzione di mollare l’osso; continuava a ripetere di provarci che ce la potevo fare, senza omettere mai il mio nome prova Luce. Avevo anche cominciato a pensare di sputarle, ma era troppo distante, allora ero passata al piano B: con la mano libera battevo sul piano del tavolo strillando. Niente, continuava a ripetere: visto che la mano la sai usare? Prova!!

    Alla fine ho ceduto, era la prima volta che succedeva. Con grandissima fatica ed incazzatura ho ritirato le penne dentro all’astuccio e ho mollato testa e braccio a penzoloni, per farle pesare di avermi sfruttata fino allo stremo delle forze.

    Lei sembrava stanca almeno quanto me, ma non sembrava provare alcuna compassione per la mia sceneggiata da Mario Merola.

    Cominciavo a pensare di fargliela pagare, sei un tipetto ostinato, ma io sono un’handicappata e la spunterò: mentre ci stavamo preparando per andare a casa avevo deciso di farla faticare ancora un po’ e avevo iniziato ad oppormi, prima sfilando le braccia dalla giacca poi strillando, ma Naso a punta mi aveva costretta ad infilarmela, segnando cose strane.

    Quando venivo contrariata mi irrigidivo buttando la testa indietro ed inarcando la schiena, e questo normalmente funzionava perché tutti avevano paura di questa mossa (talvolta mi sono pure ribaltata dalla carrozzina), ma quella volta è successo un fatto inedito: mi sono presa un sonoro schiaffone.

    Ovviamente non mi ero mai presa uno schiaffo, nella mia famiglia erano tutti troppo sopraffatti dalla tragedia della mia nascita per reagire ai miei capricci, ma Naso a punta non sembrava per niente in affanno e dava l’impressione di sapere cosa stava facendo: ricordo di averla guardata portandomi la mano libera alla guancia come per dire perché?.

    Mi rispose Perché no?. Già, perché no? In fondo stavo facendo la stronza, e chiunque al posto mio si sarebbe preso uno schiaffo.

    Mi sono sentita terribilmente stupida: stupida per aver pensato di potermi comportare diversamente dagli altri, stupida per aver approfittato di una persona che era lì per me, stupida per aver fatto la stupida.

    Ero umiliata, mortificata, prostrata, e chi più ne ha più ne metta...

    Ma non riuscivo bene a capire perché non ero arrabbiata: c’era qualcosa di strano in quella situazione, qualcosa di nuovo, un aria di cambiamento che la rendeva quasi bella.

    Ci ho messo parecchio tempo a capire che cosa era quella sensazione: per la prima volta ero stata trattata come una persona normale e non come una handicappata; ma al momento dovevo fare i conti con quel donnino impertinente e sicuro di sé. Che fare? Fargliela ancora pagare, renderle l’esistenza un inferno, cercare di farla sentire in colpa come facevo con tutti? Oppure cercare di capire cosa mi stava dicendo e provare a rispondere a tono?

    Per la prima volta avevo pensato di reagire non con le urla ed i capricci ma con altri argomenti: desiderai intensamente conoscere tutti i segni del mondo per poterle dire brutta nana ridicola, ma come cazzo ti permetti? Non lo vedi che sono un’handicappata?.

    Ma non li conoscevo, e optai per chiudere la mano libera a pugno e sventolargliela davanti al naso appuntito.

    Reagì in modo inaspettato: inarcò le sopracciglia soddisfatta e mi segnò provaci. Quel segno lo conoscevo, perché aveva passato l’intera mattinata a ripetermelo per farmi ritirare l’astuccio delle penne. Mi aveva detto provaci riferita al mio pugno: ma io non avevo nessuna intenzione di darle un pugno! Come potevo fare per farglielo capire?

    Misi una mano aperta davanti a me, come per segnarle aspetta! hai capito male!, ma lei sorrideva soddisfatta.

    Ero estremamente confusa, che cosa aveva da sorridere quella nana? Era contenta della mia minaccia? Era contenta che le stessi facendo fare una fatica nera? Cosa c’era di soddisfacente in una bambinetta pluriminorata che ti sventola un pugno sotto il naso?

    Ma lei sorrideva, mi segnava cose strane e mi riaccompagnava a casa. Aveva lo stesso sorriso compiaciuto che ha un muratore osservando la perfezione dello spigolo a piombo che ha appena plasmato con la cazzuola, la stessa del sarto che osserva l’ultimo punto di un vestito appena finito di cucire: aveva sulla faccia quella umana soddisfazione che ha qualsiasi lavoratore di fronte ad un lavoro ben fatto.

    La natura umana è proprio bizzarra. Una donna bruttina, che faceva un lavoro a mio parere ingrato e a parere di tutti sottopagato, soddisfatta per come era andata quella giornata disastrosa.

    Non sapevo ancora nulla di lei e non immaginavo che avesse fatto tanta fatica a vivere e con quali risultati; nella mia immaginazione gli educatori vivevano soli in una stanza in affitto con un piccolo fornello sul quale scaldavano cibi precotti, oppure condividevano un appartamento vecchio e mal riscaldato con altri colleghi o studenti.

    Oscillavano tra l’essere entusiasti del proprio lavoro ed essere pronti a lasciarlo per fare il custode notturno in un campeggio sulla riviera Romagnola. Da quelli più giovani e griffati a quelli più vecchi e fricchettoni avevano tutti un tratto in comune, e cioè l’aria di chi non ha ancora deciso cosa fare della propria vita.

    Volendo inserire Naso a punta in una delle due categorie, giovani griffati e vecchi fricchettoni, la si può collocare nella seconda, almeno per età. L’unica cosa che ha in comune con i fricchettoni, però, sono i pantaloni a zampa di elefante: dice che li mette non per nostalgia degli anni ’70, ma solo per far sembrare il suo culo meno grosso.

    Naso a punta non è quindi una ragazzina, ma non si porta appresso l’alone new age di tanti suoi colleghi. La osservavo mentre mi riportava a casa in autobus e non sapevo se i rotoli di ciccia intorno alla pancia fossero solo cattiva alimentazione o se avesse avuto di recente dei figli. Facevo il paragone tra lei e mia zia Grissino, al secolo Zia Anna, che aveva appena avuto una bambina isterica ed aveva ancora una pancia grande e floscia.

    La osservavo, e cominciavo a essere curiosa, a volerne sapere di più su di lei. Naso a punta, ogni volta che si accorgeva che la stavo guardando, mi segnava qualcosa che non capivo, ma ad un certo punto mi fece una domanda inarcando le sopracciglia con aria incuriosita unendo pollice e medio: tutto bene, Luce?

    Avevo risposto con un sorriso, proprio io, Lucia, io che non sorridevo quasi mai. Ridevo, ridevo tanto quando Franco mi faceva correre con la carrozzina e mi lasciava andare per poi riprendermi prima che mi schiantassi contro una panchina abitata da vecchietti terrorizzati. Ridevo quando Saponetta, la mia compagna di banco, mi pizzicava sul fianco per farmi tirare su la testa. Ma non sorridevo quasi mai.

    La risata è un fatto meccanico, si può ridere pur essendo incazzati, si può ridere anche da soli. Ma sorridere è una questione diversa: deve venirti da dentro, e a me non veniva quasi mai.

    A casa c’era mia mamma ad accoglierci, ferma sulla porta con la maniglia in mano per dare l’impressione di andare di fretta e non voler dare confidenza. In realtà mia mamma, (che non ha un nome segno, è semplicemente mamma), non ha nessuna voglia di fermarsi a parlare con gli educatori perché non vuole sentirsi dire che mi sono comportata male, ma ancora meno che mi sono comportata bene. Sembra stupido, ed in realtà è pure peggio, ma il volto sciupato di mia mamma si oscura ancora di più quando gli educatori le dicono che è andato tutto bene: finge di sorridere, ma i suoi occhi cerchiati di borse scure come pelle di cotechino non sorridono affatto.

    Per mamma sentir dire che tutto è filato liscio è una sconfitta, perché non sopporta l’idea che qualcuno sia più bravo di lei a gestire la figlia.

    Mamma ci aveva accolte con un sorriso stentato e con tanta voglia di chiuderla lì, di mettermi davanti al televisore e continuare a cucinare. E invece Naso a punta aveva cominciato a raccontarle tutto, della giornata, dell’astuccio e dello schiaffo, suppongo. Sorprendentemente però lo raccontava con molta tranquillità e con il suo solito sorriso soddisfatto.

    Strano, avevo pensato, tutti gli educatori sono in affanno quando gli faccio vedere di che pasta sono fatta e lo raccontano a mamma: invece lei era tranquilla e mamma sembrava quasi interessata a quello che diceva. Ad un certo punto Naso a punta si era rivolta verso di me, cercando di farmi capire con i segni quello che si stavano dicendo.

    Molto tempo dopo ho capito il vero contenuto della conversazione: Naso a punta stava spiegando a mamma l’importanza di quel pugno sventolato sotto il naso, gli educatori la chiamano capacità di codificazione. Ero poi andata, anni dopo, su internet a cercare il significato di quella frase così complessa: significa che un individuo è in grado di elaborare strategie iconiche finalizzate alla comunicazione di diversi livelli. In poche parole vuol dire: non sei poi così stupida e, se vuoi, riesci a farti capire.

    Ovviamente le cose erano ancora ben lontane dal cambiare, non era poi successo nulla di straordinario; mamma aveva chiuso la porta liquidando Naso a punta e mi aveva piazzata davanti alla televisione continuando con la preparazione del pranzo.

    Ma io continuavo ad avere quella strana sensazione di cambiamento, sentivo un qualcosa di nuovo che mi stimolava a comportarmi in modo diverso dal solito. Andai avanti tutto il giorno cercando di chiamare i miei fratelli e i miei genitori per farmi capire, agitando il braccio libero senza ottenere risultati: erano gesti confusi, senza un significato preciso, e più mi rendevo conto che volevo usarli per dire qualcosa più mi accorgevo di non essere in grado. Provavo a fare come Naso a punta, ma avevo solo un braccio a mia disposizione e non conoscevo il significato dei segni che le avevo visto fare. Più andavo avanti più mi incazzavo.

    A tavola per cena la scena era la stessa di sempre: mamma in piedi che serviva tutti (non mangia mai da seduta), Faccia piatta che mangia guardando la televisione, Ringhio con il naso incollato al telefonino e Phard che mangia con la destra e mi imbocca con la sinistra.

    Mi hanno sempre imboccata, nonostante fosse chiaro che potevo tranquillamente usare la mano libera per mangiare da sola. È sempre stato così, forse perché da sola mangerei molto poco: il cibo non mi piace, molto spesso mi fa addirittura schifo, soprattutto se ha una consistenza e una forma non ben definite.

    Ma quella sera c’era qualcosa di diverso: quella sera avevo una gran voglia di fare qualcosa che non avevo mai fatto, di mischiare le carte e lasciare tutti a bocca aperta.

    Mi ricordai improvvisamente di un segno che aveva fatto Naso a punta, prova; ma come potevo fare con una mano sola? Una V con la mano libera, in dorso di quella bloccata portato ad altezza pancia, la mano libera che scorre sull’avambraccio di quella bloccata: PROVA! Ovviamente nessuno aveva capito, anche se avevo fatto di tutto perché tutti mi guardassero. Continuavo a ripetere PROVA, PROVA, e afferravo la forchetta che Phard aveva in mano. A quel punto però dovevo veramente farlo, mangiare da sola, e quello che avevo nel piatto mi sembrava disgustoso; non potevo più tirarmi indietro, però.

    Una forchettata di spinaci e giù per la gola, tenendo la forchetta come uno scalpello che avrebbe dovuto scalfire la pietra, un’altra, un’altra ancora. Mi guardava stupefatto anche Faccia piatta, mio padre ovviamente, che normalmente non si girava nemmeno ai miei strilli.

    Mamma, spaventata, si era avvicinata nell’intento di togliermi la forchetta di mano, ma io l’avevo allontanata con il gomito della mano bloccata e con un grugnito.

    Erano veramente schifosi: filacci acquosi e insipidi che scendevano viscidi giù per la gola. Mi veniva da vomitare, ma non potevo dare la soddisfazione a mamma di dire visto che da sola non può fare niente?.

    Li ho finiti tutti, sotto gli occhi stupefatti di tutti quanti. Solo Ringhio non sembrava stupito, (ma d’altra parte cosa può smuovere un adolescente annoiato e telefonino-dipendente?), aveva scrollato le spalle ed era tornato a scrivere sms.

    Era stata la mia piccola rivoluzione, anzi l’inizio della mia rivoluzione, anche se nessuno lo sapeva.

    A questo punto però occorre fare una precisazione sulla mia famiglia, altrimenti potrebbe sembrare la descrizione di uno stereotipo grottesco da sit-com americana, di quelle dove i padri sono gonfi di birra, le madri casalinghe frustrate che rimpiangono di aver lasciato il proprio lavoro sacrificando tutto per la famiglia e i figli sono sempre tre di cui uno idiota, uno genio e una zoccola. Ma alla fine

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1