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Tessa e basta
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Ebook181 pages2 hours

Tessa e basta

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About this ebook

Tessa ha quindici anni, è Croata e si trova a vivere l’adolescenza durante il conflitto dei Balcani. Scopre che per alcuni lei, ortodossa, è diversa dagli altri. Cresce in fretta, impara cos'è la paura sotto le bombe, il terrore per le minacce di violenza. Ma Tessa non molla, rivendica il diritto a una vita normale. Vuole l’amore e dimenticare. La guerra la inseguirà a lungo, anche fuori dalla sua terra.

LanguageItaliano
Release dateNov 3, 2015
ISBN9781310632730
Tessa e basta
Author

Susanna De Ciechi

Susanna De Ciechi, scrittrice e ghost writer (www.iltuoghostwriter.it) con alle spalle un’esperienza di oltre vent’anni come giornalista freelance, si racconta così: “Passo tutto il mio tempo tra i libri, quelli che leggo e quelli che scrivo, con penna, matita e computer sempre a portata di mano. Vivo e lavoro tra Milano e la Valle d’Intelvi, sopra Como, dove trascorro molto tempo in compagnia di Tina, il mio cane fantasia. Scrivere è il mio mestiere. Con il ghostwriting trasformo in un libro le storie che altri mi raccontano. Solo quelle che mi piacciono. Ho al mio attivo autobiografie, biografie, memoir e messaggi nella bottiglia destinati a essere recapitati a persone speciali. Di recente mi è capitato di “svelarmi” e il mio nome è apparso sulle copertina di alcuni libri: La regola dell’eccesso (2015), Tessa e basta (2015), La bambina con il fucile (2016) e Il mio ultimo anno a New York (2017), scritti come ghost writer e basati su storie vere. A questi si aggiunge Il paese dei tarocchi (2016) un romanzo collettivo scritto con il gruppo de Gli Spiumati, di cui faccio parte e alcune raccolte di racconti. Scrivere narrativa è sempre stato tra le mie ambizioni. A un certo punto della mia vita ho sentito che era arrivato il momento giusto per strambare. Ho tirato fuori il progetto che avevo accantonato da troppo tempo e ho cominciato a scrivere storie basate su vicende reali, romanzandole. Sembra facile, detto così. In mezzo c’è stata la presa d’atto che la scrittura giornalistica non fosse sufficiente per scrivere narrativa a livello professionale, quindi ho dovuto imparare il mestiere dello scrittore e inventarmi il mio modo di essere ghost writer. Alcuni miei narratori (le persone che mi raccontano oralmente le storie che scrivo) sostengono che il mio ruolo sia a metà tra quello del confessore e l’altro, dell’analista. Più semplicemente, io sono una ghost writer perché questa attività mi permette di conoscere persone interessanti, di entrare nelle loro vite e di condividere narrazioni straordinarie attraverso la scrittura. Per me è il mestiere più bello del mondo”.

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    Book preview

    Tessa e basta - Susanna De Ciechi

    Copertina

    Tessa Krevic e Susanna De Ciechi

    Tessa e basta

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 – Tessa Krevic & Susanna De Ciechi

    Email: krevic.deciechi@gmail.com

    Tutti i diritti di riproduzione, adattamento, rielaborazione del testo in qualsiasi forma sono riservati per tutti i Paesi. Ogni violazione sarà perseguita penalmente ai sensi di Legge.

    ISBN: 9781310632730

    Editing e impaginazione: Serena Zonca

    www.autopubblicarsi.it

    Grafica di copertina: Tiziana Etoschi

    www.takekare.it

    Smashwords Edition

    Nota

    Questo è un romanzo autobiografico e, in quanto tale, l'idea attorno a cui ruota prende spunto da alcuni fatti realmente accaduti che sono stati tuttavia trasfigurati e romanzati. Pertanto, i personaggi, le loro caratteristiche e le vicende che li coinvolgono sono unicamente frutto della creatività degli autori e ogni riferimento a nomi, persone, luoghi, situazioni eventualmente esistenti è puramente casuale.

    A mia madre.

    Ai miei figli.

    A mio marito che mi ha aiutato a superare le paure e le ferite della guerra, l’uomo meraviglioso con cui rido, mi arrabbio e condivido ogni mia avventura.

    A tutti loro, dedico questo libro con amore.

    – Tessa Krevic

    Indice

    Prologo

    1. Cetnik

    2. Tessa e basta

    3. Etnicko ciscenje

    4. Il senso della guerra

    5. Vite sospese

    6. L’italiano

    7. Mani tese

    8. Oltre il ponte

    9. In fuga

    10. Nuovi inizi

    11. La gabbia

    12. Il riscatto

    13. Rinascimento e dintorni

    Note

    Ringraziamenti

    Contatti

    Prologo

    Ho conosciuto Tessa Krevic nel 2014, una sera d’estate. Mi ha chiesto di aiutarla a trovare le parole per mettere su carta la storia della sua vita. L’ho fatto. Ora la storia è tutta chiusa in questo libro, scritto a quattro mani da lei e da me.

    È una storia dura che racconta della guerra in Jugoslavia vista attraverso gli occhi di un’adolescente.

    Allo scoppio del conflitto, durato dal 1991 al 1995 e ispirato alla pulizia etnica, Tessa aveva quindici anni. È cresciuta mostrando una straordinaria determinazione alla vita. Non ha mai ceduto ai soprusi e alla paura, ha conquistato un destino diverso, ha scelto di indirizzare il futuro nel segno delle sue attese.

    Tessa non porta rancore né odio verso nessuno, ha accettato quello che le è accaduto durante la guerra. Con questo libro vuole testimoniare ai giovani un’esperienza che non deve andare persa.

    Nell’arco di tempo in cui abbiamo lavorato insieme, il clima politico in Croazia è cambiato e non in meglio. Le elezioni presidenziali di gennaio 2015 hanno visto vincitrice Kolinda Grabar Kitarovic, esponente dell’Hdz, il partito nazionalista istituito alla fine degli anni Ottanta da Franjo Tudjman. È una virata a destra, una conferma della presa ancora esercitata dalla retorica patriottica che asseconda il ritorno delle politiche nazionaliste diffuse dopo l’indipendenza e la guerra nei Balcani.

    Si torna dunque a respirare un clima oppressivo di cui fanno le spese coloro che non rientrano nelle fila dell’Hdz.

    Oggi Tessa ha percepito le avvisaglie di un antico malessere, lo stesso che aveva già descritto nel libro: …un sottile disagio nei rapporti con alcuni colleghi di lavoro, con certi conoscenti. Talvolta con qualcuno degli amici più cari e perfino con taluni parenti. Tutto era come sempre e nulla era uguale a prima.

    Ha riconosciuto uno scenario già visto e vissuto.

    Uno scenario che fa paura.

    Per questo motivo ha scelto di pubblicare il libro con lo pseudonimo di Tessa Krevic, nascondendo la sua vera identità dietro un nome di fantasia.

    Susanna De Ciechi – 2015

    …tutto ciò che questa nostra vita esprime – pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri – tutto tende verso l’altra sponda, come verso una meta, e solo con questa acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare qualcosa, a oltrepassare: il disordine, la morte o l’assurdo. Poiché tutto è passaggio, è un ponte le cui estremità si perdono nell’infinito e al cui confronto tutti i ponti di questa terra sono solo giocattoli da bambini, pallidi simboli. Mentre la nostra speranza è su quell’altra sponda.

    Da I ponti di Ivo Andrić (1963)

    Gli spazi balcanici contengono più storia di quanta ne possano consumare.

    Winston Churchill

    1

    Cetnik

    ¹

    Croazia, settembre 1993.

    «Ehi, guardate quella lì.» Uno basso, tarchiato, l’espressione ottusa dentro una faccia rossa, resa intensa da un reticolo di rughe scolpite nella pelle, posò il bicchiere sul tavolo di legno con uno schiocco secco. Aveva parlato a tutti e a nessuno. Erano le tre del pomeriggio. All’esterno del bar c’era una mezza dozzina di uomini intenti a bere vino, nonostante il caldo.

    «Lo sapete chi è quella lì? Lo sapete?» insisteva alzando sempre di più il tono, il dito teso a indicare due figure che avanzavano lente. Gli altri tacevano, indifferenti sia a lui sia alle ragazze, poco più che bambine, che stavano attraversando la piazza per avviarsi in direzione del corso, ignare di tutto. Ancora qualche decina di metri e sarebbero arrivate davanti al portico che ospitava i tavoli all’aperto.

    «Ehi, gente! Guardate. Dico la biondina. Mica c’avete di meglio da fare.» Qualcuno di quelli chiamati in causa aveva alzato la testa e fissava le due ragazzine, ormai prossime. Uno dalla faccia butterata dall’acne era uscito dall’ombra per pararsi davanti a loro.

    Smarrite.

    Mute.

    Impaurite.

    In giro pochissima gente: uomini, qualche donna con la borsa della spesa, una giovane spingeva una carrozzina. Camminavano in fretta, con gli occhi bassi, fingevano di non vedere ciò che stava accadendo.

    «Chi sono? Cosa vogliono?» Sanja sottovoce, il respiro sospeso.

    «Non so.» Tessa prese per mano l’amica e la trascinò di lato nella piazza, per aggirare l’ostacolo. L’uomo seguì il movimento, bloccandole.

    «Tu bionda, puttana!» Si mise a sbraitare gonfiando le guance e sputando a terra. «Tu puttana, tu sei una cetnik.»

    «Ve lo dicevo io. E non mi davate retta.» Adesso era quello di prima, il tracagnotto, a farsi avanti. Gli altri si limitavano a osservare ciò che stava capitando, come se la cosa non li riguardasse.

    «Però sei una bellezza!» Brutta pelle lanciò in giro un sorriso sdentato.

    «Una bella cetnik. Tutta per noi.» Anche il bassetto adesso stava a braccia conserte e gambe larghe davanti a Tessa.

    «Lo sapete di chi è figlia, vero?» disse rivolto a quelli del bar. «Dai, divertiamoci un po’! Scopiamola per bene. La figlia di un cetnik.»

    «Siete impazziti?» Sanja gridò, la voce come un latrato, mentre Tessa iniziava ad arretrare.

    «Sì, le strappiamo i vestiti. Dai! Poi la scopiamo. Tutti quanti. Anche i vecchi.» Il tarchiato esplose in una risata cattiva. Era il più infoiato. La tensione tra i tavoli del bar era alle stelle.

    «E poi andiamo al fiume e l’anneghiamo nell’acqua bassa, piano piano. Che si accorga di morire.» Piantò gli occhi in faccia alla bambina. «Potrai ammirare le punte dei pini mentre tiri fuori l’ultimo fiato a pelo d’acqua. Cosa ne dici, cetnik? Ti piace il programma?»

    Tessa, pallidissima, rispose con un singhiozzo. Sanja le teneva sempre stretta la mano, lo stesso le stava lontana per tutta la lunghezza del braccio.

    Amiche, ma distanti.

    In una manciata di minuti tutto era cambiato.

    Il mondo aveva dichiarato guerra a Tessa.

    2

    Tessa e basta

    Jugoslavia, 1975-1990.

    «Come sta la bambina?» Marko Krevic stava impettito dietro il vetro della nursery, un sopracciglio alzato e quell’aria un po’ supponente di chi è abituato a comandare.

    «È piccola, tanto piccola. Che altro c’è da aggiungere?»

    Sua moglie Danica era insofferente alle chiacchiere degli uomini, soprattutto nelle occasioni in cui non avevano titolo per aprire bocca. Cvita, l’altra nonna di Tessa, le aveva lanciato uno sguardo d’intesa.

    «Quanto è bella!» Niko Ladic, marito di Cvita e nonno materno della piccola Tessa, aveva un tono sognante, gli occhi acquosi per la commozione.

    «Però non illudiamoci.» Marko non amava mettere in mostra le emozioni. «Potrebbe non farcela, anche se sembra che tutto stia andando bene.»

    «No!» Danica lo fissò con astio. «Ce la farà di sicuro. L’hanno messa qui solo per precauzione.»

    «È nata di otto mesi, per forza è gracile, la pelle vuota e rugosa. Pare una vecchina! Lo stesso non bisogna dire queste cose. Porta male.» Cvita non riusciva a smettere di guardare la bambina che dormiva nella culla del reparto immaturi. Lei e nonno Niko stavano stretti in un abbraccio.

    Mia madre mi aveva raccontato questa scena decine di volte. Il colloquio tra i mei nonni si era svolto il giorno dopo la mia nascita. Nessuno si era accorto che la mia mamma stava nascosta dietro lo stipite della porta. Voleva vedermi e si era trascinata fin lì dalla sua camera, nonostante i postumi del parto. Anche lei temeva che non sarei vissuta a lungo.

    Invece ce l’ho fatta, li ho smentiti tutti.

    Nel 1975 i miei genitori, Marija e Luka Krevic, avevano rispettivamente venti e ventidue anni e vivevano in affitto in una vecchia casa, piccola e umida. Io ero nata il quattro novembre, in autunno inoltrato. Quell’anno il freddo dell’inverno era in anticipo sulla stagione. Nonno Niko decise che avrei avuto un’occasione in più di cavarmela se mi avessero tenuto a casa loro almeno fino a primavera. Lui e nonna Cvita stavano in un appartamento ben riscaldato, dove lo spazio non mancava. I miei genitori acconsentirono, anche se un po’ a malincuore. Per me era la soluzione migliore.

    I nonni mi sottoposero a un regime alimentare molto ricco per compensare le carenze della nascita anticipata. Da allora mi è rimasto il piacere di poter disporre di cibo in abbondanza. La golosità mi ha portato spesso a mangiare troppo. Anche in seguito, appena potevo arraffavo biscotti e cioccolata, mi piacevano anche la frutta, il pane fresco con burro e zucchero, le marmellate. A volte mi abbuffavo fino a fare indigestione e poi vomitavo sotto lo sguardo costernato della nonna.

    Di quegli anni ricordo il calore delle tante coccole e dei calzini. Sì, calzini di tutte le tinte, a righe, rossi, neri, gialli, blu, di cotone o di lana a seconda della stagione, calzini che in alcune occasioni, quando sono stata più grande, ho odiato, ma che ero costretta a indossare perché mi preservavano dalla debolezza che mi veniva dall’essere nata di otto mesi. Almeno secondo nonna Cvita che, quando ero piccola, ne confezionava a tonnellate.

    Ho trascorso lì anche gli anni delle elementari perché la scuola era molto vicina alla casa dei nonni Ladic.

    «Rooooooarrr!» Con le labbra protese in avanti simulavo il rumore di un motorino: «Pista, fate largo». Premevo sui pedali del mio triciclo rosso, un regalo del nonno, sfrecciando lungo il corridoio; entravo e uscivo dalle camere da letto per fare manovra, poi tornavo indietro di corsa fino al soggiorno. Quando ero stanca di pedalare mi tuffavo sopra un vecchio divano rivestito di un tessuto disegnato a scacchi beige e marrone. Abbassando i braccioli si trasformava in un letto. Gli avevo dato un nome, Miki; era la mia cuccia, luogo di giochi, di riposo e di consolazione quando ero malata. Accovacciata tra i cuscini di Miki guardavo la televisione oppure fantasticavo di storie impossibili, semisdraiata con la testa appoggiata al bracciolo e le gambe raccolte di lato. A volte mi abbandonavo alla lettura di una delle mie storie preferite, poi le braccia che reggevano il libro si abbassavano insieme alle palpebre e sprofondavo nel sonno pomeridiano.

    Nel 1979 nacque mio fratello Goran, io avevo quattro anni.

    Anche lui, come me, passò parecchio tempo a casa dei nonni. Del resto i nostri genitori facevano lavori che li impegnavano molto: mamma era un’assistente sociale e papà lavorava da poco in una ditta che trattava merci varie all’ingrosso.

    I nonni Cvita e Niko abitavano al terzo piano di un palazzo di dodici; su ogni pianerottolo si aprivano le porte di cinque appartamenti. C’erano tante famiglie con bambini. Insieme facevamo giochi semplici che oggi non sono più di moda: l’elastico, la ballerina, uno-due-tre stella e ci divertivamo con l’hula hop. Io andavo sui pattini che mi facevo prestare da qualche amico, ma in particolare ci piaceva gruppo cerca il gruppo, il gioco più bello di tutti.

    Eravamo una quindicina di ragazzini dagli otto ai dodici anni circa, ci dividevamo in due squadre e una doveva individuare l’altra che si nascondeva muovendosi nel quartiere. Per rendere meno difficoltosa la ricerca, la prima squadra seminava in giro alcuni indizi: un disegno fatto con il gesso colorato sull’asfalto del marciapiede, un fazzoletto annodato a un lampione, una scatola di biscotti vuota, abbandonata su un davanzale. Avevamo stabilito di avere due ore di tempo per chiudere il gioco. Nessuna delle due squadre si risparmiava; affrontavamo percorsi pericolosi passando nei tunnel sotterranei e attraverso i binari della ferrovia. Non avevamo orologi, ci regolavamo con il sole o valutando l’intensità del flusso dei passanti che andavano o tornavano dal lavoro oppure con la chiusura e l’apertura dei negozi, in relazione a quando iniziava

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