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Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso
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Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso

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Quali sono le figure, gli oggetti e i nomi ricorrenti del lavoro di Carmelo Bene? Sono nomi di personaggi teatrali (Amleto, Otello, Macbeth), di burattini (Pinocchio), di poeti (Majakovskij), di poeti/filosofi (Leopardi).

Sulle loro variazioni e riprese attraverso le più diverse pratiche significanti, nonché sulle contaminazioni cui queste danno continuamente luogo, è incentrato il presente saggio: fantasmi che vanno, vengono, spariscono, restano in agguato come ossessioni, tornano, si incarnano sulle scene teatrali, sui set cinematografici, in televisione, alla radio, in concerto, sulla pagina scritta, su molteplici varianti e metamorfosi, che riguardaano allo stesso tempo il Corpo, l’Immagine e la Voce.
LanguageItaliano
Release dateNov 9, 2012
ISBN9788881019335
Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso

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    Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso - Alessandro Cappabianca

    Paesi.

    INTRODUZIONE

    Dieci anni fa (il 16 marzo 2002) moriva Carmelo Bene – anche se non sono sicuro che sia giusto utilizzare il verbo morire per qualcuno che sosteneva di non essere mai davvero nato. Questo studio è imperniato sulle figure, gli oggetti e i nomi ricorrenti del suo lavoro, nomi di personaggi teatrali (come Amleto, Otello, Macbeth), di burattini (come Pinocchio), di poeti (come

    Majakovskij), di poeti/filosofi (come Leopardi), sulle loro variazioni e riprese, attraverso le più diverse pratiche significanti, nonché sulle contaminazioni cui queste danno continuamente luogo: fantasmi che vanno, vengono, spariscono, restano in agguato come ossessioni, tornano, si incarnano sulle scene teatrali, sui set cinematografici, in televisione, in radio, in concerto, sulla pagina scritta, attraverso molteplici varianti e metamorfosi, che riguardano allo stesso tempo il corpo, l’immagine e la voce.

    Proprio con l’immagine, forse, Bene ha avuto i rapporti più problematici, in relazione al periodo (breve) delle sue esperienze cinematografiche, che tuttavia continuiamo a ritenere fondamentali, non solo in ragione delle loro metamorfosi attraverso il passaggio verso altri media, ma anche della rilevanza filosofica che non esitiamo ad attribuir loro.

    Ciò che qui si vorrebbe evidenziare, infatti, è che ogni immagine di Carmelo Bene è espressione di pensiero, sotto forma di depensamento, nel momento stesso in cui viene cancellata, o contestata, la sua evidenza. Mostrare il nulla dietro il preteso qualcosa (dietro l’immagine) ci sembra l’impresa filosofica di Carmelo Bene; e ci pare, appunto, che questa impresa dimostri in pieno la difficoltà del suo compimento specialmente nel cinema, dove da ogni parte appaiono più forti gli agguati del (buon) senso.

    Gilles Deleuze, in Un manifesto di meno[1], ha scritto sul teatro di Carmelo Bene, apponendo ai rispettivi paragrafi titoli come Il teatro e la sua critica, Il teatro e le sue minoranze, Il teatro e la sua lingua, Il teatro e i suoi gesti, Il teatro e la sua politica, che echeggiano, ovviamente, un altro titolo famoso come Il teatro e il suo doppio – ma l’affinità con Antonin Artaud, più che nella pratica teatrale, si registra forse nel cinema[2], a cominciare dal rifiuto che tutti e due (Artaud e Bene) a un certo punto, dopo iniziali entusiasmi, hanno espresso nei suoi confronti.

    È noto che Bene, come Artaud, a un certo punto, nel cinema ha smesso di credere ed è tornato al teatro: a questo ritorno, però, si è accompagnata un’opera di quasi sistematica trasfigurazione (non registrazione) in video dei suoi spettacoli, trasfigurazione che teneva conto delle esperienze cinematografiche acquisite e le portava avanti con il ricorso alle nuove tecnologie elettroniche, specie sul piano sonoro. Non si trattava tanto di documentarli, quanto in un certo senso di evidenziare la labilità del loro continuo costeggiare lungo i bordi del Nulla.

    Certo, rispetto al cinema, non ci sono solo differenze di tecnica e di supporto (nastro invece di pellicola), a monte delle quali esistono comunque modi di produzione assai diversi. In ogni caso, la produzione video (e radiofonica) induce a riconsiderare retrospettivamente anche i film come concerti per voci e immagini, sempre eseguiti sull’orlo della cancellazione.

    Il teatro, certo, rimane alla base di tutto. Il teatro e il suo spazio, che le opere video, senza diluirlo, dilatano in un certo modo e i film in un altro. Se l’organizzazione dello spazio scenico (previa dis-organizzazione di quello tradizionale) è la matrice del lavoro di Bene, bisogna sottolineare che la trasfigurazione televisiva conserva comunque certe caratteristiche di quello spazio, ne mantiene l’unità, sia pure giocandola a livello di inquadrature, di montaggio, di alternativa tra luce e ombra. Per questo parlo di trasfigurazione, perché le figure spaziali sottese, trasportate in un altrove dotato di differenti caratteristiche materiali, restano comunque riconoscibili (o ricostruibili). Il cinema, invece, tende a distruggere lo spazio teatrale, fa a meno delle unità di tempo e luogo, volentieri proietta all’esterno la cosiddetta azione, si affida al movimento come racconto (ed è proprio questo che il cinema di Bene non accetta).

    Anche il teatro, però, nel momento in cui ad esso si ritorna, assume paradossalmente il sogno della dislocazione filmica e televisiva (in esso già implicita, nel caso di Bene), prospettando l’utopia d’una recita che si svolge al Quirino, per un pubblico seduto in platea all’Argentina. Voce/ascolto e voce/proferita si dissociano, riassociati dalla tecno-teologia. Le figure nascoste, i fantasmi, le ossessioni, allora percorrono tempo e spazio, variabili, ma in fondo sempre testardamente riconoscibili, attraversando le prove delle più impensate metamorfosi.

    Insomma, dopo aver girato cinque splendidi lungometraggi più due cortometraggi (dal ‘68 al ‘73), Carmelo Bene aveva scoperto il peccato capitale del cinema, quello che non era disposto a perdonargli: il suo dipendere dall’immagine come corrispondenza meccanica al referente-immagine come balocco futile, veicolo colorato del racconto, pronta a rinnegare la sua natura di fantasma. Azione senza azione. Benché, poi, lui avesse fatto di tutto per evitarlo, questo peccato, riuscendovi brillantemente.

    È per questo che torna al teatro? Si può anche dire così, purché sia chiaro che si tratta non solo di un teatro che tiene conto della strumentazione tecnologica del cinema (nel rapporto sonoro/immagine), ma è anche pronto a trasformarsi in montaggio elettronico di immagini e suoni. Insomma, se lasciava il cinema (in senso stretto), Carmelo Bene non lasciava l’immagine, nel senso che non (tra)lasciava di torturarla, sminuzzarla e insultarla. Il risultato (teatro + elettronica) si potrebbe definire cinema senza cinema o anche oltre-cinema; ma una volta preso atto di questo, occorre rendersi conto di un fenomeno inevitabile di riverbero, per cui anche i film in senso stretto (i cinque lungometraggi più Hermitage e Ventriloquio) andranno iscritti, retrospettivamente, all’universo dell’oltre-cinema. Come fossero oltre-cinema fin dall’inizio.

    Con oltre-cinema indichiamo dunque un superamento del cinema. Vero che questo essere-oltre designa al tempo stesso per Bene, almeno da un certo punto in poi, un essere-contro e che essere-contro implica comunque una sorta di vicinanza, di lotta corpo a corpo. Meglio allora parlare di contro-cinema piuttosto che di oltre-cinema? Forse. O forse è più proficuo pensare che qui si tratti di una lotta con l’angelo, che nel caso di Bene è lotta contro l’immagine di se stesso – e non si lotta contro l’immagine di se stesso, se non andando, nietzschianamente, oltre la propria immagine – tanto oltre, da perderla, a un certo punto, per strada. O dimenticarla in uno specchio.

    Cos’è l’oltre-cinema, insomma? Perché usare questa espressione, a proposito di Carmelo Bene?

    André Bazin aveva coniato il termine sur-western per indicare «l’insieme delle forme adottate dal genere [il western] dopo la guerra»[3]. Precisando poi: «Diciamo che il sur-western è un western che si vergognerebbe di non essere che se stesso e che cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico»[4].

    La particella oltre, come il sur di Bazin, indica dunque un arricchimento, e se la si premette non a un genere, ma al cinema in generale, segnala appunto la necessità di un arricchimento del cinema, dunque la coscienza di una sua inadeguatezza e l’esigenza di un suo superamento. Il cinema può superare questa inadeguatezza, proprio nella misura in cui è in grado di accogliere un valore aggiunto, restando cinema, ma diventando in certa misura altro: teatro, video, musica, romanzo, radio, televisione, performance vocale[5]. Altro e di più, tutto insieme, ma riassumibile in questa formula: il valore aggiunto dell’oltre-cinema di Carmelo Bene, alla fin fine, era Carmelo Bene – corpo, voce, presenza, assenza. Unica e moltiplicabile, visibile o invisibile, sempre incombente.

    Al di là del discorso specifico sul cinema, peraltro, anche Umberto Artioli aveva parlato, riferendosi alla prassi attoriale di Carmelo Bene, di un’esperienza dell’oltre, attorno alla quale ha sempre ruotato la mistica, in ogni tempo – anche se Bene tendeva a non accettare a cuor leggero qualunque discorso di cui si potesse sospettare una coloritura di misticismo come superamento del corpo. Artioli, però, coglieva in Carmelo Bene un oltre del corpo, non come trascendenza in direzione dello spirito, ma come vuoto, come punto segreto in cui il visibile trascorre in udibile: voce in quanto musica, sonorità immateriale, evenienza del suono interiore.

    Si può dire allora che la sperimentazione televisiva, per Bene, sia stata luogo di superamento del cinema, ma anche del teatro, allo stesso modo in cui la sperimentazione sulla voce (meglio, sulle voci) è stata luogo di superamento dell’immagine – il risultato è uno splendido ibrido, una magnifica mostruosità: la voce-immagine (o l’immagine-voce).

    Si ritiene, in genere, che il corpo abbia (emetta) una voce o che, al massimo, sia in grado di modulare una pluralità di voci (virtuosismo massimo dei bravi attori); si tratta, invece, di mettere in funzione una voce che abbia un corpo, dunque il corpo di una voce, capace di manifestarsi anche laddove non ci sia traccia visibile di corpo. Non voce-off, semmai corpo-off: fisicità intrinseca d’una voce, eventualmente evidenziata, ritoccata, scolpita, modellata (non solo potenziata) dalle apparecchiature elettroniche.

    Ma se dire corpo della voce ha un senso, ha un senso parlare di voce-immagine? Ha davvero un’immagine, la voce, al di là dei diagrammi con i quali tecnici e scienziati la misurano e usano rappresentarla nei grafici? Evidentemente, un conto è l’immagine, un conto è il fenomeno sonoro. L’importante, allora, è scindere l’eventuale legame tra i due, fino a renderlo qualcosa di sospetto, o comunque di indecidibile. Se nell’Otello la voce di Cosimo Cinieri sembra quella di Carmelo Bene (o viceversa), ecco che l’immagine/Cinieri si stacca dalla sua voce: immagine e voce vivono ciascuna per conto proprio. Non viene meno l’immagine, non viene meno la voce – viene meno la loro reciproca co-appartenenza.

    Così, a sfaldarsi è il soggetto, è l’identità. Dell’attore e del personaggio. Jago diventa Otello, Otello Jago[6], allo stesso modo in cui Otello trasmette la sua nerezza agli altri personaggi, Desdemona compresa, e nel far questo, da parte sua, si sbianca. Così Mastro Ciliegia, Geppetto, la Fatina Azzurra, diventano burattini, alla stessa stregua di Pinocchio.

    È esatto dire che la voce proveniente da un apparecchio di registrazione, anche se manipolata elettronicamente, e magari resa irriconoscibile, conserva la materia di sostanza fonica; e, ciò che più importa, non tradisce il ruolo e la funzione del teatro. Nel caso di Bene, ha scritto Piergiorgio Giacchè:

    Un potente sistema di microfoni e casse acustiche (e "monitor e magnetofoni vari e cassette per musica e rumori di repertorio...") – disperso ovunque come il laboratorio di un rumorista (proprio come preconizzava la scenografia del S.A.D.E.) oppure concentrato attorno al trono di un attore-cantante – prende tutto lo spazio, anzi tutto il volume del teatro, fagocitandolo ma soprattutto risvegliandone e potenziandone la sua originaria funzione: cos’altro è o era il teatro se non una cassa o la casa dell’amplificazione sonora?[7].

    L’immagine fotografica o cinematografica o elettronica invece cambia natura (perde peso e materia) rispetto a corpi, cose, oggetti. Diventa inconsistente, gioco di luci. Ulisse, agli Inferi, riconosce sua madre, ma non può abbracciarla. Può vederla, può udirne la voce come se fosse viva; ma non può toccare il suo corpo, perché il suo corpo non esiste più – quella è appunto juste une image, uno spettro, un fantasma immateriale (se si parla di corpo dell’immagine ci riferiamo al massimo alla sua maggiore o minore definizione).

    Carmelo Bene lavorava in teatro per concerti di voci e di corpi. Ha girato film, come concerti di voci e immagini. Ha infine montato il suo teatro per la tele-visione, bypassando il cinema – ossia, ha montato voci, suoni e immagini di corpi che erano già predisposti per il (suo) teatro: non più immagini di corpi veri, come era ancora possibile ritenere avvenisse nei film, ma immagini di corpi già teatralizzati, già non più corpi (statue barocche semoventi, maschere, burattini, automi). I lavori tele-visivi, dunque, sarebbero definibili più esattamente come concerti per voci e corpi perduti. Il che significa che anche le voci sono perdute, disperse, senza più appartenenza.

    A pensarci bene, dopo tutto, non c’è

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