Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente
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Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente - Roberto De Gaetano
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INTRODUZIONE
Sono convinto, ormai da tempo[1], che Nanni Moretti sia l’autore italiano che più di altri ha saputo leggere il presente, percepirne gli smarrimenti, rappresentarne le fratture, ma soprattutto riconsegnarcene le maschere, private e pubbliche, che lo hanno attraversato e per molti versi composto.
Da Io sono un autarchico ad Habemus Papam, nel cinema di Moretti è in gioco una radicale crisi della presenza, della presenza del soggetto al mondo, che assume e prende le forme della nevrosi e dello spaesamento, e che soprattutto trova copertura nella costruzione di maschere, esagerate, idiosincratiche, capaci comunque di cogliere profonde verità.
Una perdita della presenza, data dallo smarrimento di alcune coordinate capaci di regolare le forme di vita ordinarie di un individuo, o di una comunità, piccola (famiglia) o grande (società) essa sia.
Ma le cose sono indisgiungibili: non c’è da un lato qualcosa come un individuo che entra in crisi per fragilità psicologica, e dall’altro una comunità come insieme oggettivo e astratto di valori condivisi. Tutt’altro, non c’è processo di individuazione che non si misuri con una generalità di cui è specificazione, e non c’è generalità che non sia soggetta ai processi di modificazione, frutto della creatività individuale.
Detto altrimenti: quello che è in gioco nel cinema di Moretti è il destino del soggetto borghese, sospeso fra libertà e vincolo, individualità e legame, pressione del simbolico e derive dell’immaginario. Ma in questo gioco non c’è sutura, perché nelle forme progressive e radicali di insularizzazione sociale il simbolico non fa più da argine, e il soggetto deflagra nella frattura fra richiesta illimitata e sua inadeguatezza, per cui ciò che emerge è una sua inesorabile deriva, che assume vere e proprie forme di destrutturazione dell’identità (regressione infantile), che trova solo nell’indossare la maschera la vera (e spesso unica) forma di esistenza.
Lo smarrimento della presenza è il contrassegno della presenza di un presente senza passato, rimosso nevroticamente o cancellato (Palombella rossa) e senza futuro (sospeso tra inimmaginabilità e sovraccarico d’ansia), abitato solo dal dolore, dallo spaesamento o dalla spudoratezza.
Un presente senza spessore, senza passato né futuro, senza respiro né individuale né collettivo, è un presente inesperienziale, sospeso fra nevrosi e vuoto. Ebbene, questo presente che manca a se stesso perché non riesce a fuoriuscire da sé può prendere consistenza solo nelle maschere e attraverso maschere. Ma queste maschere sono fragili, ribaltano il dolore in aggressione, l’inadeguatezza in affermazione di principi, la parola indecisa nel giudizio inesorabile. Non lasciano spazio, aria, si modellano sulla faccia del soggetto, non riuscendo però a nascondere le sue ferite. Senza la maschera il soggetto si trova abbandonato al suo spaesamento (Silvio Orlando nel Caimano), al suo dolore, alla sua inadeguatezza rispetto a compiti che lo sovrastano (Habemus Papam); ma con la maschera, il soggetto, nascondendosi in primo luogo a se stesso, rende il dolore più duro e pietrificato perché lo salda all’atto che, nascondendolo, gli preclude la possibilità di risolverlo, e dunque di concedere al soggetto una possibilità di felicità.
Non c’è sapere o fede che possa restituire fiducia nel mondo: un mondo senza fiducia o ci è riconsegnato nelle sue forme demoniche e nere o necessita di un filtro comico-grottesco per poter essere tollerato e portato a rappresentazione. Le maschere del presente sono quelle che saldano il presente alla sua assenza, che ne sanciscono il dissolversi dietro atti e posture che non fanno che nascondere dietro una logica imperativa (il dover essere di Michele Apicella) l’incapacità di aprirsi alla vita in tutta la sua radicale contingenza, cogliendone tutte le sue possibilità (poter essere altrimenti).
Nel quadro di un presente, composto da spaesamento e dolore, emerge la maschera della spudoratezza (il caimano), quella che, interpretando e cavalcando un presente smarrito e senza spessore, lo utilizza in una logica della presa
e del godimento immediato.
Ed ecco che le maschere del presente politico (che sono di fatto maschere del potere, delle pratiche e degli immaginari che lo sostengono), alimentano, e dunque sfruttano, un sentimento diffuso di spaesamento, di mancato costituirsi dell’esperienza, ribaltandolo nel suo opposto, nel successo ridente ed esibito di chi trasforma lo smarrimento in esaltazione e trionfo, e l’assenza di futuro in opportunità per eternizzare un presente del puro godimento senza desiderio alcuno (di cui l’immaginario del bunga bunga costituisce l’ultima deriva).
Nelle forme idiosincratiche ed aggressive della maschera di Michele Apicella, o in quelle spaesate ed inquiete, modellate sullo stesso privato di Moretti, fino alla spudoratezza del caimano/Berlusconi o alla inadeguatezza di Michel Piccoli/papa, il cinema di Moretti ha saputo mettere in immagine come nessun altro il dolore, la rabbia, lo sconcerto, e il ridicolo di tutte le forme di sopravvivenza (nella sconfitta o nell’illusorio dominio) in un presente oramai smarrito. Un presente i cui saperi e i cui poteri sembrano franati. Dalla scuola (Bianca) alla chiesa (La messa è finita) al partito (Palombella rossa), dalla psicoanalisi alla religione e al loro incontro (Habemus Papam), non sembra esserci nessun possibile orientamento nella comprensione del mondo, per cui l’individuo nella sua fragile autonomia non può far altro che difendersi (aggredendo), smarrirsi (senza possibilità di ritrovarsi) o voracemente e spudoratamente godere di un presente dissolto.
Roma, aprile 2011
[1] Perlomeno dalla pubblicazione de La sincope dell’identità. Il cinema di Nanni Moretti (Lindau, Torino 2002), di cui il presente volume costituisce un sostanziale aggiornamento, non solo per l’aggiunta della parte IV e per la presente introduzione, che sostituisce quella precedente, ma per una complessiva revisione e riscrittura del testo.
Parte I
LA PROFONDITÀ E LA SUPERFICIE
Nel cinema di Nanni Moretti è in gioco qualcosa che, se da un lato risponde all’emergere di istanze contingenti, determinate e attuali (la gioventù, il disagio generazionale, l’impegno politico, la maturità, Roma, il presente), dall’altro tira in ballo problemi di carattere universale, riassumibili nell’idea della continua, fragile, infinita, allo stesso tempo drammatica e comica, ricerca del senso dell’esistenza, una ricerca radicalmente sociale, che mette in relazione – conflittuale piuttosto che armonica – l’io e gli altri, l’io e la società, come è tipico del nostro cinema. È il dramma comico di una soggettività smarrita nelle forme inautentiche della vita sociale, rispetto alle quali non sa stare dentro né rimanere fuori, né isolarsi né adeguarsi. Da questo si sviluppa tutto il teatrino grottesco del continuo distinguersi, attraverso il perenne riposizionamento rispetto a se stessi, agli altri, al mondo. È il movimento surplace di una maschera crudele e spietata, che non lascia spazio alla vita, lontana dalla cinica ribalderia di un istrionismo e camaleontismo infantile (sono le maschere di Carlo Verdone), che non accetta di risolversi nel vincolo sociale, ma non accetta neanche di eluderlo («io credo negli uomini»), e che sembrerebbe trovare nella minoranza («io credo in una minoranza») una possibilità, un’alternativa, prima di rendersi conto che è proprio nella minoranza, nei cliché di nicchia, che si annidano i pericoli maggiori: tutto sommato è molto meglio, per il suo potere agglutinante, la musica leggera, Flashdance, Il dottor Zivago, rispetto al linguaggio allusivo di tanta critica alternativa
.
Un soggetto smarrito fra la sua ridicola pretesa di assoluto, con la conseguente crudeltà idealistica
verso se stesso, che definisce il grottesco della maschera (si aggredisce ciò che manca all’ideale, dimenticando che è l’ideale stesso la forma della mancanza e dell’aggressione), e il riconoscimento che di assoluto c’è solo la relatività dell’esistenza: lo sciogliersi gioioso della maschera nella libertà del personaggio nel romanzesco diaristico: Caro diario e Aprile. Al di là di questo, sembra rimanere soltanto la presenza lancinante del dolore e della morte nella trasposizione basso-mimetica della forma tragica che, come nel dramma borghese, può prendere solo le forme della disgrazia, sostitutiva, ma non del tutto, della colpa: La stanza del figlio.
È un cinema, quello di Moretti, che nel suo raccontare il presente, anche nelle forme della sua radicale contingenza e attualità (che passa anche attraverso l’inserimento di materiali esplicitamente datati ed eterogenei alla finzione, come spezzoni di telegiornali, di dibattiti politici ecc.), è attraversato – e perfino implicitamente strutturato – da modelli profondi, che trovano un radicamento nella nostra tradizione cinematografica.
Sono: 1) da un lato i modelli della commedia grottesca, che funzionano come formante tematico e stilistico per esagerare e caricare situazioni e maschere, e che trovano la loro ragion d’essere nel racconto di un presente (privato o pubblico) la cui vicinanza totale, non riuscendo a tradursi in una messa a distanza narrativa e verosimile, trova nella lente grottesca il suo tratto di determinazione e definizione, che permette alla rappresentazione di eludere ogni istanza puramente cronachistica: Il caimano; 2) dall’altro le forme dell’immagine neorealista, dell’erranza, della veggenza e dell’imperativo etico, che non riesce a tradursi in azione, a segnare e definire i motivi più propriamente romanzeschi del cinema di Moretti; 3) infine le forme del tragico basso-mimetico, che definiscono un pathos e una forma-melodramma, sia pure congelata.
Ma se commedia e romanzo affermano un principio dialogico, ambivalente, quel misto di tragico e comico, di riso e pianto, che caratterizza gran parte dell’opera di Moretti, il tragico basso-mimetico sposta le forme verso un piano monologico, verso un pianto senza riso, verso un dolore che non comporta distanza ironica. Il dolore che, definendo sempre uno spazio di autenticità, nei film precedenti a La stanza del figlio occupava una sorta di sfondo, di retropiano (contaminato sempre con elementi comici), in questo film occupa tutto lo spazio della scena. E questo ci permette di misurare la novità di un film che non presenta un nuovo assoluto dal punto di vista tematico (l’ideale, il dolore, la morte), ma che prosciuga ogni ambivalenza tragicomica, ogni segno grottesco, ribaltando tutto sull’univocità di un piano tragico. Con Il caimano Moretti, superata la parentesi patetica, torna alle forme della commedia grottesca.
La questione del soggetto e della sua identità passa, nella forma-commedia, per la maschera, nel romanzesco per il personaggio, nel tragico per la figura. Nel caso della maschera, una maschera rigida e non modulabile (quella di Michele Apicella), il soggetto si manifesta come colui che, inscindibile dalla maschera stessa, la eccede; nel caso del personaggio romanzesco e della sua plasticità, il soggetto tende a sciogliersi nel personaggio, a farsi personaggio, e quindi ad acquisire tutta la libertà che ne deriva (Caro diario e Aprile); nel caso del tragico il soggetto si è fatto figura astratta, smarrendo la dialettica comica che definiva i rapporti irrisolti con la società, e la leggerezza che caratterizzava la ricerca di un destino nella forma romanzesca, e si ritrova con l’assegnazione dall’esterno
di un destino, al quale sembrava essersi sottratto con quella raggiunta serenità quasi anodina (padre e marito felice), che non sembrava prevedere alcun tipo di sviluppo né drammatico né comico (La stanza del figlio).
I formanti impliciti del cinema di Moretti determinano modalità diverse di rappresentazione del problema dell’identità, della sua acquisizione incerta, comica, romanzesca, tragica. La maschera comica come affermazione di una dissonanza isterica: sempre contro, contro la «maggioranza», ma anche contro la «minoranza», contro l’amalgama asfissiante dei cliché sociali che costituisce l’unico mistificatorio piano di realtà, ma anche contro la disponibilità infinita di chi fugge la realtà, conducendo una vita senza forma, in una perenne evasione da se stessi e dal mondo (che prende le forme della evasività linguistica e comportamentale). A questa maschera dissonante, che non trova (ri)conciliazione con il mondo e con la società, non resta altro spazio che quello di essere dissonante con se stessa, affermazione di una eccedenza della soggettività che aderisce alla maschera ma senza risolversi completamente, che sta anche oltre e contro la maschera, che alla deformazione grottesca, all’aderenza carica sovrappone anche una distanza ironica. E, comunque, la maschera dissonante è affermazione della soggettività in forma puramente contrappositiva e infantile, un dire no
come fanno i bambini per una affermazione impotente e passiva della propria soggettività, che diventa potere solo per la desiderosa sottomissione degli adulti (Isole in Caro diario). E il giudizio, l’intransigenza del giudizio, la rigidità di un principio, morale in primo luogo, è manifestazione di una debolezza, della debolezza di chi dietro la maschera dell’intransigenza cela la sua incapacità di vivere, la sua mancanza di disponibilità nei confronti del mondo per paura: ed ecco allora l’aggressione come forma di difesa (Bianca).
Sottratto alle gabbie della maschera, della maschera dell’oppositore[1], il soggetto si fa personaggio, personaggio romanzesco, sospende ogni giudizio morale (o se lo incorpora lo pensa e lo usa come resto
e citazione
della maschera), e si dispone al fluire della vita, al movimento zigzagante in vespa, al movimento ritmico, sintesi di corpo e spirito, del ballo e del musical (Caro diario e Aprile). Vi è un’accettazione dell’altro
, della sua eterogeneità e differenza, come anche dell’irriducibilità del mondo ai principi e alle ossessioni dell’io. Il personaggio si viene a determinare sullo scioglimento della maschera, sulla sua dinamizzazione, sulla sua messa in movimento, che nel suo primo momento si definisce come movimento totale, sovrapposizione di livelli di realtà, di passato e presente, reale e immaginario, privato e pubblico, enunciandosi direttamente nelle forme propriamente romanzesche della ricerca di identità: Palombella rossa.
Se, e nella maschera e nel personaggio, troviamo un esplicito riferimento alla persona – riferimento sottolineato dalla presenza imprescindibile dell’attore Moretti –, questo accade perché ciò che chiamiamo persona è inscindibile, anche etimologicamente, dalla maschera. Ciò che chiamiamo persona è il lato esistenziale della saldatura fra soggettività e maschera. La maschera dà forma alla faccia, fissa la sua potenziale eterogeneità mimica, e cancella il volto come quadrante espressivo. Atti, gesti, comportamenti – ma non espressioni del volto (un volto fondamentalmente inespressivo) – definiscono il modo d’essere dell’attore Moretti, che si fa materia di un nodo indistricabile fra persona, maschera e personaggio.
Nelle forme del comico-romanzesco, la soggettività vive una perenne relazione dialettica con la società, una relazione che mai si ricompone né si armonizza, anzi è attraversata costantemente dal dolore, dalla malattia, dalla morte, o dal riso come modalità più propria di risposta all’incompiutezza dell’esistenza.
Nella trasposizione basso-mimetica di una storia tragica (il rapporto fra famiglia e morte) la maschera scompare, il personaggio diviene superficie che copre una figura tragica. E nella trasposizione di una struttura tragica, quando non c’è abbassamento comico-grottesco, rimane solo lo spazio per un pathos senza altezza
, e quindi per una forma melodrammatica, sia pur congelata. La moderna impossibilità tragica, che non viene abbassata comicamente, può diventare solo dramma borghese della disgrazia e del pathos. È l’amalgama familiare, il legame di un gruppo la cui solidità sembra non lasciare spazio ad alcuna individualità, e dove lo spazio della vita pubblica (lavoro) viene incorporato in quella privata (tanto che lavoro e vita privata di Giovanni si svolgono nello stesso ambiente), ad essere spezzato dall’assegnazione di un destino che porta ogni componente della famiglia all’isolamento come unica forma di individualizzazione. È come se la mancanza di destino individuale, attraverso la piena aderenza ad un destino sociale (marito, padre, professionista affermato), fosse la vera forma di morte in vita
che si trasforma, attraverso il sopraggiungere della morte reale, della disgrazia, in una vita ritrovata attraverso la morte e il dolore. È come se dalla trasparente e asfissiante ragnatela della vita sociale, sancita dall’essere divenuti adulti, attraverso la costituzione di un nucleo familiare, si possa tornare ad