Il profumo dei tigli
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...Il soffio misterioso dello stile si avverte, non di rado, nelle pieghe del limpido, scarno, esplicito (fino all’ingenuità) “romanzo di formazione” di Domenico Angilletta. Se ne percepisce, talora, l’incanto in certe sequenze descrittive che fissano in attimi d’eternità luoghi, colori, costumi di Messina, cari alla memoria dell’autore e nitidamente fissati sulla pagina con rapidissime pennellate e senza alcuna indulgenza all’olegrafia o alla retorica. Gli stessi ritratti dei due protagonisti del romanzo (il giovanissimo Lorenzo Angeri, «smilzo, di media altezza, i capelli castano scuro che poggiavano sulle spalle e la barba lunga, incolta, di carnagione bianca», studente calabrese di filosofia nell’Università di Messina, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, e Adele Borrello, «solare, magra» ragazza calabrese, sua collega nelle stessa Facoltà e prossima alla laurea) non hanno alcunché di convenzionale. Ma anche alcune sequenze dialogiche – quelle che innervano, per esempio, l’amore grande di Lorenzo e Adele – possiedono la freschezza espressiva che trascende talora il dato puramente mimetico del lessico giovanile...
(dall’Introduzione)
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Il profumo dei tigli - Domenico Angilletta
Goethe
Introduzione
Tra i dati autobiografici e il romanzo c’è, di norma, un abisso, pur essendo, non di rado, l’esperienza personale materia privilegiata del romanzo: un abisso che viene colmato – quando viene colmato – dal miracoloso evento dello stile. Sicché possiamo ritenere lo stile (in una con le risorse della tecnica compositiva) una sorta di lievito capace di trasformare la scrittura autobiografica in scrittura narrativa, cioè di propiziare il salto dal soggettivismo (con le sue diramazioni egotistiche o egotiche) del diario all’oggettività-universalità del romanzo.
Ora, il soffio misterioso dello stile si avverte, non di rado, nelle pieghe del limpido, scarno, esplicito (fino all’ingenuità) romanzo di formazione
di Domenico Angilletta. Se ne percepisce, talora, l’incanto in certe sequenze descrittive che fissano in attimi d’eternità luoghi, colori, costumi di Messina, cari alla memoria dell’autore e nitidamente fissati sulla pagina con rapidissime pennellate e senza alcuna indulgenza all’olegrafia o alla retorica. Gli stessi ritratti dei due protagonisti del romanzo (il giovanissimo Lorenzo Angeri, «smilzo, di media altezza, i capelli castano scuro che poggiavano sulle spalle e la barba lunga, incolta, di carnagione bianca», studente calabrese di filosofia nell’Università di Messina, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, e Adele Borrello, «solare, magra» ragazza calabrese, sua collega nelle stessa Facoltà e prossima alla laurea) non hanno alcunché di convenzionale. Ma anche alcune sequenze dialogiche – quelle che innervano, per esempio, l’amore grande di Lorenzo e Adele – possiedono la freschezza espressiva che trascende talora il dato puramente mimetico del lessico giovanile.
Al vertice, però, dell’oggettività narrativa e della connessa universalità tematica si approssima la rievocazione delle vicende umane e professionali dei due protagonisti: Lorenzo Angeri assume, difatti, nel corso della narrazione, i connotati dell’intellettuale calabrese diasporato, appalesandosi protagonista e testimone di quell’età della nostra repubblica in cui si consumarono, tra sogni di rigenerazione politica e conati di vuoto ribellismo anarcoide e terroristico, molte giovani vite; laddove Adele, che gode, per un attimo, i frutti dell’autodeterminazione e della liberazione sessuale post-sessantottesca, vede concludersi in maniera impensata la fase rivoluzionaria della sua vita. Perfettamente funzionale alla resa stilistica del romanzo è il distacco di Angilletta – che nulla concede al patetico e al didascalico – dalla storia narrata: l’autore implicito accetta, quasi fenomenologicamente, quanto è accaduto, pago della sua veste di narratore-protagonista-testimone: così andava il mondo; io c’ero e ci sono ancora.
Ove si pensi, poi, alle involuzioni (fantastiche, neogotiche, metaletterarie fino alla contorsione estrema delle strutture) di molta narrativa contemporanea, che pare avere in disprezzo la realtà e la leggibilità dei testi, maggiormente si apprezzerà il romanzo di Angilletta che sfiora, con grazia, contenuti impegnativi (il materialismo marxista, l’esistenza o meno di Dio) ma reali, servendosi della lingua d’uso, senza arabeschi di sorta, e di una sintassi lineare, quasi giornalistica, immune da pletoriche e astruse circonvoluzioni.
Giuseppe Rando
Università degli Studi di Messina
Capitolo primo
Corso Cavour: la fermata degli autobus
Alla domanda se quella storia d’amore fosse finita lì oppure avrebbe potuto avere un seguito, Lorenzo Angeri, ormai cinquantenne brizzolato, non seppe mai rispondere. Come non seppe mai spiegarsi come mai nelle ore di riposo, assolti i compiti della giornata, quel ricordo, come raggio di sole appartenente al passato, brillasse nel presente.
E mentre si poneva questi interrogativi, sprofondando nel mondo del possibile, gli piaceva fantasticare su come sarebbe stata la sua vita se quel fatidico sabato avesse preso quel treno. Rievocava quella settimana della sua giovinezza che custodiva nel tempio della memoria e che aveva battezzato come settimana della felicita.
Essa apparteneva al passato. Il passato, il presente e i misteri del tempo erano i temi della sua attuale riflessione. Il passato – si diceva Lorenzo – è un’ora che non è più, il futuro un’ora che deve accadere, una semplice costruzione della nostra speranza, entrambi quindi non esistono. L’unica certezza è il presente che è, ma appena lo si indica è già diventato passato, si è già disintegrato in esso.
Qualcuno nega addirittura che esso esista perché inafferrabile. Nessuno infatti vede cadere la mela, o sta per cadere o è già caduta. Tempo e movimento, movimento e tempo dunque: un bel rompicapo filosofico… Anche la felicità come il tempo quindi esiste solo nel ricordo di essere stati felici. Ecco quindi il desiderio di far riaffiorare nel presente una delle pagine più belle della sua giovinezza.
Tutto iniziò quel lunedì diciannove giugno nella tarda mattinata del lontano millenovecentosettantotto, a Messina, quando egli ancora giovane studente di filosofia, dopo aver sbrigato alcune incombenze di carattere burocratico, arrivò alla fermata degli autobus di corso Cavour. Era una giornata particolarmente bella, luminosa e ventilata, di un vento tiepido e dolce che nel suo spirare accarezzava la pelle e ondeggiava i capelli delle ragazze che volentieri si lasciavano baciare dal suo soffio.
Il marciapiedi di Corso Cavour era popolato da un fiume di gente, mentre la larga strada era quasi paralizzata dal traffico delle automobili e si rischiava l’ingorgo. In quel frastuono gli automobilisti strombettavano e clacsonavano come scalmanati mentre altri dal finestrino aperto urlavano a quelli che stavano davanti: "Vaja, camu affari. Ni movimo?" (E allora, che facciamo, ci muoviamo?). Intanto Lorenzo Angeri alla fermata, ulteriormente arricchita di nuovi passeggeri, mentre aspettava l’autobus, per ingannare l’attesa incominciò a camminare su e giù. Andava verso nord dove osservava le numerose varietà di uccelli, dai pappagalli esotici ai cardellini nostrani che emettevano un frastuono singolare esposti nelle gabbie del negozio vicino; un’altra volta, invece, andava verso sud per vedere se l’autobus, che lo doveva portare alla stazione degli aliscafi, fosse in arrivo. Accendeva una sigaretta che dopo due tiri spegneva e camminava a piedi lesti perché voleva rientrare presto a casa per controllare se fosse arrivata posta.
Lorenzo era smilzo, di media altezza, i capelli castano scuro che poggiavano sulle spalle e la barba lunga, incolta, di carnagione bianca. Quel giorno vestiva