La tana del fajetto
By Nino Greco
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Un simile contegno, mal tollerato dal protagonista, aziona l’avvincente ‘macchina narrativa’, che parte dal rifiuto opposto dal ragazzo di assecondare le intemperanze di Bruno, per compiere un viaggio volto a conquistare spazi sempre maggiori di autonomia, laddove i grandi eventi della Storia ufficiale si intrecciano con la quotidianità vissuta dal giovane e da alcuni suoi amici, chiamati a confrontarsi con complesse e suggestive trame di un percorso esistenziale di formazione, dagli esiti sorprendenti.
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Book preview
La tana del fajetto - Nino Greco
Collana
Romanzi
diretta da
Alberico Guarnieri
NINO GRECO
La tana del fajetto
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2015
ISBN: 978-88-6822-274-1
Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
A chi non tornò
La vita è un insieme di avvenimenti
di cui l’ultimo potrebbe cambiare
il significato a quanto accaduto prima.
Italo Calvino
I
Angelo spendeva le sue giornate tra la campagna e gli spassi. La scuola di Oppido non lo attirava. Per lui era una perdita di tempo stare a sentire il maestro in un’unica classe elementare: ragazzi di tutte le età stipati in una baracca. Preferiva Boscaino.
Quarto di sei figli. Svelto di testa, discolo e ceraveino. Non perdeva occasione per mostrare il suo carattere risoluto. S’irritava quando doveva separarsi dagli amici all’arijeja; con loro, in quello sterrato tra le baracche costruite dopo il terremoto del 1908, nei paraggi dell’Ospedale, viveva la perenne sfida a pongie col pilorgiu.
Il padre tollerava a malapena le sue stravaganze, ma s’infuriava quando un vicino di casa o di orto, a Boscaino, gli rapportava le sue smargiassate.
Il tempo lo torcerà
, sperava.
Così Angelo ci stava poco a Oppido, il rifiuto che aveva per la scuola forzava i suoi a portarlo con loro. A Boscaino abbozzava la volontà di lavorare, ma c’era sempre una scusa per canziari u zappuni. Tra gli orti e gli uliveti trovava facile compagnia. Tanti altri sfaccendati come lui, ostili alla scuola, facevano campo sulle rive della fiumara.
Tra il branco aveva legato, in modo particolare, con Ntoni, suo coetaneo e anch’esso figlio di coloni. Si rassomigliavano per il temperamento. Ntoni cresceva come una cerza, pareva un uomo fatto; Angelo, invece, era dilicu di corporatura, ma non si tirava indietro quando c’era da fare qualche gapperia.
Peppe Cortese, il padre di Angelo, era colono; con l’aiuto di moglie e figli chiantava l’orto nei lacchi della fiumara di Boscaino. Onesto lavoratore, tra i primi a essere chiamato quando si formavano le ante a jornata per i lavori nelle tenute di ciò che rimaneva del feudo dei Ruffo di Calabria, dove anche sua moglie, nelle ‘nnate chine in inverno, andava pe’ liva a jornata.
Tante genti scendevano dai paesi vicini per zappare le terre lambite dalle acque di quella fiumara. Dura vita in comune. Spazi condivisi, socialità forzata. Solidarietà viva, vero collante affettivo per chi condivideva bisogni e pizzata; uomini, donne e bambini, tutti aggrappati a quei fazzoletti di terra: unica spera di sopravvivenza.
Vita bramata. Giogo e paniculu: la regola che dava sorte a chi viveva quelle contrade. Esistenze fatte di sola fatica, si graffiava la vita e si viveva con ciò che rimaneva nelle unghie. I casati nobili imponevano tutto: tempi, regole, condizioni. Il fascismo aveva ridato nerbo al loro, dovuto e voluto, presidio.
Per tanti il passo diveniva breve e, pur di righjatari, sceglievano di vivere ai margini delle regole e delle leggi, seguendo quella scia del brigantaggio, le cui fatte erano ancora visibili. Ammirazione spontanea per chi osava e a proprio rischio la ricerca di una via per migliorare la propria condizione di vita. Ribellioni cieche contro lo stato di fame.
La scena era di chi ‘rrizzicava, di chi vantava forza. Mondi semplici, in apparenza, ma duri nella sostanza.
Era l’ambiente in cui si forgiavano i caratteri dei ragazzi come Angelo e Ntoni; loro respiravano quegli stenti, li vivevano. Erano graffi nell’anima quando vedevano sui volti dei loro padri segni dello sconforto e dell’impotenza. Quelle percezioni erano compagne delle loro giornate, si mischiavano ai giochi e crescevano contestualmente alla loro età.
II
Il padre era riuscito a convincere Angelo ad andare, con lui, a jornata per tirarlo, cosi, fuori da quel branco di spezzacoji. Da ogni via gli giungevano nuove di smargiassate e lui si angustiava. Così, con l’aiuto di compare Ciccio, il guardiano dei Ruffo nella parte di terra dove era colono, lo aveva fatto inserire nell’anta di rampatori e a mezza paga.
Angelo aveva accettato. Con suo padre e suo fratello Vincenzo si sentiva sicuro e pensava che sarebbe riuscito a tenere il passo del tagghju.
L’annata olearia era alle porte, le ante degli uomini erano impegnate per la rampatura dei terreni che avrebbero accolto la caduta delle olive. Le piante secolari non permettevano di essere rimazzate, si aspettava la caduta naturale o la forte mano del levante.
Il primo giorno di lavoro per Angelo fu una scoperta: si sentì grande fra i grandi. Contento di trovarsi in anta con uomini dalle chianche di mani callose segnate dai duri marruggi di rampe e zappe.
Dopo il mezzogiorno era uso che il più giovane, al comando del capo anta, facesse dei passaggi con la fiasca del vino e un bicchiere e, a mano girando, dare da bere tutti. Lo stesso aveva, durante il giorno, il compito di provvedere al rifornimento dell’acqua.
Proprio dall’altra parte della fiumara il guardiano, con una ciaramida di terracotta, aveva incanalato l’acqua di una sorgiva naturale, creando una fonte potabile da cui attingevano tutti; buona per bere e per cucinare. La biancheria, le donne, la lavavano sui massi, a bordo fiumara.
– Angelo, prendi la bumbula e vai per l’acqua.
La voce di compare Bruno non mostrò incertezza. Era il secondo ordine che arrivava per bocca del capo anta; il vino al fronte del tagghju Angelo l’aveva già passato, ma non si era visto bene nel ruolo di servente.
Angelo si fermò, cercò lo sguardo del padre; gli parve strambo che, in sua presenza, un’altra persona potesse intimare degli ordini. Per uno come lui, che mal li sopportava, fu fastidio oltre che esitazione. Il cenno di assenso arrivò dagli occhi di compare Peppe e di suo fratello Vincenzo.
Non disse nulla, posò la rampa, prese la bumbula e, ciondolante, s’incamminò. Durante il percorso rifletté: la mezza paga lo contentava, non poteva pretendere di essere considerato come un uomo a giornata, ma non tollerava dover servire gli altri per comando di qualcuno che non fosse suo padre.
Riempì la bumbula, rifece il violo, poggiò l’orcio al fresco sotto un ulivo a disposizione per chi volesse bere e tornò in anta.
Vincenzo lo vide ‘ntizzunutu, conosceva bene Angelo e immaginava cosa stesse ‘mpuzzunando il suo animo in quel momento.
Si avvicinò e sotto voce:
– Angeleju, non t’incazzare, è sempre così nelle ante, il più piccolo deve servire i grandi. Non è uno smacco, anzi è un modo per farti riposare un po’.
Vincenzo tirò fuori l’affetto e il garbo di fratello più grande per rassicurarlo e per smorzargli il grugno.
In anta era così: quando qualcuno si allontanava per bisogni personali o per l’acqua, i compagni che ci lavoravano a fianco portavano avanti il lavoro in modo che al rientro il suo tagghju fosse in linea con tutti.
Angelo non si persuase, abbassò lo sguardo e riprese a lavorare. Le rampate di fine giornata furono agitate, l’entusiasmo della mattina lo aveva abbandonato. Ogni tanto porgeva orecchio ai discorsi, ora seri ora spensierati, dei compagni. Compare Bruno gli sembrò più arrogante di prima: ostentava e rimarcava, oltremodo, il suo essere capo e ad Angelo, invece, appariva sempre più sbruffone.
Venne l’ora dello spajare, i tre rintocchi sulla zappa del capo anta dettarono la fine della giornata. Pulite le rampe, tutti presero la via di casa. Le chiacchiere leggere davano la sensazione di allontanare la stanchezza, qualcuno scherzava. Angelo rimase fuori dai discorsi, arricchiava ed era stanco. Bruciore e dolore percorrevano i palmi delle sue mani non abituati alla fatica; qualche giorno e quelle bolle sarebbero diventati calli duri, ma la cosa che più gli pesava era il modo con cui si era avviata la comunanza col capo gruppo, pativa ricevere ordini da una persona come lui. Compare Bruno era da anni un capo anta nelle tenute dei Ruffo: con la sua anzianità e con i suoi modi untuosi era riuscito a farsi assegnare una gabella e si atteggiava sempre, con sgarbata superbia, come chi poteva osare.
La casa di Angelo era oltre il lacco, poco dopo la machina di Zillini. Una casupola con attigua una pinnata, dentro, in un angolo, il focolare. Fuori e sotto gli spànditi due giare di terracotta raccoglievano l’acqua piovana; poco oltre un capanno con una lettiera di fieno e una mangiatura arrangiata. Una stanza e otto materassi riempiti di coppe di dorindija, tutto ciò che c’era dentro. Dormivano tutti lì. Vita grama quando si dormiva a Boscaino. La casa di Oppido, invece, pareva donasse qualche conforto in più.
Furono a casa. Il padre di Angelo, durante il ritorno dall’anta, non aveva aperto bocca, ma arrivati davanti allo spiazzo lo chiamò da parte:
– Angelo, oggi ti ho visto contrariato, ma quella è la regola, da sempre è cosi; in anta tu sei il più piccolo e per l’acqua devi andare tu.
– Patri, se per l’acqua mi mandate voi ci vado anche cinque volte, ma compare Bruno non si deve più permettere, non sono suo figlio e poi parla troppo.
Vincenzo s’intromise:
– Domani andrò io per l’acqua. Angelo, ci penserò io.
Angelo non disse nulla, ma la cosa non lo contentava. Il discorso cadde, non se ne parlò più per quella sera. Dopo la cena passò da lì Ntoni, si allontanarono.
L’indomani tutti si presentarono. Angelo riprese il suo posto e cominciò a rampare di buona lena. Compare Bruno teneva banco
con i suoi discorsi, non disdegnava di rimarcare continuamente che la loro chiamata a lavorare in anta dipendeva anche dal suo volere. Con rozza boria incuteva soggezione a tutti. Parlava spesso del fratello che era o puliciaru e ne vantava le doti di uomo valente e vattiato alla picciotteria. Pensava, così dicendo, di far crescere il rispetto nei suoi confronti.
Il fratello era stato arrestato per aggressione e tentato omicidio. Sorpreso, mentre portava via due buoi alla capizza, aveva ferito con delle zaccagnate il proprietario delle bestie. Compare Bruno contava spesso l’episodio.
– Mio fratello sta pagando per una ‘mpamità!
Ad Angelo, anche se ragazzo di appena quattordici anni, non mancava la scaltrezza per cogliere le sfumature e lo scopo di quei discorsi.
La giornata scorreva tranquilla tra chiacchiere e risate. Angelo e Vincenzo lavoravano l’uno di fianco all’altro.
– Angelo, esci dall’anta e vai per l’acqua – ordinò il capogruppo.
– Oggi vado io! – disse Vincenzo.
– No! Deve andare Angelo, spetta al più piccolo – riprese incazzato compare Bruno.
– Compare Bruno! Non vado né io né ci va mio fratello! E tu Vincenzo, non vai da nessuna parte! L’acqua, se voli u ‘mbivi, va a prendersela lui, ‘cca non avi serbi a cumandu soi!
Tuonò rabbioso Angelo, uscendo dalla linea del tagghju e portandosi davanti a compare Bruno con l’atteggiamento di chi era disposto a tutto pur di dare dignità a se stesso, al fratello e al padre.
Calò il silenzio, si fermarono tutti: una reazione del genere era insolita e inaspettata. Mai si era visto un ragazzo così risoluto nei confronti di un anziano.
– Smettila Angelo! Che comportamento è questo? Abbi rispetto per compare Bruno! – intervenne suo padre portandosi davanti a lui, pronto pure a dargli uno schiaffo per riparare la screanzata.
– Lasciatelo stare, compare Peppe, il ragazzo non capisce, ma imparerà e scoprirà presto chi è che comanda qui! – riprese compare Bruno.
– Io vi dico una cosa: voi potete comandare dove e con chi volete, ma con me no! D’ora in poi state attento!
Angelo gli scagliò stizzito la rampa davanti ai piedi, si girò di scatto e se ne andò.
Rimasero tutti ammutoliti. Era difficile considerare la sparata come una normale reazione maleducata di un ragazzo di quattordici anni senza regole. Quella minaccia apparve vera.
Il padre di Angelo cercò il modo per discolparsi. I compagni lo sapevano bene, compare Peppe aveva poche parole, era riguardoso e lavoratore; in quel momento stava vivendo un forte impaccio per la malacreanza del figlio.
Angelo andò via. Scese alla fiumara, girò per le campagne, passò vicino alle terre di Ntoni nutrendo la speranza di vederlo.
La ricerca non andò male: Ntoni e suo padre erano intenti a rassettare un’armacera per il contenimento della terra soprastante su cui pendeva un ramo di ulivo ‘ttrovaricu carico di olive quasi mature. Ntoni lo vide a distanza e gli fece cenno di avvicinarsi.
– Angeleju, non sei all’anta oggi? – chiese sorridendo il padre di Ntoni.
– No, compare Vicenzu, jimmu a citu con compare Bruno e me ne sono andato – rispose Angelo.
– Che ti ha fatto?
– Niente… È nu cani i vucca.
Vicenzu sorrise. Ntoni, invece, s’incuriosì. ‘Mpresciò i tempi, portò più massi per farne buona scorta e, con la scusa di andare per l’acqua, si allontanò con Angelo.
Angelo gli raccontò tutto e Ntoni non ne fu sorpreso. Sapeva