I Diritti Negati
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In Calabria, dove i senza lavoro sono un esercito, è poco esercitato perfino lo sciopero, lo strumento che costituisce l’unica arma di difesa dei propri diritti.
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I Diritti Negati - Stanislao Formichella
Stanislao Formichella
I diritti negati
Perché i calabresi devono insorgere
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2014
ISBN: 978-88-6822-237-6
Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Introduzione
Analizzare cause ed origini del permanente stato di disagio socio-economico della società calabrese, dovrebbe essere un compito da affidare non solo alle istituzioni, ma anche alla vasta platea di intellettuali e critici la cui opera di divulgazione viene ignorata o addirittura repressa. Forse potrebbe apparire evidente che il problema più grave è l’inerzia sociale con la quale si affronta (o non si affronta) la questione meridionale
e calabrese in particolare. C’è mancanza di reazione. C’è amarezza, scetticismo, ma non c’è proposta di soluzione. Una sorta di fatalismo, un malessere sottile e impalpabile pervade tutti e tutto.
In Calabria, dove i senza lavoro sono un esercito, è poco esercitato perfino lo sciopero, lo strumento che costituisce l’unica arma di difesa dei propri diritti.
Uscire dal letargo significa contestare metodi amministrativi irrazionali e penalizzanti (vedi il disintegro del nostro sistema sanitario).
Appare ormai inderogabile, e questo vorrei che lo capissero gli studenti calabresi, una presa di posizioni forte, capace di determinare nuove condizioni sociali, in cui ogni soggetto si erga a protagonista attivo dell’evoluzione della comunità.
Dunque, se le amministrazioni locali sono spesso rette dal favoritismo clientelare, e quindi incapaci di incidere sulle problematiche sociali, vanno legittimate ed incentivate tutte le iniziative, di tutti i soggetti, tendenti a difendere, anche con azioni di rivolta popolare, i propri diritti di fronte allo strapotere delle classe politiche dominanti.
Credo che in una regione come la nostra, dove la precarietà pare diventata la costante di vita più metodica, sia ormai impellente la necessità di ricreare una classe politica nuova, più sensibile alla problematica del lavoro e della coesione sociale. I nuovi soggetti politici devono essere coadiuvati ed incentivati a porre obiettivi che rispondano a precisi canoni di equità e giustizia sociale. In antitesi, è da condannare chi, per affermare il proprio potere, tenta di far prevalere dottrine demagogiche e di imporre sistemi e metodi di governo il cui fine sia quello di far prevalere gli interessi di una classe sociale rispetto ad un’altra.
Bisogna proporre con forza l’intendimento di divulgare aneliti e proposizioni per cui l’unica strada verso il cambiamento dell’apparato ideologico-politico che sostiene il regime capitalistico è la creazione di una nuova correlazione di forze attraverso la lotta politica, sociale e culturale.
Questa nuova correlazione esige che si stimoli il rafforzamento delle posizioni sinceramente riformiste all’interno dei partiti. Qualora questo non avvenga, e non sta avvenendo, i calabresi sarebbero legittimati ad usare anche l’arma dell’insurrezione popolare per ripristinare la tutela dei diritti perduti.
La Calabria continuerà a rimanere ultima finché il nostro Paese continuerà ad essere quello in cui esiste un Parlamento nel quale siedono una sessantina fra indagati e addirittura condannati.
Viviamo, purtroppo, in un Paese nel quale i giovani calabresi che vanno a lavorare al Nord subiscono discriminazioni di carattere etnico da parte di sedicenti appartenenti ad un partito, la Lega Nord, che altro non è se non un movimento connotato da crismi di insolvenza ideologica e maldestramente intriso della cieca tendenza a perseguire obiettivi di divisioni miranti a sgretolare il sacro vincolo dell’unità nazionale.
Viviamo in un Paese in cui esiste la Calabria, terra bella ed ospitale e atavicamente precaria. Terra nella quale dovrebbe emergere una voce viva
, una forte volontà impegnata a diseppellire le anime dell’inerzia e offrire una ritrovata linfa vitale che conduca alla politica del fare le cose
, alla riscoperta dei valori fondamentali della convivenza civile e ad una auspicata autentica giustizia sociale.
Il nostro Stato, in nome di una demagogica concezione della democrazia, attua politiche opprimenti dei diritti e penalizzanti per il ceto debole. L’emergenza, quindi, dovrebbe alimentare l’insorgere di una lotta di classe capace di spronare le istituzioni ad avere una impostazione amministrativa il cui fondamento sia una concreta dose di decisionismo puro, avulso da ogni forma di egoismo o di legittimazione di interessi di parte.
La lotta di classe auspicata e proposta dalla sola classe operaia non è comunque sufficiente a determinare un effettivo cambiamento: il nostro Stato è sempre meno lo Stato di tutti
e sempre più lo Stato di pochi
.
I calabresi, gli ultimi della classe, sono autorizzati ad insorgere per invertire questa tendenza.
1. Per sublimare la memoria storica
Il tema mi suggerisce di proporre l’introduzione di un mio libro che rievoca i moti di Melissa del 1949:
«Le velleità letterarie che mi hanno ispirato nella stesura di questo libro sono quelle ormai note ai miei lettori: la tenace voglia di conferire alla mia terra il diritto ad esistere in un contesto da cui estirpare le disuguaglianze sociali, e l’intento passionale di spronare le coscienze sane ad un’analisi capace di individuare un percorso alternativo di rivalutazione e di crescita collettiva.
La Calabria, tempio di degrado sociale e di malcostume politico, viene descritta, analizzata e contagiata dall’impulso fremente e passionale di enunciarne le sue peculiarità storiche ed ambientali per indicare un orizzonte nuovo da perseguire, per acquisire la voglia di combattere.
Voglia di combattere che oggi è un valore che non stimola i giovani della nostra regione per i quali l’unico rimedio per sopperire alla mancanza di lavoro è costituito dall’esodo forzato nel nord del Paese, lasciando sogni ed affetti languire nella terra d’origine.
Per spronare questi giovani, ho voluto indicare loro l’esempio coraggioso dei contadini di Melissa, comune del Crotonese, che nel 1949 insorsero contro i grandi latifondisti e che pagarono a caro prezzo la repressione attuata dall’allora governo democristiano, capace solo di rispondere con le mitragliette della polizia alle legittime rivendicazioni di una massa contadina repressa ed affamata.
Quanti, in Calabria, ricordano l’eccidio di Melissa? Direi pochi; eppure quell’episodio costituisce una pagina tragica della storia calabrese. Il coraggio di quei contadini ho voluto proporlo come un elemento sublimante per rivalutare il sacro valore dell’identità regionale. I contadini di Melissa si coalizzarono ed insorsero per il diritto di coltivare la terra che potesse consentire il loro sostentamento; i precari ed i disoccupati calabresi oggi non si coalizzano e non insorgono contro la cattiva politica, locale e nazionale, che reprime i sogni e la velleità di una regione afflitta dai sintomi dell’assuefazione ad un sistema di vita sociale asettico e privo di prospettive per il futuro.
Il mio intento è quello di denunciare tale incongruenza e tramandare messaggi edificanti tesi a legittimare l’urgente necessità di proporre la questione meridionale come un tema da risolvere non più con i metodi della politica ideologizzata fino ad ora prodotti, ma con un’azione amministrativa equa e razionale, istigata da una sana ribellione popolare che sia il feroce interprete delle rivendicazioni, giuste ma represse, di un territorio storicamente penalizzato e discriminato.
La terra da coltivare ha sempre costituito la fonte di sostentamento primaria per la massa contadina meridionale. Per questa conquista si è combattuto e ci si è immolati fin dai tempi in cui fu realizzata l’unità d’Italia.
La storia del Mezzogiorno contadino, che tende alla conquista delle terre, è ricca di pagine di eroismo puro che scaturisce dalle atroci repressioni messe in atto dallo Stato italiano appena agli inizi della sua vita unitaria. Le masse contadine che, anche in Calabria, avevano sognato di rinascere dalle sottomissioni servili cui erano accantonate, e avevano visto in Garibaldi un loro strenuo sostenitore, furono assalite nelle loro rimostranze dalle camicie rosse di Nino Bixio con arresti e fucilazioni: non furono risparmiati né i capi, né i seguaci, né i sani né i pazzi.
È dall’origine di queste lotte, dalla valenza sociale che emerge dall’analisi storica dell’eccidio di Melissa che ho tratto gli spunti per proporre un coinvolgimento sociale e culturale che attribuisca alla Calabria quell’anelito rivendicativo di cui oggi è carente.
La fine del lamento, annosa prerogativa delle nostre zone, va indicata come elemento di rivalutazione indispensabile per anelare ad un dignitoso riscatto sociale. Ma anche la voglia di combattere, magari emulando le gesta dei contadini di Melissa, è sublimata dall’invito accorato a ribellarsi alla corruzione politica e alle ingiustizie sociali, cause principali dell’isolamento della nostra regione.
Rievocare l’eccidio di Melissa deve costituire un monito capace di conferire la giusta personalità identitaria per rivendicare il diritto dei calabresi di essere inseriti nei circuiti produttivi del Paese.
Le anomalie della politica vanno combattute col furore agonistico di chi deve competere con l’arroganza di una frangia secessionistica del Nord del Paese, palesemente proiettata a tutelare i propri interessi a scapito delle zone più depresse ed emarginate.
Ed allora i calabresi, e soprattutto i giovani calabresi, siano istigati ad appropriarsi dell’orgoglio che conferisce l’identità per divenire gli artefici di una rivolta, anche violenta se gli altri lo vogliono, che conferisce loro il diritto di essere considerati cittadini di pari dignità. Lo facciamo anche per riverenza nei confronti dei contadini di Melissa insorti e morti nel 1949».
La Calabria era forse l’emblema che più rappresentava l’arretratezza del Mezzogiorno nel periodo storico che sanciva l’unificazione. Il degrado socio-economico persisteva, ma si può affermare che la questione meridionale nasce con lo Statuto unitario, nel 1861, e con l’unificazione di due aree essenzialmente eterogenee per strutture economiche e sociali. Il governo piemontese fu molto solerte nel sottrarre a Garibaldi il controllo delle province meridionali per imporre la sovranità della nuova monarchia sabauda.
Questo accentuò il fenomeno dell’isolamento e del degrado delle popolazioni già penalizzate dal dominio autoritario dei Borboni. Il ripristino dell’ordine e l’allontanamento dei democratici da ogni forma di potere furono, per il governo sabaudo, obiettivi addirittura più importanti che la lotta contro il Borbone. Al Mezzogiorno, già soggiogato al sopruso dell’inefficiente regime borbonico, fu imposto brutalmente il modello amministrativo, fiscale e militare del Piemonte. Fu in questa situazione, chiaramente irrazionale sotto il profilo sociale, che esplose quel grande fenomeno di rivolta contadina che fu il brigantaggio meridionale negli anni immediatamente successivi alla proclamazione del regno d’Italia. Per reprimerlo furono necessari quattro anni di leggi eccezionali e di stati d’assedio, la mobilitazione di un esercito di 100 mila uomini e un numero di morti che superò quello di tutte le guerre d’indipendenza.
Il personaggio che più ha influito sulla necessità storica di proporre come essenziale il tema del meridionalismo fu Giustino Fortunato il quale, nel lungo arco della sua vita intellettuale, dal primo decennio post-unitario al 1932, anno della morte, espresse una profonda e duratura