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Corpo e Potere nell’ideologia ’ndranghetista Un’analisi pedagogica. II Edizione
Corpo e Potere nell’ideologia ’ndranghetista Un’analisi pedagogica. II Edizione
Corpo e Potere nell’ideologia ’ndranghetista Un’analisi pedagogica. II Edizione
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Corpo e Potere nell’ideologia ’ndranghetista Un’analisi pedagogica. II Edizione

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Questo lavoro intende analizzare – da una prospettiva filosofico-educativa di matrice freireana e utilizzando i concetti chiave di Foucault sul rapporto corpo-potere – la complessa fenomenologia del potere ’ndranghetista, enucleando e fissando le categorie ordinatrici del suo disegno ideologico, la cui autentica cifra espressiva risiede nel manifestarsi quale linguaggio (e retaggio) del vecchio potere sovrano che sceglie il corpo come registro simbolico e codice d’azione su cui rendere pubblico il proprio desiderio di dominazione sociale. Il corpo, con le sue ferite, reca i segni dei vissuti umani e ne consente di interpretare il senso e il significato sociale. Le mafie, e soprattutto la ’ndrangheta, esplicano la loro fenomenologia di potere proprio nel governo del corpo, costruendo uno schema di dominio totalizzante: espropriare la corporeità è frantumare l’identità umana, impossessarsi di essa, strozzando la sua possibilità di espressione storica e distruggendone ogni traccia ontologico-sociale.
LanguageItaliano
Release dateFeb 19, 2014
ISBN9788868221553
Corpo e Potere nell’ideologia ’ndranghetista Un’analisi pedagogica. II Edizione

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    Corpo e Potere nell’ideologia ’ndranghetista Un’analisi pedagogica. II Edizione - Giancarlo Costabile

    Indice

    Introduzione

    La pedagogia come scienza del cambiamento

    La natura del potere ’ndranghetista

    0. Prime parole per la costruzione di una Pedagogia dell’Antimafia

    Le mafie sono dentro le relazioni di potere dello Stato

    Guardarsi allo specchio per ricostruire l’identità collettiva

    Dalla grammatica dell’omertà alla grammatica della denuncia

    1. Il problema: morire di mafia

    Pensare è agire

    Le mafie e il consenso

    La Calabria è cosa loro: tutti ai piedi della ’ndrangheta

    2. Il Sud tra colonizzazione, disgregazione sociale e familismo amorale

    Diventare terroni

    Il Meridione da colonia a società della dipendenza

    La mafia tra clientelismo, violenza, familismo amorale

    3. Sangu chiama sangu: Il tuo corpo appartiene a noi

    Prologo al potere ’ndranghetista: corpo recluso (il sequestro Casella) e corpo ribelle (la vicenda Cordopatri)

    Il corpo che sanguina: la pedagogia della morte

    L’iconografia del potere ’ndranghetista: i codici di sangue dell’Onorata Società

    4. Il corpo tra pratiche di assoggettamento e liberazione: la vicenda del Testimone di Giustizia Pino Masciari

    La conquista

    Il dominio

    La lotta per la liberazione

    5. Il profumo della libertà Dialogo con Pino Masciari

    Parole di R-Esistenza

    Oltre la narrazione della paura e della morte: una Pedagogia della R-Esistenza come prassi di liberazione per la Calabria

    Nota Bibliografica

    Indicazioni introduttive

    Indice dei nomi

    Collana Thesaurus - Scientifica

    Sezione

    Bibliotheca

    di cultura storica e pedagogica

    Diretta da Pietro Dalena

    ordinario di Storia Medievale - Università della Calabria

    Comitato Scientifico:

    Storia sociale: Alessandro Di Muro, Università della Calabria

    Storia dell’educazione: Giancarlo Costabile, Università della Calabria

    Storia della scuola e delle istituzioni educative: Xavier Laspalas, Universidad de Navarra-Pamplona, Spagna

    Filosofia dell’educazione e Pedagogia generale: Flavia Stara, Università di Macerata

    Pedagogia sociale e sperimentale: Lorena Milani, Università di Torino

    Studi sulla Democrazia: David Rasmussen, Boston College, U.S.A.

    Coordinamento comitato di referaggio: David Rasmussen e Flavia Stara

    Ogni lavoro scientifico pubblicato nella collana editoriale è sottoposto a referaggio doppio cieco (double blind peer review).

    GIANCARLO COSTABILE

    Corpo e Potere

    nell’ideologia ’ndranghetista

    Un’analisi pedagogica

    2a edizione

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    ISBN: 978-88-6822-155-3

    Stampato in Italia nel mese di settembre 2012 da Pellegrini Editore

    Via Camposano 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Marisa, Pino, Francesco e Ottavia Masciari,

    il cui esempio di vita mi ha riconciliato con la speranza

    e la lotta per la giustizia

    La lotta alla mafia (primo problema da risolvere

    nella nostra terra bellissima e disgraziata)

    non doveva essere soltanto una distaccata opera

    di repressione ma un movimento culturale e morale

    che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte, (perché prive o meno appesantite

    dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici

    che fanno accettare la convivenza col male),

    a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà

    che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.

    Paolo Borsellino, Ultimo saluto a Giovanni Falcone

    Palermo, Veglia 20 giugno 1992

    Introduzione

    L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;

    se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

    Due modi ci sono per non soffrirne.

    Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno

    e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.

    Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa,

    in mezzo all’inferno, non è inferno,

    e farlo durare, e dargli spazio.

    Italo Calvino, Le città invisibili

    La pedagogia come scienza del cambiamento

    Questo saggio nasce da un’idea discussa durante il convegno cosentino (giugno 2010) della Società italiana di Pedagogia, all’interno dei lavori della sessione laboratoriale dedicati allo studio della relazione educativa giovani-corpo e coordinati da Alessandro Mariani dell’Università di Firenze. Una memoria scientifica del mio intervento è stata pubblicata negli atti del congresso curati da Michele Corsi e Giuseppe Spadafora delle Università di Macerata e della Calabria[1].

    Ho successivamente scelto di approfondire la ricerca attraverso un percorso seminariale condotto nell’ultimo anno accademico – all’interno dei corsi di Storia della Pedagogia e Educazione Comparata, da me tenuti all’Università della Calabria – che ha avuto come argomento di discussione e di sperimentazione laboratoriale l’educazione alla giustizia e la lotta al potere mafioso. È proprio l’esigenza di verificare la possibilità di nuove pratiche educative intrise di liberazione sociale – e orientate alla promozione della cittadinanza attiva e responsabile – che mi ha spinto a riflettere, con maggiore acribia ermeneutica, sul dramma che in Calabria e nel Sud ogni giorno si consuma e che non può autorizzarci ancora all’indifferenza[2].

    Antonio Ingroia, allievo di Borsellino, scrive, nella sua prefazione alla raccolta di scritti del magistrato siciliano, che «resistere e agire per cambiare ciò che si ama»[3] è il cuore del magistero educativo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Rosario Livatino, magistrato agrigentino ucciso alla mia stessa età (37 anni), amava ripetere: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». La pedagogia ha uno statuto epistemico complesso che si nutre di stridenti contraddizioni teoriche e prassiche[4]. Essa si muove troppo spesso nell’asfittico perimetro del registro obbedienziale alle regole sociali: il problema che ci si pone, e in cui si finisce per essere risucchiati, è la codificazione di strategie educative intrise di legittimazione dello status quo. Percorrendo i binari di un altro frasario, potremmo dire che, in fin dei conti, la pedagogia lavori all’accettazione della morale dominante, declinando, secondo modalità sottilmente autoritarie, precetti e regole comportamentali di un’epoca. L’ethos meridionale, ad esempio, è stato ed è ancora saturo di cultura mafiosa, ma per la pedagogia non vi è motivo particolare di indignazione. L’obbedienza, nonostante l’esperienza di Barbiana, è ancora una virtù, almeno nelle periferie dell’impero capitalista.

    La pedagogia ha smarrito, e da tempo, la sua dimensione profetica. C’è un bellissimo libro curato da Franco Cambi su questo argomento che sarebbe opportuno riprendere[5].

    Nella sua magistrale prefazione, il pedagogista fiorentino scrive: «Nel tempo del capitalismo maturo che globalizza il suo universo di valori e tende a renderli intrascendibili, chiudendosi a riccio sulle sue strutture e amministrando anche le proprie, interne, marginalità e resistenze, un appello a questo risveglio, anzi alla vocazione al risveglio, è sempre più necessaria per poter ancora giudicare e scegliere dentro e oltre il mondo amministrato. La pedagogia – rettamente intesa come sapere della formazione, regolata kantianamente dalla idea della perfezione di se stessi – può, non tra le ultime pratiche discorsive e antropologiche, aprire questo spazio necessario, aiutare a riaprirlo e a mantenerlo tale. Proprio perché può squarciare il velo di Maia della globalizzazione. Ponendo inquietudini, aperçu di possibile, linee di annunci. A partire dalla coscienza, per far di questa un nucleo di resistenza e di alterità, rendendola esistenzialmente e teoreticamente, per quanto è possibile (ma il più possibile), sottratta al dominio»[6].

    Riflettendo sulla lezione di Paulo Freire e Don Lorenzo Milani, l’educazione, soprattutto nei contesti di realtà aggrediti da urgenze sociali, deve incamminarsi lungo il sentiero della disobbedienza civile e della rottura radicale con i lasciti socio-culturali di arcaici sistemi di vita, la cui longevità nelle infrastrutture sociali è spesso plurisecolare. In Calabria e nel Sud, non si può non assumere simbolicamente il ’92, con il suo terribile rosario di morte, come spartiacque per una ri-fondazione dell’azione educativa.

    L’educazione alla giustizia – che scioglie, in un orizzonte più denso teoreticamente e prassicamente, le antinomie del lemma legalità – non è materia da consegnare ai convegni o ai simposi serali o peggio ancora a pratiche speculative di ordine finanziario: la parola che libera non è quella pagata. È pratica di libertà nella misura in cui si definisce lungo i sentieri di un approccio filosofico all’educazione in grado di assumere il paradigma della liberazione quale categoria fondante la propria riflessività e il proprio orizzonte critico. La pedagogia non è astratto pensiero sul cammino dell’io nella storia: è, gentilianamente, vita concreta dell’io individuale e sociale nel suo intimo relazionarsi alla comunità; è sentire dentro di sé la responsabilità del destino collettivo del proprio popolo.

    Fare pedagogia non può che significare costruire socialmente l’umano, difenderlo dalla violenza del potere economico che mercifica e delinea prospettive alienanti, vivere nella corporeità del proprio vissuto l’avventura irripetibile della libertà etica. Il pensiero pedagogico ha la sua radice identitaria nella scoperta che l’io empirico fa di se stesso come io universale, autocoscienza del tutto: la dialettica dell’io etico, del suo pensare continuamente il divenire, è momento fondazionale per la pedagogia che crede all’unità di pensiero-azione nell’organizzazione del reale sociale.

    Rivendicare la necessità di un cambiamento nei processi di educazione sociale, attraverso la categorizzazione simbolica delle vite di Falcone e Borsellino, significa tentare di tradurre sul piano operativo della prassi una strategia comportamentale che recida, dalle radici, l’humus della cultura e della pedagogia mafiosa. Per la storia del Sud, inoltre, può e deve rappresentare una frattura epocale con «l’atavico atteggiamento etico-culturale incline al compromesso»[7].

    La natura del potere ’ndranghetista

    Questo lavoro analizza – da una prospettiva filosofico-educativa di matrice freireana e utilizzando alcune riflessioni di Foucault sul rapporto corpo-potere – la complessa fenomenologia della cultura ’ndranghetista, fissando e enucleando le categorie ordinatrici del suo disegno ideologico, la cui autentica cifra espressiva risiede nel manifestarsi quale linguaggio (e retaggio) del vecchio potere sovrano che sceglie il corpo come registro simbolico e codice d’azione su cui rendere pubblico il proprio desiderio di dominazione sociale. Il potere mafioso di matrice ’ndranghetista si esprime attraverso il corpo e su di esso. È una singolare dialettica di potere che si esercita tra corpo-soggetto e corpo-oggetto. La ’ndrangheta cerca di legittimarsi appropriandosi di pratiche di potere fondate sull’antico schema del diritto di vita e di morte, privilegio assoluto delle monarchie premoderne. Foucault lo definisce «il diritto di far morire o lasciar vivere»[8], il suo simbolo è la spada mentre quello della ’ndrangheta è la lupara. C’è un passo de La volontà di sapere che descrive la natura del potere sovrano e che spiega, come poche altre fonti interpretative, il concetto di potenza che permea l’identità politico-sociale della ’ndrangheta: «Il potere si esercitava essenzialmente come istanza di prelievo, meccanismo di sottrazione, diritto di appropriarsi di una parte delle ricchezze, estorsione di prodotti, di beni, di servizi, di lavoro e di sangue, imposti ai sudditi. Il potere era innanzitutto diritto di prendere: sulle cose, il tempo, i corpi ed infine la vita; fino a culminare nel privilegio d’impadronirsene per sopprimerla»[9].

    Pena di morte attraverso la lupara è la risposta della mafia calabrese a chi mette in discussione la sua sovranità territoriale.

    La ’ndrangheta è essenzialmente cultura e pratica del potere, inteso come istanza di prelievo e potenza della morte, che scandisce il suo lessico sociale attraverso un processo di radicale controllo della corporeità umana, esposta a una continua opera di spoliazione e degradazione di ogni individualità e differenza. Il corpo, con le sue ferite, reca i segni dei vissuti umani e ne consente di interpretare il senso e il significato sociale: è un luogo di testimonianza, forse il privilegiato, per ricostruire la narrazione di dolore che percorre la nostra carne nell’avventura della vita in attesa che la morte spenga l’interruttore del nostro organismo biologico.

    Le mafie, e soprattutto la ’ndrangheta, esplicano la loro fenomenologia di potere proprio nel governo del corpo, costruendo uno schema di dominio totalizzante: espropriare la corporeità è frantumare l’identità umana, impossessarsi di essa strozzando la sua possibilità di espressione storica e distruggendone ogni traccia ontologico-sociale. La storia della sepoltura di Rita Atria, Testimone di Giustizia, è paradigmatica per la nostra tesi. Rita si suicidò a 17 anni, una settimana dopo la strage di Via D’Amelio in cui venne barbaramente trucidato Paolo Borsellino, il giudice al quale decise di confessare i segreti della sua cosca familiare. La mamma di Rita, madre e moglie di mafiosi, contrastò sempre con ferocia la scelta della figlia: dopo aver perso la sua battaglia finché Rita era in vita, inizia una dura lotta per la collocazione della salma della figlia nel cimitero del paese. Scrive Renate Siebert: «Questa lotta sul terreno della memoria […] è leggibile come scontro sociale tra una appropriazione mafiosa della salma di Rita e una sua collocazione fisica, invece, in uno spazio connotato dalla lotta civile contro la mafia. Questo scontro, nell’arco di due anni, ha investito sia la tomba di Rita Atria che la lapide che ricorda la sua tragedia. Dopo il suo suicidio Rita era stata seppellita accanto al fratello, marito di Piera Aiello, anche lei collaboratrice della giustizia, e non – come esigeva la madre – accanto al padre. La foto di Rita sulla tomba e le parole incise nel marmo: La verità vive, erano state scelte da Piera Aiello, amica/cognata di Rita e odiata nuora della signora Atria. La collocazione, dopo la morte, accanto al fratello – anziché accanto al padre – appariva coerente con le scelte che Rita aveva fatto nella sua vita. Ma la madre non si è data pace. Prima nel giorno dei morti, distrugge con un martello l’odiata lapide e la foto della figlia che non era stata scelta da lei. Nessuno aveva il diritto di tenere lì quella foto, dirà al custode del cimitero che cercò di fermarla. Poi mediante una prassi in tribunale, ottenne lo spostamento della tomba. Ora la madre è riuscita a riappropriarsi della figlia, chiudendo la sua bara nella tomba di famiglia e sottraendola in questo modo alle visite di chi, come faceva Rita, lotta contro la mafia»[10].

    Questa violenta riappropriazione della salma traduce l’iconografia del rapporto corpo-potere nell’ideologia mafiosa: la prepotente presa della corporeità, la sua radicale acquisizione, sia simbolica sia prassica, è l’elemento chiave del dominio criminale. I corpi non devono agire al di fuori del margine che la mafia disegna: il corpo non è soggetto di azioni intenzionali e sociali, ma oggetto di una politica di potenza che impedisce ogni movimento nella storia, precarizzando, fino a mutilarla, l’avventura umana. In questa cornice di dominio asfissiante, l’umano si riduce a mera rappresentazione di materia bruta, fabbricata in serie dall’ingranaggio del sangue. Il potere è penetrato nel corpo: esso si trova esposto nel corpo stesso, questa è la grande lezione di Michel Foucault. Tale concetto del filosofo francese ci consente di scavare nei recessi più bui dell’ideologia mafiosa della morte e di coglierne la sua spaventosa vitalità e attualità.

    Il Meridione – al di là delle specificità territoriali e delle tante microstorie che raccontano più Sud in coesistenza tra loro nel complesso e contraddittorio processo postunitario di costruzione

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