PROCESSO AGLI INTOCCABILI. Da Andreotti a Contrada, da Dell'Utri a Cuffaro
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PROCESSO AGLI INTOCCABILI. Da Andreotti a Contrada, da Dell'Utri a Cuffaro - Umberto Ursetta
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Prefazione
di Nicola Tranfaglia
Sono molti i punti di vista a partire dai quali si può percorrere storicamente il cammino che ha caratterizzato lo sviluppo delle associazioni mafiose prima in Sicilia, poi in tutta Italia negli ultimi sessanta e passa anni che ci separano dal secondo dopoguerra ai giorni nostri.
Quello che pone al centro le vicende giudiziarie, e in particolare i processi, è senza dubbio alcuno tra i più fecondi e interessanti giacché attraverso di essi si può cogliere una prospettiva che mette insieme il comportamento della classe politica e della magistratura, quest’ultima chiamata ad esercitare un controllo sul rispetto delle regole non solo da parte dei cittadini ma anche da chi ricopre cariche politiche e istituzionali, secondo il principio che la legge è uguale per tutti.
Il saggio di Umberto Ursetta si legge con interesse, sia per la conoscenza degli avvenimenti che l’autore dimostra di avere, sia per la chiarezza dell’esposizione storica e giuridica.
Dopo un’introduzione nella quale l’autore si sofferma ad analizzare i mutamenti avvenuti nella magistratura palermitana con l’avvento del pool di Falcone e Borsellino, Ursetta prende in esame le diverse sentenze pronunciate nei vari gradi di giudizio e che riguardano i processi che hanno come imputati prima il senatore a vita Giulio Andreotti assolto con prescrizione; poi il funzionario di Pubblica Sicurezza Bruno Contrada condannato in maniera definitiva; quindi Marcello Dell’Utri, senatore e collaboratore strettissimo dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, contro il quale in questo momento è in corso il processo, dopo che quello precedentemente definito dalla Corte d’appello di Palermo è stato annullato dalla Corte di cassazione e rinviato a un’altra sezione, sempre della Corte d’appello, per un nuovo giudizio; infine Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Siciliana ed ex senatore della Repubblica per l’Unione di centro, condannato in via definitiva a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato alla mafia, attualmente detenuto nel carcere di Rebibbia dove sta scontando la pena.
Il ragionamento di Ursetta, che si attiene con scrupolosità di giurista agli atti giudiziari e alle risultanze processuali, mette in luce con chiarezza gli aspetti di queste vicende ormai chiariti dalle indagini giudiziarie.
Viviamo purtroppo in un paese in cui la classe politica (o meglio una parte rilevante di essa) vive con indifferenza, e a volte addirittura con arroganza, le accuse dei giudici, anche quando queste si accertano come veritiere e provate, pur con tutte le garanzie di un processo.
Come è naturale che avvenga un simile comportamento è tra le cause (anche se non l’unica) del discredito della politica nella società italiana e del distacco sempre maggiore che vivono gli italiani rispetto a quel che succede nei palazzi della politica.
La lettura del libro di Ursetta è, anche da questo punto di vista, interessante e significativa particolarmente in questo periodo contrassegnato dal grande silenzio che le televisioni e i giornali decretano per i processi di mafia, piccoli e grandi.
Introduzione
Questo libro racconta la storia di alcuni importanti processi che hanno visto sul banco degli imputati personaggi di primo piano della politica e delle istituzioni accusati, e di fatto condannati, per aver avuto rapporti con uomini di vertice di Cosa nostra. Per comprendere come si è giunti a portare in un’aula di tribunale per essere processati individui appartenenti a una casta ritenuta intoccabile, è necessario richiamare brevemente alcuni punti di svolta cruciali avvenuti negli uffici investigativi del tribunale di Palermo negli ultimi decenni di storia giudiziaria siciliana, dopo che per oltre un secolo, a partite dall’Unità d’Italia, quegli stessi uffici si erano dimostrati impermeabili a qualsiasi sollecitazione ad alzare lo sguardo in direzione dei registi occulti e meno occulti della mafia. Un Palazzo di giustizia quieto e sonnacchioso, incapace di vedere l’esistenza di una vasta platea di colletti bianchi ai quali, in sostanza, veniva garantito un salvacondotto speciale che li rendeva immuni da qualsiasi conseguenza per i loro rapporti collusivi con la criminalità mafiosa.
La magistratura con il suo comportamento soporifero evitava volutamente di indagare il potere politico ed economico. La parola d’ordine seguita dagli inquirenti era che bisognasse occuparsi soltanto della manovalanza mafiosa con coppola e lupara, il resto non doveva riguardare l’attività giudiziaria. I magistrati non dovevano, insomma, sconfinare dal recinto entro il quale avvenivano fatti di sangue. Quel limite non doveva essere oltrepassato, guai a rivolgere lo sguardo in altre direzioni per indagare i legami esistenti tra chi azionava il grilletto delle armi che facevano fuoco e chi manovrando nell’ombra ne favoriva gli affari illeciti.
Un esempio emblematico di questo atteggiamento accondiscendente della magistratura palermitana si coglie nelle amare parole che Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, annota nel suo diario, dopo essere stato violentemente aggredito dal presidente della Corte d’appello, Giovanni Pizzillo, preoccupato per le conseguenze che avrebbero potuto avere le indagini condotte dal giovane giudice arrivato da Trapani
, vale a dire Giovanni Falcone. Nulla più di quanto annota Chinnici dà la misura dei limiti entro i quali i magistrati avrebbero dovuto attenersi nello svolgimento della loro attività d’indagine.
Vado da Pizzillo – scrive Chinnici – per chiedere di applicare un pretore in sostituzione di La Commare dal momento che il CSM ha deciso che la competenza è della presidenza della corte. Mi investe in malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana disponendo indagini e accertamenti a mezzo della guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone, in maniera che ‘cerchi di scoprire nulla perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla’. Osservo che ciò non è esatto, in quanto sono stati proprio i giudici istruttori di Palermo che hanno – inconfutabilmente – scoperto i canali della droga tra Palermo e gli USA e tanti altri fatti di notevole gravità. Cerca di dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà a ispezionare l’ufficio (ed io lo invito a farlo); è indignato perché ancora Barrile non ha archiviato la sporca faccenda dei contributi (miliardi per la elettrificazione delle loro aziende agricole); l’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia, che anzi con i suoi rapporti con i grossi mafiosi l’ha incrementata. Pizzillo con il complice Scozzari ha
insabbiato tutti i processi nei quali è implicata la mafia, non sa più nascondere le sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche
[1].
Quel giovane giudice arrivato da Trapani non intende adeguarsi allo stato di cose esistenti. Ha una visione diversa del ruolo del magistrato, non accetta il quieto vivere che da sempre aveva caratterizzato l’operato del Palazzo di giustizia di Palermo, dove qualcuno che non si era voluto adeguare aveva pagato con la vita, come accaduto al Procuratore capo Gaetano Costa, il quale era stato costretto a firmare da solo un ordine di cattura nei confronti del capomafia Rosario Spatola e di alcuni suoi uomini, in quanto gli altri sostituti procuratori non avevano voluto farlo. Con quella firma il Procuratore Costa aveva, di fatto, deciso la sua condanna a morte, che puntualmente viene eseguita il 6 agosto 1980, a poco più di un mese dall’arresto di Spatola e compagni. Due killer in moto, nel centro di Palermo, in pieno giorno, gli sparano tre colpi di pistola alle spalle mentre era intento a sfogliare dei libri posti su una bancarella. Costa paga con la vita l’isolamento nel quale si era venuto a trovare, e si sa che quando si è isolati si diventa un facile bersaglio per la criminalità mafiosa. Coloro che invece non avevano firmato gli ordini di cattura potevano continuare a dormire sonni tranquilli, le loro vite non correvano alcun pericolo.
Tornando a Falcone, il suo arrivo al Palazzo di giustizia di Palermo, dove già da qualche anno era arrivato anche Paolo Borsellino, apre una crepa nel corpo giudiziario dove si delineano due diverse concezioni nel modo di interpretare l’azione giudiziaria. Una che preferisce far finta di nulla e continua a girare la testa dall’altra parte, l’altra che invece ritiene di dover svolgere il proprio lavoro tenendo conto del principio costituzionale che la legge è uguale per tutti, compresi coloro che fino a quel momento avevano potuto compiere qualunque tipo di illegalità nell’indifferenza più assoluta. E così quando i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, che inizialmente compongono il pool antimafia voluto da Chinnici nel 1980, non si limitano a contrastare soltanto la mafia militare, ma toccano i santuari del potere politico ed economico facendo arrestare l’ex sindaco di Palermo Ciancimino e i potenti esattori di Salemi, i cugini Ignazio e Nino Salvo, si capisce che è finito il tempo dell’impunità per i potenti di turno. Nessuno ormai si può più considerare al di sopra della legge come avveniva in passato.
Il lavoro di Falcone, di Borsellino e degli altri componenti del pool porta alla celebrazione del maxiprocesso. La novità non è tanto che per la prima volta viene celebrato a Palermo un processo con un elevato numero di imputati, sono ben 474, ma che nelle gabbie accanto alla manovalanza mafiosa vi sono anche i boss e i loro protettori politici, e questa novità suscita in tanti molta preoccupazione. Non a caso costoro prendono a pretesto l’elevato numero di imputati che, a loro dire, non garantirebbe l’esercizio del diritto di difesa, per criticare aspramente le modalità attraverso le quali si è giunti alla celebrazione del maxiprocesso. In realtà, dietro il richiamo alla necessità di rispettare le garanzie processuali, cosa del tutto legittima, spesso le critiche nascondono l’insofferenza per un processo dove per la prima volta sul banco degli imputati siedono personaggi che fino a qualche giorno prima avevano in mano la politica e l’economia siciliana. Che fossero critiche strumentali lo dimostra il fatto che dei 474 imputati 114 vengono assolti, e tra di loro c’è anche il boss dei boss Luciano Liggio, segno che le garanzie processuali erano state rispettate.
La cosa sorprendente, però, è che critiche all’operato dei magistrati giungono anche da parte di personalità dalle quali, al contrario, ci si aspetterebbe sostegno al loro lavoro. È il caso, ad esempio, del cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, il quale nel corso di un’intervista alquanto contraddittoria afferma che il maxiprocesso era uno spettacolo oppressivo
e addirittura sostiene che l’aborto uccide più persone che non la mafia[2]. Un paragone infelice e del tutto fuori luogo, fatto da un rappresentante della Chiesa che nel corso della sua azione pastorale non aveva mancato e non mancherà anche in seguito di far sentire la sua voce contro la mafia.
Nonostante i tentativi fatti dai difensori degli imputati per allungare i tempi del processo, in meno di due anni di dibattimento, nel dicembre del 1987, il processo si conclude con 360 condanne, che nel gennaio 1992 verranno in gran parte confermate in via definitiva dalla Corte di cassazione[3]. La conferma delle condanne per i boss è un segnale inequivocabile del fatto che i loro referenti politici non li avevano difesi dalle gravi conseguenze giudiziarie, tanto da far scattare immediatamente la vendetta con l’uccisione dell’on. Salvo Lima e di altri personaggi vicini a Cosa nostra come Ignazio Salvo.
È comunque sufficiente la pronuncia della sentenza della prima sezione della Corte d’assise di Palermo per far sì che nel Palazzo di giustizia di Palermo si cominci a respirare un’aria pesante, con accuse infamanti nei confronti dei magistrati del pool. In particolare ad essere preso di mira è Falcone, il quale viene addirittura accusato di essere stato lui, nel giugno 1989, a mettere l’esplosivo vicino alla propria casa al mare all’Addaura, simulando un attentato per fare carriera.
La realtà è ben diversa. Quello è invece il momento in cui Falcone inizia a morire, e lui ne è pienamente consapevole. Infatti sa bene che quell’attentato non è opera soltanto dei manovali di Cosa nostra al servizio dei corleonesi di Totò Riina, ma che era intervenuto quello che lui chiamava il gioco grande. Tant’è vero che, subito dopo il fallito attentato, rompendo il riserbo solitamente tenuto con i mass media, dichiara che erano all’opera menti raffinatissime
, e certamente non si sbagliava. Quanto emergerà successivamente, in relazione alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, con i vari depistaggi operati da settori deviati dello Stato, dimostra che Falcone parlando di menti raffinatissime
aveva visto giusto. Lui sapeva che dietro i mafiosi con coppola e lupara c’erano uomini delle istituzioni infedeli che si servivano di loro per contrastare l’azione dei migliori servitori dello Stato.
Se il principale bersaglio dei violenti attacchi di chi vuole che nulla cambi nelle aule del Tribunale di Palermo è Falcone, a essere sotto tiro è l’intero gruppo di magistrati che compongono il pool, che va delegittimato per poi destrutturarlo e renderlo inoffensivo. Un’operazione studiata a tavolino che viene perfezionata con la nomina