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SEGRETI E BUGIE DI FEDERICO FELLINI. Il racconto dal vivo del più grande artista del ‘900 misteri, illusioni e verità inconfessabili
SEGRETI E BUGIE DI FEDERICO FELLINI. Il racconto dal vivo del più grande artista del ‘900 misteri, illusioni e verità inconfessabili
SEGRETI E BUGIE DI FEDERICO FELLINI. Il racconto dal vivo del più grande artista del ‘900 misteri, illusioni e verità inconfessabili
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SEGRETI E BUGIE DI FEDERICO FELLINI. Il racconto dal vivo del più grande artista del ‘900 misteri, illusioni e verità inconfessabili

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Perché Mastroianni diceva di Anita Ekberg che le sembrava un ufficiale della Wehrmacht?
E Fellini invece sosteneva che il corpo della bionda svedese era luminoso anche al buio, anzi fosforescente?
Per quale motivo nel film “La voce della Luna” i camerieri di un ristorante prendono a calci l’immagine di Silvio Berlusconi, in divisa milanista, dipinta sulle porte a vento della cucina?
Forse sarebbe interessante scoprire che relazione intercorresse tra Jack Lang, Ministro della Cultura di Mitterand, e l’artista italiano.
O conoscere il nome della veggente che riuscì a smascherare l’autore delle lettere anonime nelle quali veniva rivelato a Giulietta ogni incontro clandestino tra il marito e Sandra Milo.
Esiste una quantità di enigmi nella vita di Federico Fellini, che non sono stati mai sciolti.
Chi scattò l’immagine agghiacciante del regista in coma diramata in tutto il mondo dall’Agenzia Reuter?
E chi era il bambino vestito da marinaretto che salvò Federico al Grand Hotel di Rimini quando venne colpito dall’ictus?
Un racconto senza precedenti in cui le risposte ai tanti quesiti sospesi consentirà al lettore di salire sulla giostra incantata del più grande regista-mago della Settima Arte.
LanguageItaliano
Release dateMay 6, 2013
ISBN9788868220402
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    SEGRETI E BUGIE DI FEDERICO FELLINI. Il racconto dal vivo del più grande artista del ‘900 misteri, illusioni e verità inconfessabili - Gianfranco Angelucci

    Giuliano

    INTRODUZIONE

    A Roma e anche a Rimini quasi tutti lo chiamavano per nome. Un invito che egli stesso rivolgeva molto presto a chi gli veniva presentato: Chiamami Federico. Qualcuno non ci riusciva subito, intimidito dal mito vivente, ma molti altri trovavano naturale quella disinvolta confidenza, che all’inizio aveva stupito anche me. Il regista una volta me ne aveva spiegato la ragione: Se mi chiamano Fellini mi viene spontaneo guardarmi dietro le spalle, come se ci fosse mio padre da qualche parte e si rivolgessero a lui. Eppure al telefono o in caso di incontri usava sempre il cognome: Sono Fellini…, oppure: Piacere, Fellini, come sta? Il patronimico sospinto avanti per buona creanza, chi non lo conosceva? ma anche in funzione di schermo; come succedeva a scuola quando, per la prima volta nella nostra vita, l’insegnante ci interpellava utilizzando il cognome fin dall’appello e creando così subito una distanza, l’ingresso nel mondo delle responsabilità e degli adulti; al quale Federico si sforzava in tutti i modi di non appartenere. Se la sindrome di Peter Pan ha una sua verosimiglianza, Fellini ne rappresentava la perfetta incarnazione. Letteralmente volteggiava in un mondo che apparteneva soltanto a lui; al punto che Pier Paolo Pasolini nel film La ricotta, mette in bocca a Orson Welles, intervistato su Fellini da un cronista petulante, la famosa definizione: Egli danza…

    Ho voluto aderire al suggerimento dell’editore di intitolare questo libro Segreti e bugie di Federico Fellini, proprio per sottolineare il tono confidenziale, la sua natura di racconto dal vivo, capace di restituire la prodigiosa vitalità del più grande artista italiano del Novecento, rimasta praticamente intatta a vent’anni dalla scomparsa. Sarebbe un peccato relegare Fellini tra i monumenti di piazza o nella gelida galleria degli antenati; mi è sembrato più giusto che il racconto assomigliasse a un ritratto a mano libera, un tratteggio rapido in grado di riproporre il sembiante meno convenzionale del personaggio, scartando la tentazione di affidare al lettore un’immagine marmorea, a beneficio dei posteri. I posteri – affermava senza mezzi termini l’interessato – mi stanno anche sul c…..

    Scomparso Federico, il deposito della memoria ha iniziato ad affiorare a schegge, ordinandosi spontaneamente in un disegno quando giunsi a disporre di uno spazio personale su un quotidiano. Si formavano come bolle, risalivano in superficie per una minima sollecitazione, e le storie si presentavano come i tasselli di un intarsio. Erano bagliori, frammenti di vita, così diversi da una biografia ragionata, che avrebbe preteso sistematicità e ordine cronologico. La mia è una narrazione rapsodica dettata dal puro impulso rievocativo, con nessun altro scopo se non di riferire ciò che conosco; uno zibaldone di racconti, notizie, riflessioni, aneddoti, indagini, finti segreti, spiragli, smagliature, da cui chi si pone in ascolto possa trarre l’impressione di trovarsi in presenza di una persona familiare.

    Vorrei che il racconto inducesse il lettore a scegliere il percorso che più gli aggrada, anche saltabeccando a piacimento. Ho intenzionalmente evitato di interrompere il flusso con capitoli e titoli in modo da lasciare il respiro libero di espandersi secondo un proprio ritmo. Il personaggio Fellini è affascinante proprio perché non è incasellabile neppure sulla pagina. Se dovessi scegliere un’immagine simbolica di ciò che voglio esprimere, prenderei a prestito il dipinto che campeggiava nell’ingresso dello studio del pittore Rinaldo Geleng, suo complice e amico fraterno. Era un ritratto, serio, a mezzobusto, eseguito a carboncino dalla mano esperta di un disegnatore molto dotato a cui un giorno Federico, incorreggibile, prendendo il pennello aveva aggiunto un gran fallo in erezione per tutta l’altezza della tela e in cima aveva scritto dentro un fumetto: Ma quando mi fai fare qualcosa oltre la pipì? Poi, da legittimo autore, aveva anche apposto in basso a sinistra la sua firma accanto a quella dell’artista.

    Sono persuaso che la strada migliore per stare vicino a Federico sia assorbirne la luce, unica e irripetibile, lasciarsene riverberare. Come è successo a me. Se qualcuno rintraccerà in questi racconti anche una biografia artistica del regista, non sarà fuori strada; se qualche altro avvertirà il bisogno di orientarsi in una geografia di argomenti e di personaggi, sarà sufficiente gettare un occhio all’indice dei nomi in coda al volume per rinvenire una mappa. Ma senza alcun impegno; con la medesima rilassata curiosità con cui si guardano i titoli di coda di un film, aspettando che finisca la musica.

    PRESENTAZIONE

    Quando Federico è scomparso, la sostanza ancora magmatica di tanti anni trascorsi al suo fianco è iniziata spontaneamente a tracimare; forse anche in virtù del ruolo che ero stato chiamato a ricoprire, incaricato dal 1997 al 2000 di formare e dirigere l’Associazione Fellini istituita a Rimini. La sorella del regista, Maddalena, aveva ricevuto nel lascito la biblioteca del fratello e alcune casse di effetti personali, appunti, progetti di lavoro, rimasti nell’ufficio di Corso d’Italia. Con quell’eredità (la cui parte più preziosa fu messa al sicuro nel caveau della Cassa di Risparmio di Rimini), era possibile costituire una prima base di archivio; da arricchire con altro materiale di acquisizione, centinaia di disegni, ma anche lettere, documenti e quote di proprietà del Libro dei Sogni, da me recuperati grazie al finanziamento della Regione Emilia Romagna, lungimirante e sollecita nella prospettiva di un museo cittadino e di una vera e propria Fondazione.

    L’immersione nella dimensione della memoria, così lontana concettualmente dal rapporto quotidiano e ancora vivo intercorso con Fellini, mise inevitabilmente in moto il bisogno di dare un ordine narrativo a ciò che l’artista aveva rappresentato, almeno per me. Ed era nato il romanzo Federico F. pubblicato nel 2000 da Avagliano Editore; nel quale veniva raccontata la straordinarietà di un incontro così prezioso e singolare, ma in cui non poteva rientrare tutto il vissuto ‘quotidiano’ dei lunghi anni trascorsi a orbitare attorno all’artista.

    La prima volta che avevo messo piede su un set di Fellini era stato nel 1970 in occasione del film Roma. Avevo ventitré anni e da quell’opportunità era conseguito per me anche il primo guadagno nell’industria del cinema, regolarmente corrisposto da Elio Scardamaglia, primo produttore del film. Roma era nato per una emanazione quasi fisiologica dall’opera precedente I clowns realizzato da Scardamaglia per la RAI ma poi distribuito regolarmente anche nelle sale. Per incarico di Federico avevo svolto un’inchiesta in forma di trattamento che era andata a confluire nella sceneggiatura scritta da Bernardino Zapponi. Il tema consisteva nel rapporto che le nuove generazioni intrattenevano con il sesso; dovevo mettere a fuoco in che modo fosse cambiata quella ricerca misteriosa e un po’ feroce della donna che per i nostri padri era coincisa con l’iniziazione nelle case chiuse, cioè con il piacere a pagamento, l’unico contatto intimo consentito dalla morale vigente; e come questo avesse in generale condizionato l’atteggiamento nei confronti della vita. Si respirava in quel momento la stagione di transizione e di radicale sovvertimento dei costumi propiziati dai movimenti hippy americani e dalle successive contestazioni studentesche in Europa. Uno sguardo ‘giovanile’ che confluì specialmente nella sequenza di Villa Borghese e in altre scene del film, compreso il finale del carosello motociclistico, notturno, attraverso le strade e gli antichi monumenti di Roma.

    La collaborazione di lavoro moltiplicò le occasioni di incontro; presto mi trovai a far parte della ristretta cerchia di intimi che si muovevano attorno a Federico, sul set e fuori. Alcune settimane di lavorazione vennero a cadere in piena estate quando la Capitale assume, se possibile, un aspetto ancora più fantasmagorico e affascinante. Fellini girava preferibilmente di notte e il caravanserraglio della produzione si spostava da uno scenario all’altro, da Piazza di Spagna al Colosseo, da Piazza del Popolo a Trastevere, creando ogni volta un evento a sé. Perché tutta Roma sembrava partecipare con eccitazione a quella festa. Sul set arrivavano in visita politici, alti funzionari televisivi, divi americani, bellissime donne in passerella, agenti internazionali, prelati, direttori di giornali, colleghi del cinema; e oltre le transenne si affollava instancabile la ressa di curiosi, di turisti, di aspiranti generici speranzosi di essere ingaggiati in scene di massa. Nelle pause tra una ripresa e l’altra, mentre si cambiavano le luci, a sorpresa arrivava su un tavolino da campo il cocomero tenuto in ghiaccio; veniva spaccato dagli attrezzisti e servito tra esclamazioni di gioia agli ospiti del regista. Il quale da tutti, indifferentemente, veniva chiamato Federico. A notte fonda, prima che il cielo iniziasse impercettibilmente a schiarire, veniva dato lo stop, le torrette dei proiettori venivano smontate, i camion si rimettevano in marcia uno in fila all’altro per tornare a Cinecittà. Appuntamento alla sera successiva, in un altro angolo di Roma, per proseguire la ‘scampagnata’. Una ‘festa mobile’ l’avrebbe definita Ernest Hemingway.

    Era cominciato così il mio ingresso nel mondo del cinema, parallelamente a una frequenza con Fellini che, partita senza alcun accordo, si era protratta giorno dopo giorno inanellando un bel numero di anni, fino a quando il mago era scomparso di scena. Un film dietro l’altro il tempo era volato via. Ancora ragazzo mi ero trovato al centro del sogno, a sedere abitualmente a tavola con il monarca e la sua corte, a trattare familiarmente con personalità altrimenti irraggiungibili nella vita comune, a seguire Federico negli incontri ad ogni livello, negli impegni a catena con produttori, giornalisti, editori, esponenti del governo, ammiratori di ogni nazione del mondo, belle signore capaci di accendergli la fantasia. Ascoltavo i suoi racconti, assorbivo i suoi punti di vista, mi esaltavo al suo funambolismo mentale, e verbale, capace di dischiudere prospettive insospettabili; con l’estrosa spontaneità dei bambini che vedono il mondo intorno a loro attraverso occhi incontaminati, capovolgendo ogni convenzione, ogni logoro luogo comune, ogni stanco giudizio ideologico.

    Lo sguardo di Federico era ogni volta una scoperta, un trasalimento, una rivelazione. Standogli al fianco assistevi all’affioramento del suo cinema inimitabile prima ancora che fosse imbrigliato in un soggetto e impressionato sulla pellicola; prima che un’idea, un’intuizione, si tramutasse in una storia, in una sequenza da filmare. Questa era anche l’emozione di scrivere insieme a lui, di dare forma a una situazione, a un personaggio, a uno scorcio, a un dialogo, che portavano inequivocabilmente dentro il suo mondo iridescente e inesauribile. ‘Secrezioni diamantifere’, le chiamava lui quando voleva spiegare la pura essenza di qualche scrittore che amava. Scendendo lungo via Veneto un giornalista gli si era parato davanti con volto crucciato, trattenuto ma risentito; da mesi non riusciva a ottenere un’intervista, ogni volta rinviata dal regista con una scusa diversa. Questa volta la balla era proprio sfacciata: Ma Federico, mi avevi detto che stavi partendo per Hong Kong e invece sei qui a Roma? E Fellini senza l’ombra di un tentennamento nella risposta: Ti sbagli: tu sei a Roma, io sono a Hong Kong.

    Se stavamo insieme per lavoro la giornata si concludeva con la buona notte davanti al suo portone di casa, in via Margutta 110; se invece non ci eravamo visti durante il giorno mi dava appuntamento a cena, in qualcuno dei locali da lui preferiti; passavo a prenderlo in macchina e ci univamo agli altri amici più stretti con cui concludere la serata. Oppure andavamo a Ostia, la sua mèta preferita per chiacchierare e raccogliere i pensieri, raggiungevamo quel mare che era per lui la copia scenografica, dunque un perfetto succedaneo, del litorale di Rimini. D’estate la rotta era più di frequente Fregene, dove Giulietta si trasferiva nella villa in pineta acquistata ai tempi di Giulietta degli Spiriti, e si restava a conversare in giardino, con chi c’era.

    Quasi senza accorgermene ho soggiornato nel campo magnetico di Fellini per tutti gli anni della mia formazione, quasi cinque lustri, dal 1969 al 1993.

    SEGRETI E BUGIE DI FEDERICO FELLINI

    Tra il 1939 e il 1943 Federico Fellini pubblicava sul "Marc’Aurelio" raccontini in cui è facile ritrovare una galleria di personaggi così simili a quelli poi maturati, di lì a pochi anni, nei film. Sono proto/tipi, abbozzi, incunaboli che contengono tuttavia ben delineata l’intensa poetica onirica del regista di 8 ½.

    Federico era poco più di un ragazzo, ma in pochi anni aveva pubblicato sulla celebre testata satirica più di 800 articoli e 300 vignette, senza contare la produzione a getto continuo di testi e disegni per altri giornali umoristici, a cominciare dal fiorentino 420. Ai quali vanno aggiunti le scenette, le gag, i monologhi per gli attori del varietà (da Macario a Fabrizi), nonché i copioni per il teatro di rivista.

    Per non parlare del profluvio di sketch scritti per la radio, la EIAR a quei tempi. Sebbene non conosciuto di persona – non c’era la TV che rende familiare ogni volto noto e ignoto – la popolarità di Fellini era vastissima, soprattutto tra i giovani. Alberto Sordi ricordava con spasso che il pubblico del Teatro Sistina dove in quel momento era in cartellone un suo spettacolo, scoppiò in un applauso fragoroso e interminabile quando egli, a sorpresa, annunciò la presenza in sala di Federico Fellini, la nota firma del Marc’Aurelio", che oggi s’è sposato. Era infatti il 30 ottobre del 1943, Federico aveva 23 anni (Giulietta 22), e più di una volta mi aveva raccontato, con divertito compiacimento, di non aver mai guadagnato tanto – in proporzione al tempo o alla fatica – come in quel prospero periodo. Trattandosi oltretutto di un lavoro che non considerava tale, anzi svolgeva in una specie di allegra euforia, anche quando contemporaneamente alla radio aveva iniziato le prime collaborazioni alle sceneggiature cinematografiche, specialmente di film comici. Aldo Fabrizi gli pagava brevi manu" le battute che lui gli suggeriva, e anche nelle riunioni di sceneggiatura, che Fellini rievocava con punte di esilarante comicità, il divertimento, la chiacchiera svagata, e soprattutto le spaghettate prevalevano decisamente sul dovere.

    La stessa Giulietta riferiva il proprio stupore quando, invitata finalmente a cena dal timido e romantico ragazzo di Rimini, al momento del conto lo vide tirar fuori dalla tasca dei calzoni un rotolo di banconote così grosso che non entrava quasi nella mano. Insomma Pinocchio era entrato davvero nel paese di Bengodi. E il "Marc’Aurelio" aveva svolto il ruolo di porta magica. Un passe-partout per le regioni della fantasia, del sentimentalismo candido, dell’intelligenza spiazzante, dell’umorismo surreale, delle confessioni private di quel singolare ragazzo di vent’anni che si firmava Fellini, Fellas, Federico, o una semplice F. a seconda dei casi. Le sue erano storielle personalissime che apparivano sotto rubriche dai titoli infallibili: "Primo Amore, I fidanzatini, Oggi Sposi, Ma tu mi stai a sentire?", e in esse riversava la sua vena più malinconica e stralunata. Un intero universo di personaggi cominciava a farsi largo sulla scena: sono i primi abbozzi, riconoscibilissimi, di quei caratteri che presto affolleranno i suoi film, il cartone preparatorio di un arazzo a cui sta per mettere mano l’artista maturo. Non capita spesso di poter entrare con tanta naturalezza nella personalità di un genio, scoprirne i pensieri, le fantasie, i sentimenti, i modelli precoci, assistere all’espansione della sua esperienza esistenziale, al primo deposito della sua ‘memoria’.

    Il ragazzo che è partito da Rimini una mattina all’alba, quando tutti dormivano – come è narrato ne I vitelloni – non si stanca di parlare della sua città, dei suoi fantasmi inseparabili, della sua famiglia ("Richettino bambino qualunque), della sua scuola (Seconda liceo, Compito in classe"). E di Bianchina, la ‘fidanzatina rotonda’, chiamata anche Pallina: la rubrica con cui Fellini raggiunse un’immediata celebrità, colpendo al cuore – e per sempre – i suoi innumerevoli ammiratori.

    Esiste un’opera giovanile di Fellini scomparsa nel nulla.

    Ultimi mesi del 1944. Federico aveva 24 anni, da un anno era sposato con Giulietta Masina incontrata all’EIAR durante la realizzazione di una rubrica da lui scritta e da lei interpretata. Si intitolava "Cico e Pallina: una delle tante fantasticherie, fra comiche e sentimentali, che veniva pubblicando con enorme successo sulle pagine del Marc’Aurelio". Grazie alla sua verve, alla fervida immaginazione, alla facilità di scrittura e all’inclinazione per la battuta brillante di gusto spesso surreale, il giovane giornalista viene chiamato a collaborare alle sceneggiature dei film comici, inizialmente come gagman, e in seguito come soggettista. Il primo ad apprezzarlo seriamente e a coinvolgerlo nei propri progetti è Aldo Fabrizi, attore in quel momento assai in auge sia nel cinema che nel teatro di varietà. Insieme scrivono film di successo come Avanti c’è posto, L’ultima carrozzella, Campo de’ fiori, diretti da abili registi di commedia, Mario Bonnard o Mario Mattoli. Fellini si fa un nome, e quando Roberto Rossellini e Sergio Amidei (l’autore del soggetto) decidono di realizzare Roma città aperta, si rivolgono a lui sia come sceneggiatore sia come tramite per attrarre Aldo Fabrizi, il quale con la sua popolarità avrebbe garantito al film distribuzione e finanziamenti.

    Di soldi non ce n’erano molti, tuttavia la produzione disponeva di una sede regolare, in via Francesco Crispi. Si chiamava Nettunia Film e faceva capo alla contessa Chiara Politi, moglie morganatica del Re Fuad d’Egitto, che Rossellini chissà con quali arti era riuscito a persuadere a quell’impresa. Racconta Alvaro Zerboni, giornalista romano e unico depositario di questa storia incredibile:

    L’ufficio di via Crispi dalle parti del Tritone, era al quarto o quinto piano di un imponente edificio, provvisto di uno scalone da cui tante volte avevo visto discendere il giovane Fellini, già con la sua sciarpa intorno al collo. Io che avevo tre anni meno di lui e tentavo di fare l’animatore di fumetti, lo guardavo affascinato perché tutte le settimane leggevo i suoi raccontini sul Marc’Aurelio, oppure ascoltavo le scenette che scriveva per la radio e ne ero proprio entusiasta. Anche in redazione scherzava sempre. Anzi ho un ricordo preciso. Il giorno in cui gli arrivò una telefonata, lui andò a rispondere ed era Giulietta Masina che gli annunciava la nascita del figlio (Pier Federico detto Federichino, che vide la luce il 22 marzo 1945, destinato a spegnersi dopo pochi giorni). Improvvisamente lo vidi intenerirsi, commosso, e per cercare forse di arginare l’emozione, continuava a domandare: «E com’è: è racchio? È racchio?». Usando un termine di moda fra i giovani; esisteva persino una rubrichetta intitolata Genoveffa la Racchia. Quando chiuse la comunicazione non si trattenne dall’esclamare, Mi è nato un figlio!, rivolgendosi più al suo amico Panei che genericamente a noi della redazione. Però non lasciò subito l’ufficio, rientrò nella stanza della produzione per riprendere parte alla riunione in corso.

    L’ufficio in cui si produceva Roma città aperta, era ospitato in un appartamentone di più stanze, e in una di esse, parallelamente alla lavorazione del leggendario film del Neorealismo, procedeva di pari passo un secondo progetto, un cortometraggio di animazione dal titolo americaneggiante: Hallo Jeep! Ne era autore lo stesso Fellini insieme appunto al suo amico Achille Panei che partecipava all’iniziativa insieme a un manipolo di disegnatori considerati i migliori sulla piazza.

    La direzione artistica – continua Zerboni – era stata affidata inizialmente a Luigi Giobbe, ma erano coinvolti altri illustri disegnatori del momento, come Niso Ramponi detto Kremos, Franco Coarelli, lo stesso Achille Panei, il maggiore in età, oltre me che stavo solo iniziando. Il più bravo era Niso Ramponi, cesellatore sopraffino di donne sensualissime, alla Boccasile, alla Walter Molino, e infatti era collaboratore del Marc’Aurelio e soprattutto del Travaso per cui illustrava le copertine, e già aveva partecipato a diversi film di animazione del periodo bellico. Fu lui infatti a raccogliere in seguito la direzione artistica di Luigi Giobbe. Federico Fellini aveva inventato la storia e siccome era appassionato di fumetti, stava dietro a Panei per imparare il mestiere. Confessava anzi che quello di animare i disegni era sempre stato il suo sogno.

    In un primo tempo era stato cooptato anche Francesco Guido, che si firmava Gibba, originario di Alassio e già esperto di animazione:

    Mi aveva chiamato Niso – conferma Ramponi – invitandomi a far parte dell’avventura, anticipandomi che si trattava di un’idea geniale scritta da un giovane autore appassionato di cinema. Io alla fine del 1944 ero già tornato dalle mie parti, in Liguria, ma approfittando del passaggio di un amico che si spingeva in macchina fino in Calabria ad acquistare fichi secchi, tornai per qualche giorno a Roma. Mi recai all’ufficio di via Crispi, quasi all’angolo con via del Tritone e incontrai tutti i personaggi coinvolti, compreso Fellini che ancora non era noto e se ne stava curvo al suo tavolo non so se a scrivere o a scarabocchiare. Mi ricordo un gran ciuffo nero, una testa di capelli che sembrava un orto incolto. Abbiamo scambiato qualche parola, gli ho raccontato un po’ delle mie vicende e mi sono fatto mettere al corrente su questo cartone animato. Apparivano tutti molto convinti, entusiasti. Niso aveva già disegnato la jeep e il carro armato Hermann, e pensava che un buon animatore di esperienza come me sarebbe stato utile all’impresa. C’era da stabilire il compenso, ma sembrava che i soldi non mancassero, l’occasione era interessante. Però nessuno era in grado di garantirmi una continuità di lavoro, si parlava di un impegno di due, tre mesi al massimo. Preferii non prendere subito una decisione, avrei dovuto stare a Roma sulle spese, mi era necessario fare qualche calcolo. Niso, da buon romano che prendeva le cose non dico alla leggera ma con più filosofia, continuava a invogliarmi: Ma che te frega! De che te preoccupi! In effetti le persone erano stimolanti, i disegni preparatori molto promettenti. Ma io avevo bisogno di un guadagno fisso, e così presi tempo, me ne tornai a casa. E loro partirono senza di me.

    Nell’ufficio di via Crispi, situato sopra il bar-biliardo Mokaino, una stanza era occupata dall’amministrazione, un’altra dalla produzione di Roma città aperta, e un terzo locale, lo stanzone più vasto, era assegnato alla realizzazione del cartone animato intitolato Hallo Jeep!, dove trovavano posto appunto i disegnatori, i bozzettisti e gli animatori impegnati nella lavorazione. In mezzo a loro, in qualità di autore del soggetto e della sceneggiatura del disegno animato, indugiava spesso Federico Fellini, magrissimo, un testone dalla chioma rigogliosa, il viso sorridente, un marcato accento emiliano e la vocina chioccia quanto canzonatoria. Gibba, rievocando il suo breve soggiorno nella redazione, riferisce che Fellini appena poteva si metteva seduto accanto a Panei per osservarlo con attenzione mentre animava il pupazzetto della jeep; tanto che Panei brontolava lusingato: Questo è un rompiballe che vuol mettere becco su tutto, anche sul lavoro mio! Serpeggiava insomma per lo stanzone una certa elettricità da prime donne gelose, e Gibba che aveva messo mano anche lui a qualche proposta di bozzetto, a un certo punto disegnò la jeep che faceva le smorfiacce a Federico.

    Ogni pomeriggio nell’ufficio di via Francesco Crispi, a fine riprese, convergevano gli autori di Roma città aperta che da varie settimane andava avanti nelle riprese; si rinchiudevano nella loro stanza e affrontavano discussioni interminabili, commenti, critiche, proposte, ripensamenti. Arrivavano Rossellini, Sergio Amidei, lo stesso Aldo Fabrizi e gli altri attori, compresa Anna Magnani. La quale se la prendeva spesso con Maria Michi (l’attrice interprete della sorella della protagonista che nel film se la fa con i tedeschi). Una volta – continua Zerboni – dal nostro stanzone udimmo la Michi che piangeva e strillava, vittima di una strapazzata di Nannarella. Altre volte uscivano dalla stanza Fellini e Amidei, e lo scrittore benché fosse notevolmente più anziano di Federico, stava ad ascoltare il giovane collega con molta attenzione e annuiva convinto alle sue considerazioni.

    Federico Fellini sessant’anni prima, aveva già anticipato la moda di trasformare le automobili in personaggi semi-umani e renderle protagoniste di film di animazione. Un’idea che i pagatissimi creativi delle Major Companies americane avrebbero saputo sfruttare a dovere, imbastendoci sopra brillanti commedie popolari: le automobili umanizzate vantano successi travolgenti a iniziare da Un maggiolino tutto matto della Walt Disney; e Cars negli Stati Uniti è stata una vera hit al botteghino. Ma l’ispirazione originaria risale proprio a Hallo Jeep! inventata e scritta da Fellini a cavallo tra il 1944 e il 1945. È del tutto verosimile che il cartone animato, realizzato con la medesima produzione, Nettunia Film, e durante le stesse settimane di Roma città aperta (1945), sia finito negli Stati Uniti seguendo il produttore americano Rod Geiger, il quale aveva comprato i diritti di distribuzione per il suo Paese del capolavoro di Rossellini a cui il film di animazione era commercialmente abbinato.

    Si comprenderebbe allora perché dopo il 1945 e al termine dei tre mesi di lavorazione, sia sparita ogni traccia di questo straordinario reperto.

    L’ipotesi non è per nulla campata in aria; – aggiunge Zerboni – Fellini aveva scritto un brogliaccio di situazioni, accompagnato da alcuni schizzi, in cui una jeep usciva dalla fabbrica e affrontava in guerra uno Stukas tedesco. La jeep era una macchina popolarissima in quel periodo, perché era in dotazione all’esercito americano che, si diceva, avesse vinto la guerra anche grazie a quell’innovativo mezzo di trasporto!

    Non esisteva una trama vera e propria, la vicenda era affidata a un susseguirsi di gag che Fellini aveva già schizzato in una serie di vignette, un canovaccio figurato che attualmente chiameremmo story-board del film.

    Federico aveva genialmente antropomorfizzata la mitica Jeep Willis MB degli anni ’40, l’agile fuoristrada in dotazione alle truppe americane. Anzi l’aveva trasformata in una piacente signorina che insieme al carro armato Hermann, l’eroe maschile schierato dalla parte dei liberatori, combatte contro uno Stukas, il leggendario aereo monomotore biposto della tedesca Luftwaffe. Nella vicenda non apparivano personaggi umani, ma soltanto macchine umanizzate. Il carrarmato Hermann, per esempio, aveva un muso a proboscide come un elefante, che era poi il cannone utilizzato espressivamente come naso.

    "Si procedeva così, a tozzi e bocconi – ricorda Zerboni – fino a quando la produttrice della Nettunia Film, la contessa Politi, vendette Roma città aperta ancora incompleto a Rod Geiger, un ufficiale delle forze armate americane, lasciando in sospeso la

    realizzazione del cartone. Il nuovo produttore provvide a finanziare le brevi riprese di raccordo ancora mancanti di Roma città aperta, chiamati nel gergo cinematografico i ‘fegatelli’. Hallo Jeep! invece chiuse definitivamente i battenti."

    La lavorazione andò avanti complessivamente per almeno tre mesi e stando alla testimonianza di Francesco Guido detto Gibba, la durata del film, a colori, si aggirava attorno ai dieci minuti. La pellicola impiegata era un triacetato di celluloide infiammabile; anch’esso un residuato bellico. In quel periodo infatti era praticamente impossibile reperire i più canonici rodovetri, ed era stata già una fortuna trovare d’occasione quelle vecchie celluloidi, di cui qualcuna sicuramente già usata. Come mai di un prodotto cinematografico così singolare, di una impresa tanto innovativa, non è rimasta praticamente traccia? Non si è saputo di fatto più nulla, scomparsa, cancellata dagli archivi.

    "A mio parere – confida Zerboni – c’è di mezzo anche una precisa volontà di Federico, il suo atteggiamento superstizioso. Mi ricordo che dopo tanti, tantissimi anni, una volta che eravamo a pranzo insieme e provai a parlargli di Hallo Jeep!, egli glissò rapidamente. Al film infatti erano collegate varie vicende sinistre e a un certo punto si diceva proprio che portasse sfortuna. Anzi che fosse in particolare il musicista del film a portare jella." Una catena di disgrazie preoccupanti:

    Luigi Giobbe, il primo direttore artistico del film, si era sparato per una delusione d’amore. Sopravvisse soltanto perché il proiettile gli rimase conficcato nel muscolo cardiaco senza ledere il funzionamento di quell’organo vitale. E fu per questo che gli subentrò nella direzione Niso Ramponi. L’amministratore della Nettunia Film, che era notoriamente il giovane amante della contessa Politi (ricordo benissimo un particolare, teneva appeso al muro dietro la sua scrivania un ritratto-caricatura che gli aveva fatto Federico, talmente somigliante che sembrava balbettasse, cioè che riproducesse perfino il suo difetto nel parlare), se ne scappò con la cassa. E Franco Coarelli, uno dei migliori illustratori, fece una fine orribile di cui ebbe a occuparsi la cronaca nera. Una notte andò insieme a un amico a casa di una prostituta, minacciandola con una pistola per farsi dare i soldi. Quella aveva urlato, qualcuno era accorso, i due erano fuggiti in strada, ma Coarelli era stato inseguito da un garzone di fornaio e, vedendosi braccato, aveva usato la pistola contro se stesso. Si era sparato alla testa ed era morto sul Lungotevere. Il giovane non aveva mai avuto alcun precedente penale, né era conosciuto come un individuo violento. Lo ricordo come una persona gentile e garbatissima, oltre che valente disegnatore, un autentico talento.

    A Rossellini Fellini attribuiva l’occhio più limpido, il talento più puro, ma anche l’incapacità di preservare uno strumento tanto prezioso e delicato. Amava troppo la vita. Aggiungeva con una simpatia

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