a sangu e latti: La vita di un mezzadro negli stazzi della Gallura
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About this ebook
Il racconto è scandito dalle “peregrinazioni” del protagonista da uno stazzo all’altro, prima al seguito dei genitori, poi in qualità di capofamiglia; qua e là si sofferma su alcuni temi specifici come la scuola e il bilinguismo, la politica e la guerra, il mare, l’igiene, l’alimentazione, l’amicizia, la poesia, la musica e il ballo; un ampio paragrafo è stato dedicato al contratto di mezzadria, alle sue peculiarità e problematiche. Completano l’opera un racconto e alcune testimonianze di persone che, da luoghi e in tempi diversi, hanno incrociato i loro destini con quello di Agostino Asara e della sua famiglia. Questi testi, brevi ma intimi e affettuosi, permettono al lettore di gettare uno sguardo oltre i cancelli e le finestrelle degli stazzi, per apprezzare l’importanza dei valori di ospitalità e solidarietà, sempre così vivi tra i pastori galluresi.
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Book preview
a sangu e latti - Agostino Asara
agostino asara
augusto morbiducci riccardo mura
a sangu e latti
la vita di un mezzadro negli stazzi della gallura
ISBN 978-88-97285-68-7
Indice
Dedica
Presentazione
Prefazione
Introduzione
Guida alla lettura dei testi in gallurese
A sangu e latti
A sangu e latti (gallurese)
A sangue e latte (italiano)
La fèmina di lu stazzu (gallurese)
La donna dello stazzo (italiano)
Testimonianze
L'adozione
L'eleganza dei pastori-contadini
Come Rabelais
La voce di un mondo antico
Una figlia e un nipote d'Africa
Racconto
Ill’òccji tròppu mari (gallurese)
Troppo mare negli occhi (italiano)
Autori e Curatori
Editziones Nor
Colophon
a Madre Natura,
che mi ha permesso di vivere libero
ogni giorno della mia vita,
e a mia moglie Anna Rosa,
che dando alla luce i nostri cinque figli
ha coronato il nostro sogno
agostino asara
a tutti li passòni chi,
sunnièndi e tribbulèndi,
ani fattu bèddha e dunósa
chista tarra nòstra di Gaddhura
riccardo mura e augusto morbiducci
presentazione
di fiorenzo caterini
Di libri che celebrano e descrivono l’affascinante cultura degli stazzi galluresi, vitale fino a pochi decenni fa, ce ne sono già tanti. Ma questo libro, che s’incentra sulla testimonianza di Agostino Asara, ha un suo perché.
Intanto c’è un incrocio di destini, nella genesi di questo libro, che conduce a delle riflessioni che esulano dalla solita prospettiva nostalgica e demologica sulla vita degli stazzi. Incrocio di storie diverse che, a un certo punto, convergono verso una filosofia di vita che conserva sì l’idea dello stazzo e della cussorgia come piccolo mondo antico, come nuvola dei sospiri nostalgici, dei racconti al focolare, della socialità festosa e solidale, degli spiriti benigni e maligni di monti, boschi e fontane. Ma va anche oltre.
C’è Agostino, è vero, che racconta la sua vita, e lo fa senza accenti, senza sottolineature, senza maliziosità suggestive. Si direbbe essere il perfetto informatore
dell’antropologo. Racconta la sua vita, senz’altro, e la racconta in modo da risultare al contempo empatica, emotiva, ma non passionale o animosa. Non è un amore bucolico, il suo, è un amore produttivo. L’ordine, la cura, il ciclo vitale delle cose che si esprime nella vita agreste ed economica è quanto di piú congeniale possa esistere per la filosofia del perfetto mezzadro. È un mezzadro, appunto, e dunque alle dipendenze dei proprietari. Non si può certo dire che tra queste due classi sociali ci fosse molta mobilità, ma nemmeno si può affermare che fosse impossibile passare da uno stato all’altro, andando in rovina o facendo sacrifici, risparmiando e riuscendo a mettersi in proprio. Ma Agostino non sembra sfiorato da questo desiderio. In lui c’è una sorta d’idiosincrasia per la proprietà. Non sente l’esigenza di appropriarsi, anche onestamente, della roba
. Per lui è sufficiente la soddisfazione sociale di essere buon capofamiglia, giusto lavoratore, stimato mezzadro.
Raccontata cosí, la storia, resta ancora dentro la celebrazione dell’uomo bucolico. Poi però accadono alcune cose, storie di destini che s’incrociano come linee su un foglio di carta bianco.
C’è la svolta nella vita di Riccardo Mura, uno dei curatori di questo libro, che a un certo punto decide di fare altro. Lavora, ha una buona occupazione, è geometra in uno studio di architettura nel periodo in cui in Gallura i progetti ancora non mancavano. Si trova a dover collaborare a lottizzazioni di stazzi per la costruzione di villette vista mare. Un giorno molla tutto e va a studiare lingue e letterature moderne a Torino, poi lavora a Lisbona e Santiago de Compostela. Ma decide di tornare in Sardegna per occuparsi di linguistica sarda. Non torna a Tempio, cittadina dov’è nato e cresciuto, e non si trasferisce in una delle due città universitarie della Sardegna, ma decide di andare a vivere in campagna.
Augusto Morbiducci, l’altro curatore di questo libro, ha lavorato negli Stati Uniti come architetto per una famosa multinazionale italiana nel campo della moda. È anche uno sportivo, e si trova a vagare con la bicicletta negli stupendi sterrati della Gallura interna, a respirare l’aria dei boschi e della macchia mediterranea, a riempirsi di nuvole accese e di spiriti solari. Ma c’è una cosa che colpisce Augusto, una cosa che l’Augusto americano non riesce a spiegarsi. La campagna gallurese è punteggiata di stazzi, molti in rovina, molti trasformati in case di campagna di supporto a una vigna o per gli spuntini, le arrostite con gli amici. Altri sono trasformati in ville da facoltosi acquirenti amanti della natura. È l’habitat disperso
, nella ormai famosa e abusata definizione del grande geografo francese Le Lannou, quell’habitat puntiforme che sembra ricreare l’ambientazione dell’antichissima e potente civiltà nuragica.
A partire dal Medioevo, pastori, avventurieri e reietti còrsi si mescolano ai coloni sardi di questa parte aspra e selvaggia dell’isola, praticamente disabitata, resa tale da un’orografia scoscesa, una terra ricca di rocce affioranti, e dalla presenza dei pirati lungo le coste. Una storia dove la dialettica tra i feudatari spagnoli, la borghesia dei comuni e in particolare del comune principale, Tempio Pausania, e i pastori dell’interno, ha forgiato questo angolo di terra, rendendolo conflittuale e solidale al tempo stesso.
Rispetto ad altre parti della Sardegna, la colonizzazione gallurese è atipica, e trova riscontro, per certi versi, solo in alcune aree del profondo sud, come il Sulcis. In Gallura i coloni abitano lo stazzo con la famiglia e lo rendono un microcosmo stellare unito agli altri stazzi della cussorgia, termine che indica un insieme di stazzi vicini. Attorno allo stazzo si forma un’azienda agricola quasi autosufficiente. Lo stazzo si ricava uno spazio attorno, ad anelli concentrici. Vicino alla casa ci sono l’orto, le stalle, il frutteto, il pollaio e gli animali da cortile, un po’ più in là la vigna e il campo di grano, poi i campi a riposo, le leguminose, il pascolo con il bestiame; spesso c’è anche l’alveare; in fondo il bosco e in particolare la sughereta. Il bosco che circonda lo stazzo non produce solo sughero, legna da ardere, assi per attrezzi e travi, non produce solo integrazione alimentare con i suoi prodotti per uomini e animali. Il bosco è il vero motore ecologico dell’azienda, che protegge i corsi d’acqua e le fonti e produce il terreno fertile per l’agricoltura.
Nello stazzo non si sprecava nulla e tutto veniva riciclato. Le deiezioni degli animali concimavano il campo; i recipienti e gli attrezzi di legno, una volta dismessi, bruciavano nel caminetto; gli avanzi nutrivano gli animali. Non esistevano i rifiuti. La plastica non esisteva. Era un sistema di uomini, animali e piante perfettamente circolare. Un sistema che univa gli stazzi della cussorgia in un sistema solidale per i bisogni di manodopera e per lo scambio di generi alimentari che potevano mancare all’interno della singola azienda. Nonostante gli stazzi fossero isolati tra loro, molto forte era la solidarietà, il soccorso, l’aiuto reciproco, le occasioni d’incontro, le feste, le cerimonie che univano lavoro e momento sociale, come nel caso dell’uccisione del maiale o dei grossi lavori agricoli come la vendemmia e la trebbiatura.
Ma Augusto, di tutte queste storie, sa poco o nulla. Augusto è colpito dal fatto che i cancelli delle proprietà sono aperti. Inevitabilmente fa un confronto con gli Stati Uniti, dove la proprietà è la manifestazione piú estrema ed esigente di un capitalismo che ha privatizzato anche l’aria per respirare, dove se entri per sbaglio dentro una proprietà privata ti possono sparare addosso legittimamente.
Ecco, siamo all’incontro di due culture agli antipodi. Una, quella capitalistica occidentale, che ha elevato la privacy, come il denaro, a valore assoluto, e l’altra che, dopo essere stata soffocata da quella stessa modernità occidentale, conserva ancora qualche retaggio di comunità antica. Nella Gallura di un tempo, come nel resto della Sardegna, specialmente prima dell’editto delle chiudende, vigeva un regime di comunanza che non era solo fondiario, ma anche solidale, quella che Durkheim chiamava società segmentaria
.
L’incontro tra Augusto e Agostino avviene nel solco di questa solidarietà residua. Il ciclista si ritrova nell’aspra campagna Gallurese, bloccato da una ruota bucata, e il mezzadro lo soccorre. Il giorno dopo l’incredulo ciclista è seduto a tavola con la famiglia Asara. Nascono dei forti legami di amicizia. Passano poche settimane e la solidarietà dà subito i suoi frutti. Grazie ad Agostino, Augusto va a vivere con la propria famiglia in uno stazzo di Luogosanto, e inizia una nuova vita. Poco tempo dopo, anche Riccardo e la sua compagna trovano uno stazzo a Luogosanto grazie all’interessamento della famiglia Asara.
Ma dopo una decina d’anni dai fatti narrati, la storia di Agostino, il mezzadro resistente, volge verso l’epilogo. Egli si ritrova, infine, a Olbia, al termine della sua carriera di agricoltore e allevatore, in una città dove cerca, in qualche modo, di ricreare quegli spazi di solidarietà, e lo fa soprattutto con gli immigrati. Casa sua è sempre aperta, è sempre uno stazzo. Agostino cerca, in qualche modo, di restare fedele ai valori della vita dello stazzo. Ma lo fa ben sapendo che, per sostenere quei valori, un ciclo produttivo, almeno simbolicamente, si deve pur compiere, e per questo motivo mantiene un po’ di bestiame bovino al