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Lazarus 43
Lazarus 43
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Lazarus 43

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About this ebook

1943. Mentre le forze alleate scrivono l'epilogo della guerra nel deserto e la Lutwaffe minaccia i cieli d'Inghilterra, l'Italia è teatro di un altro conflitto, più sotterraneo e nascosto. Non armi e contraeree ma interrogatori e tradimenti, doppi giochi, infiltrazioni e sabotaggi, attorno ai quali ruotano i grandi protagonisti della seconda guerra mondiale, madre di tutte le grandi storie di spionaggio. E' su questo sfondo oscuro, dietro le quinte della storia ufficiale, che si muove l'agente segreto Roger Lazarus.
Lazarus è una spia, e le spie, si sa, sono per natura affascinanti. Circondati da donne bellissime, armati di gadget portentosi e di un'intelligenza infallibile che apre le porte di ciò che per tutti è segreto.
Ma Lazarus è soprattutto un uomo, fin troppo normale nei suoi dubbi e nella paura di qualcosa da perdere, un sorpassato agente del servizio segreto inglese che si gioca tutto nella sua ultima missione.
Lo vedremo uccidere e combattere, cadere e rialzarsi, in questo romanzo appassionante e coinvolgente, dove tutti sembrano essere il contrario di ciò che sono, fino alla geniale soluzione finale.
LanguageItaliano
Release dateOct 26, 2011
ISBN9788895758084
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    Lazarus 43 - Rocco Saracino

    Rocco Saracino

    Lazarus 43

    romanzo

    ISBN 978-88-95758-08-4

    © Enzo Delfino Editore

    Via Pandosia 70 00183 Roma

    Tel. 0697600408 Fax 0697257966

    http://www.enzodelfinoeditore.it

    1

    Quando aprì la porta, dovette fare uno sforzo perché i suoi occhi si abituassero all’oscurità. Avvertì subito, nella penombra, un pungente odore di tabacco da pipa, il prediletto dal suo superiore.

    Lo conosceva bene. Era l’odore del Capo.

    Era così che i dipendenti chiamavano il direttore. Alcuni, invece, preferivano riferirsi semplicemente al più tradizionale signor C., dal soprannome del leggendario sir Mansfield Smith-Cumming, capo del MI6 nei primi anni Venti.

    Adam Prescott era seduto, immobile, dietro la pesante scrivania di mogano. Non un documento, non un libro la ingombravano. Era così da quasi dieci anni, almeno quando venivano ricevuti i subalterni. Lazarus aveva sempre pensato che Prescott usasse la propria scrivania come un piedistallo. Un mobile imponente, se lasciato sgombro, mette in piena evidenza l’uomo che vi è seduto dietro. Almeno così credeva. D’altra parte non era mai stato facile per nessuno intuire quali pensieri celassero gli occhi glaciali del Capo.

    Lazarus nutriva un profondo rispetto per quell’anziano signore. Non era mai appartenuto alla dorata categoria dei burocrati, gli apparatchik. Alla Casa i componenti di quell’élite venivano soprannominati, con dissimulato disprezzo, scaldasedie. Prescott non era mai entrato in quel polveroso santuario fatto di compiacenze, favori reciproci, ricatti e bustarelle. Era fatto decisamente di un’altra pasta, e per questo era rispettato e temuto anche nei palazzi del potere.

    Veniva dalla gavetta e aveva sempre fatto il suo lavoro con abnegazione, fin da quando aveva ricevuto il suo primo incarico. A trent’anni era stato spedito in Sudafrica, infiltrato tra le fila dei boeri: non esattamente una passeggiata. Anche grazie al suo intuito e al suo sangue freddo gli inglesi avevano potuto vincere la guerra.

    Al rientro in patria aveva ricevuto le congratulazioni dello stesso ministro delle Colonie, un attaccabrighe che rispondeva al nome di Joseph Chamberlain. Erano stati proprio i primi successi raccolti come agente sotto copertura a spalancargli le porte della carriera nell’intelligence.

    A trentasette anni era già capo della divisione D – dove D stava per deceivement, o disinformazione. A quaranta era stato nominato responsabile per l’Unione Sovietica e i Paesi dell’Est, incarico che aveva ricoperto fino a quando non era stato chiamato a far parte del governo britannico come sottosegretario agli Esteri. Non aveva potuto resistere molto nella giungla dell’agone politico. Pochi giorni dopo la scadenza del suo mandato il Primo Ministro l’aveva convocato a Downing Street per un tè e gli aveva offerto, tra un pasticcino danese e l’altro, la direzione del SIS.

    Smith-Cumming era ancora caldo nella tomba e molti avevano tirato un sospiro di sollievo alla sua dipartita. Mister C. non era mai stato molto amato, era risaputo. Adam Prescott, però, non aveva accettato subito. Le parole di stima del premier gli avevano fatto piacere, ma conosceva sin troppo bene i trucchi usati dai politici per convincere il pollo di turno ad accomodarsi su una poltrona ricoperta di spine, facendogli credere di sedere su un trono imperiale. All’età di sessantaquattro anni, solo dopo essersi accertato di evitare qualsiasi trappola, Adam Prescott aveva accettato l’incarico.

    Anche dopo la nomina a direttore, Prescott aveva continuato a lavorare proprio come agli inizi della carriera, diciotto ore al giorno con una sola pausa per una parca colazione. Per molti con la metà dei suoi anni era un ritmo insostenibile.

    Era famoso, nella Casa, perché era sempre il primo ad arrivare in ufficio, qualsiasi tempo facesse. Alle sei di mattina aveva già letto tutti i giornali e finito una caraffa di tè forte. La storiella più comune sul conto del Capo, naturalmente mormorata con estrema attenzione durante la pausa pranzo, voleva che Prescott arrivasse così presto per sfuggire alle lunghe ore solitarie della sua bella dimora di Belgravia.

    Poteva anche essere vero, almeno nell’ultimo periodo: Adam Prescott aveva perduto sua moglie Polly appena un anno prima, dopo quasi mezzo secolo di matrimonio. Non avevano avuto figli, e così si era trovato solo al mondo a settant’anni suonati.

    Quella mattina del 15 febbraio 1943, intorno alle sei, il telefono di Roger Lazarus squillò. Il trillo era rimbombato con insistenza nella casa silenziosa e Lazarus, sobbalzando, aveva istintivamente posto mano alla pistola che teneva sempre sotto il cuscino.

    Accese a fatica l’interruttore della piccola lampada sul comodino e guardò l’ora stringendo le palpebre: ancor prima di sollevare il ricevitore capì con chi avrebbe parlato di lì a poco. C’era una sola persona al mondo capace di telefonare a quell’ora del mattino.

    «Salve Roger», disse la voce, «mi auguro che lei non stesse dormendo».

    «Oh no, signore. Ero assorto nei miei pensieri».

    Si chiese se Prescott non provasse un sentimento di sadica soddisfazione nel tirar giù dal letto la gente perbene.

    «Vorrei vederla nel mio ufficio, diciamo entro un’ora. Crede di farcela da solo o preferisce che le mandi una macchina?».

    «Dovrei farcela, signore. Sì, sarò da lei tra un’ora».

    Non era raro che il Capo chiamasse qualcuno dei dipendenti a quell’ora, e nessuno se ne meravigliava conoscendo le sue abitudini di lavoro. Le sue telefonate erano imprevedibili. Poteva chiedere notizie sull’ultima missione, oppure la compilazione di un rapporto particolarmente dettagliato, ma poteva anche informarsi – alle sei di mattina – sulla comunione del figlio maggiore e sui drink serviti al party del pomeriggio precedente.

    Tuttavia, non era certo prassi comune essere convocati d’urgenza nel suo ufficio. Prescott era così meticolosamente metodico che, se avesse avuto bisogno di comunicare con un agente, non se ne sarebbe certo ricordato la mattina dopo. Doveva trattarsi di qualcosa di eccezionale, ma Lazarus non sapeva proprio cosa pensare.

    Si vestì in fretta dopo essersi rasato e ripulito, mise a bollire l’acqua per il tè e attese. Il surrogato di caffè, quella robaccia color petrolio che rifilavano in tempo di guerra, non faceva per lui.

    Preferiva la sana, vecchia tradizione britannica dell’acqua calda.

    Nessuna luce filtrava attraverso le imposte socchiuse semplicemente perché era ancora troppo presto. Entro mezz’ora i primi raggi di sole avrebbero timidamente ingaggiato la lotta quotidiana contro le nebbie notturne del Tamigi.

    Decise che avrebbe aspettato i primi bagliori per mettersi in macchina, in modo da evitare i fastidi dell’oscuramento. Il timore dei bombardamenti nazisti era così forte che nessun cittadino rispettabile e patriota avrebbe favorito, seppure involontariamente, i porci tedeschi, come li chiamava la signora Mills.

    Bevve piano il tè, che gli risollevò un poco il morale, indossò il cappotto frusto e uscì. Fuori la temperatura era rigida e cominciava a rischiarare. Prese dalla tasca le chiavi della macchina e imprecò per un momento contro Prescott.

    Dopo alcuni tentativi riuscì a mettere in moto la sua vecchia Austin, dominandosi a stento per non accendere gli anabbaglianti, e si avviò. Pensò che forse, dopotutto, poteva essere più pericoloso l’oscuramento delle bombe naziste. Quando quella maledetta guerra fosse finita non avrebbe più guidato di notte.

     Gli occhi penetranti di Prescott lo scrutarono a lungo nella penombra. Lazarus fingeva di essere distratto dall’aspetto delle sue dita mentre sperava che quel pesante silenzio finisse al più presto. Quasi come se avesse letto i suoi pensieri, Prescott parlò.

    «Roger, deve scusarmi per averla costretta a questa levataccia. Sa, a volte dimentico che sono soltanto i vecchi come me a soffrire d’insonnia. Le ore notturne sono interminabili».

    «Se questo può confortarla, signore, le ricordo che anch’io non sono più quello che si definisce un giovanotto».

    Adam Prescott increspò le labbra come per abbozzare un impercettibile sorriso.

    «Oh, certo che lo ricordo, Roger. Se non sbaglio tra pochi mesi sarà un tranquillo ex dipendente statale in pensione, no?».

    Il Capo aveva ottima memoria o, più probabilmente, aveva studiato il suo fascicolo prima che lui arrivasse. Prescott teneva un fascicolo personale per ogni dipendente che, in qualche modo misterioso, veniva costantemente aggiornato. Si diceva che le annotazioni riguardassero gli aspetti più svariati: dal numero di figli dell’agente, al recapito di eventuali amanti, fino alla frequenza del cambio dei calzini.

    Prescott aveva messo il dito nella piaga. Per un agente anziano come Lazarus la pensione era più di uno spauracchio.

    «Già. Ancora qualche mese e sarò solo un pensionato» disse Lazarus con un lieve sospiro.

    L’idea della pensione non gli dispiaceva, ma più si avvicinava la data fatidica e più lui ne rifuggiva il pensiero. Quando era piccolo, ricordava, si comportava allo stesso modo per la data di inizio del nuovo anno scolastico. Riteneva di non essere ancora pronto per indossare i panni del vecchio signore che passa ore solitarie a dar da mangiare ai piccioni al parco.

    «Ma, come certo immaginerà, non l’ho convocata qui, a quest’ora, per parlare del suo trattamento previdenziale» disse Prescott ravviandosi i capelli canuti. «Lei mi serve per una missione speciale, l’ultima prima del meritato riposo».

    A Lazarus piaceva sempre meno la piega che stava prendendo quell’incontro. Sentiva, mescolato all’odore del tabacco da pipa, un discreto puzzo d’imbroglio.

    «La vedo diffidente, mio caro Roger. Non deve. Anzi, consideri quest’incarico come... ecco, come un premio alla carriera. Ho pensato a lei proprio perché la conosco e so qual è stata la sua vita professionale».

    «Vede, signore, con tutto il rispetto aspetterei a parlare di premio, fino a quando non capirò di che si tratta».

    Lazarus assunse un atteggiamento guardingo.

    Prescott ammiccò.

    «Desidera un tè, Roger? O qualcos’altro?».

    «Un tè va bene, grazie». Gli piaceva ancora meno quell’abile diversivo.

    Adam Prescott chiamò con l’interfono la sua segretaria, Mrs Elsa, e le passò le ordinazioni.

    «Posso parlarle con tutta franchezza, Roger? Credo che valga la pena di vivere la vita. E credo che, per vivere dignitosamente, come Dio vuole, bisogna vivere in un paese libero».

    Dove diavolo vuole andare a parare?, pensò Lazarus.

    «Mio padre mi ha insegnato che c’è un unico sovrano, in Inghilterra: quello che risiede a Buckingham Palace. Nessun altro, oltre a quel signore, può dire agli inglesi quello che devono o non devono fare. Con ogni rispetto delle garanzie parlamentari, ovviamente. È d’accordo?».

    Lazarus annuì, ma ebbe la netta impressione che Prescott avesse formulato la domanda soltanto per educazione. In quel momento, senza bussare, entrò Mrs Elsa, un’anziana signora ossuta che era devotamente al servizio di Prescott da diversi lustri. Anche lei, come il Capo, era un’istituzione della Casa. La donna appoggiò il vassoio sulla scrivania e, in silenzio com’era entrata, uscì.

    «Voglio dire, Roger, che la libertà è un valore fondamentale per l’uomo. Non lo scopro certo io. Noi abbiamo il dovere di garantire, preservandola, la libertà dei cittadini britannici. Non possiamo permettere, per noi e per i nostri figli, che i nazisti ci chiudano in un recinto, ci mettano il collare e ci portino a spasso la domenica mattina. Questo non dovrà accadere. Mai».

    I due uomini, immersi nella penombra del grande ufficio, rimasero per un istante in silenzio a sorseggiare il tè e a soppesare le parole che erano rimaste nell’aria. Fuori si intuiva una parvenza d’alba.

    «È tutto molto giusto, signore. Condivido in pieno. Ma che ruolo avrei, personalmente, in questo discorso?».

    Adam Prescott accennò un sorriso.

    «L’ho sempre stimata anche per questo, Roger. Mi piacciono le persone che sanno andare dritte al cuore della questione. Mi ha chiesto di spiegarle ciò che ho in mente. Lo farò. Ottimo tè, non trova?».

    Quando uscì dalla Casa, a Whitehall, era giorno fatto. Fu felice di ritrovarsi all’aria aperta e, nonostante fosse una giornata fredda e plumbea, decise di fare quattro passi. L’avrebbero aiutato a pensare.

    Notò che la vita ricominciava a scorrere dopo il coprifuoco notturno. Vide alcune donne di mezza età, a un angolo della strada, che discorrevano animatamente sul prezzo delle patate e sui trucchi per acquistarne una maggiore quantità. La fame degli inglesi doveva fare i conti con il razionamento. I loro soprabiti erano logori, le scarpe rattoppate, ma conservavano un’ammirevole dignità.

    Continuò per la sua strada, poi s’infilò in Horse Guards Avenue. Ricordò che, sul Victoria Embankment, c’era un bar dove servivano dell’ottimo tè. I bottegai aprivano i battenti per un’altra giornata di magro lavoro, scambiandosi a voce alta notizie provenienti dal fronte. L’Inghilterra parve a Lazarus, in quel momento, un paese neutrale. Certo, i segni della guerra erano visibili, ma le persone si sforzavano di condurre una vita normale: facevano la spesa (per quanto possibile), si ritrovavano nei pub, chiacchieravano. Era come se si volesse tenere lontano un fantasma nero e ingombrante. Almeno fino al successivo allarme aereo.

    Improvvisamente Lazarus ritornò col pensiero alla conversazione di quella mattina e si rabbuiò. Prescott era stato abile come al solito: aveva usato gli argomenti giusti, nient’altro. Proprio come faceva sempre. Sarebbe stato un eccellente politico se non si fosse ritirato, nessun dubbio.

    «Roger, mi ascolti bene» gli aveva detto, e i suoi occhi avevano emanato un lampo di luce. «Il Primo Ministro in persona mi ha incaricato di risolvere una questione delicata. Così delicata che la sua soluzione potrebbe regalarci la vittoria nella guerra contro la Germania».

    Lazarus aveva inarcato il sopracciglio. Succedeva sempre quando era nervoso o teso. Decise che era meglio lasciarlo finire e rimanere in silenzio.

    «Abbiamo motivo di credere che il conflitto si deciderà in Italia. Badi, non è soltanto un sospetto o un’ipotesi. C’è qualcosa di più concreto che per adesso non sono in grado di spiegarle».

    Fece una pausa. Si pizzicò l’attaccatura del naso socchiudendo gli occhi come per scacciare un senso di imminente stanchezza.

    «Anche le alte sfere, e lei sa a chi mi riferisco, non sanno esattamente cosa accadrà, né quando. Ma sanno che qualcosa accadrà. Per questo è nostro obbligo fare il possibile, se necessario anche l’impossibile per preparare il campo di battaglia. Con tutte le nostre forze».

    Lazarus era confuso. Ormai era chiaro come il sole che quella vecchia faina di Prescott gli aveva teso un tranello per affidargli un misterioso incarico, ma le molteplici direzioni che prendevano i suoi discorsi lo lasciavano disorientato.

    Cosa c’entrava l’Italia? Era prossimo alla pensione, e conosceva molti altri agenti più giovani, più coraggiosi e pronti di lui. Possibile che la Casa puntasse su un agente sorpassato per una missione che, a quanto gli riusciva di capire, era più che importante?

    Prescott interruppe quel turbinio di pensieri.

    «Roger, le ho detto prima che mi piace la gente che va dritta al problema, quindi lo farò anch’io. Ho per lei un incarico speciale in Italia. Si tratta di una missione estremamente difficile ma credo che lei ci abbia fatto il callo. Lasciamo la guerra dei panzer e dei cannoni ai soldati. Noi possiamo fare altrettanti danni, e forse anche di più, con le armi dell’inganno e della menzogna. Perciò mi aspetto che lei dica sinceramente se si sente in grado di tornare sul campo».

    Lazarus era sbigottito e gli spiaceva che la sua sorpresa trapelasse dagli occhi allibiti. «Ecco...». La voce, suo malgrado, gli si spezzò in gola.

    Cosa mai avrebbe potuto dire? Che gli dispiaceva ma non poteva accettare? Che era meglio che l’incarico fosse affidato a Dexter o a McKinley? O forse che si sentiva troppo vecchio? Non riuscì ad aprir bocca e Prescott lo precedette, traendolo d’impaccio.

    «Stia tranquillo, Lazarus. Non deve rispondermi adesso. Le lascio il giorno intero per pensare. Oggi è libero, lo consideri un personale cadeau. Ci pensi con calma. Qui abbiamo tutti fiducia in lei, e tale fiducia rimarrà intatta anche nel caso in cui rifiutasse. Sappiamo bene chi è. Non è un caso che abbiamo scelto Roger Lazarus e non un altro. Ci pensi. Entro mezzogiorno di domani mi farà sapere. Arrivederci, Roger».

    Lazarus si alzò meccanicamente dalla poltrona. Le sue ginocchia scricchiolarono nel silenzio ovattato della stanza.

    «A presto, signor Prescott».

    Sedersi davanti a una tazza di tè fumante non gli era servito a schiarirsi le idee. Il Blackfish Bar non era che un modesto locale come altre decine negli intestini della vecchia Londra. Le pareti rivestite in legno recavano innumerevoli fotografie del barman e di altre persone, probabilmente i suoi amici, in posa da pescatori sorridenti mentre mostravano con orgoglio le proprie prede. C’era anche un manifesto che invitava chiunque fosse interessato a partecipare la domenica successiva a una gara di pesca sul Tamigi.

    Lazarus bevve distrattamente un sorso di tè. Era l’unico avventore, a quell’ora; il barman lucidava il pavimento. Nell’aria ristagnava odore di birra rancida e fumo di sigarette.

    Che cosa avrebbe fatto? Sapeva perfettamente perché Prescott e le alte sfere, come le aveva chiamate lui, avevano scelto Roger Lazarus. Ma non sapeva se sarebbe stato in grado di ripagare la fiducia che loro nutrivano nei suoi confronti. Non immaginava il grado di pericolosità della missione, perché il Capo non si era sbottonato più di tanto. Non che l’avesse mai valutato prima: lui, da sempre, accettava o rifiutava. Non era importante svolgere il lavoro in Islanda o sulla luna.

    Quella volta, però, era diverso. Mancavano pochi mesi, spiccioli ormai, al pensionamento. E anche se quella prospettiva non era per lui allettante, gli sarebbe dispiaciuto parecchio lasciare le penne sulla linea del traguardo. Giravano diverse barzellette, nella Casa, su episodi simili.

    D’altronde, pensò amaramente, cos’altro ho da perdere? Gli era rimasto ben poco cui aggrapparsi.

    Pagò il tè, salutò e uscì in strada. Un timido sole occhieggiava al di sopra dei tetti. Si avviò senza convinzione verso Richmond Terrace. Sul Tamigi navigavano silenziosi vecchi battelli e in lontananza le guglie di Westminster bucavano la foschia arrampicandosi verso il cielo.

    Forse ha ragione Prescott, si disse. Devo rifletterci. Non so a cosa, ma devo pensare.

    Sospirò e allungò il passo.

    2

    Lord Henry Davenport non aveva trascorso una notte tranquilla. Dapprima era stato attaccato dal suo solito mal di testa, un’emicrania pervicace che gli saliva dopo le giornate particolarmente faticose. Non era riuscito a mangiare e si sentiva terribilmente irritabile. Aveva cinquantadue anni, ma quando stava male si sentiva un vecchio decrepito pronto per la fossa. Aveva inghiottito un paio di aspirine – ben sapendo che non gli avrebbero recato alcun beneficio – e dopo aver serrato tutte le imposte si era messo a letto, nel buio più assoluto.

    La signora Julia Davenport aveva dato disposizioni alla servitù affinché suo marito non fosse disturbato per nessuna ragione al mondo. Più tardi, però, il trillo del telefono l’aveva costretta a chiedere a lord Henry di sollevare la cornetta. Ciò che aveva ascoltato non l’aveva certo aiutato a star meglio: per l’indomani si prospettava un’altra giornataccia. D’altronde, non poteva certo mancare alla riunione a causa della maledetta emicrania.

     La mattina dopo, mentre percorreva St. Martin’s Lane sulle confortevoli poltrone in pelle della Rolls-Royce ministeriale, si sentiva stranamente a disagio. Le tempie continuavano a pulsargli con violenza e, nonostante le due pasticche prese appena sveglio, aveva ancora gli occhi arrossati e stanchi.

    Osservò distrattamente le strade che gli scorrevano accanto. Se non fosse stato per certi segni sarebbe potuta sembrare una città normale. Ma c’erano, di tanto in tanto, macerie annerite e persone che scavavano alacremente per cercare di ritrovare i morti, o almeno i resti della propria vita.

    Vi erano cumuli di sacchetti di sabbia a proteggere le vetrine dei negozi e dappertutto, vergati sui muri con vernice rossa, i percorsi da seguire per arrivare in fretta al più vicino rifugio in caso di attacco aereo. Ecco a cosa era ridotta la vecchia Inghilterra, quasi messa in ginocchio da un folle fanatico dannatamente pericoloso. Dieci anni prima, quando Hitler aveva preso il potere, gli inglesi l’avevano guardato dall’alto in basso con un sorrisetto di scherno. Lui, che già pregustava la vendetta, li aveva costretti a ricredersi e aveva trasformato quel sogghigno in una smorfia di dolore.

    Pensò a quanto sarebbe accaduto a Whitehall quella mattina. Finalmente l’Inghilterra avrebbe formalizzato per la prima volta un piano concreto per tentare di vibrare il colpo decisivo al Terzo Reich.

    Si chiedeva se fosse la scelta giusta. Ormai, pensò, non c’è altro da perdere.

    La sede del Military Intelligence, a Whitehall, era un arcigno palazzo vittoriano edificato nel secolo precedente. Dall’anno della costruzione non era mai stato ristrutturato e cominciava a mostrare i primi segni del tempo. I merli sostavano indolenti sulle grondaie del tetto e sugli abbaini come scuri guardiani in un’attesa senza fine. Alcuni edifici situati a poca distanza, costruiti nella stessa epoca, versavano in condizioni decisamente migliori. I Norman Shaw Buildings, sede di Scotland Yard, si trovavano a un tiro di schioppo da Whitehall ma avevano mantenuto l’elegante e altera signorilità di un tempo. Era così anche per altri palazzi in cui avevano sede importanti apparati governativi, come il Treasury, l’amministrazione delle finanze, ubicata in Parliament Street.

    Lord Davenport fu accolto da un portiere e subito accompagnato nella sala riunioni adiacente all’ufficio di sir Adam Prescott. Oltre al padrone di casa erano già presenti lord Seamus Coverdale, incaricato speciale del ministro degli Esteri; sir Richard Saunders, del ministero della Guerra, e sir Anthony Freeman, del ministero dei Trasporti.

    Gli uomini, tutti elegantemente vestiti, confabulavano sommessamente mentre sorseggiavano il loro tè e facevano onore al vassoio dei pasticcini al burro che, dati i tempi, erano una rarità particolarmente apprezzabile.

    In piedi, vicino alla finestra, c’era anche sir Mattew Burgess del SOE (Special Operation Executive), un sessantenne tarchiato con il volto di lucertola e i liquidi occhi neri in perenne movimento. Lord Davenport non aveva mai nutrito molta simpatia per quell’uomo; l’aveva incontrato in due occasioni, e in entrambe gli aveva trasmesso un senso di gelo che non aveva saputo spiegarsi.

    Salutò tutti i presenti con una cortese quanto distaccata stretta di mano. Aveva ricevuto dal Primo Ministro in persona l’incarico di presenziare a quella riunione e ovviamente l’avrebbe fatto con tutta la professionalità a sua disposizione. Dopotutto c’erano in gioco, oltre alle loro stesse vite, anche quelle di svariati milioni di persone fuori da quell’ufficio.

    Eppure non poteva nasconderlo: non aveva mai digerito fino in fondo gli individui dei servizi segreti. Gli risultava impossibile credere che anche loro, con quei modi sfuggenti e bugiardi, lavorassero nell’interesse dello Stato e della Corona. Non gli andavano a genio i gelidi sguardi di diffidenza che si sentiva puntati addosso, preferiva confronti duri ma franchi, aperti.

    Pensò a sua moglie quasi con invidia, quella mattina aveva colazione con la sua amica Libby e a seguire l’immancabile sessione di shopping da Harrod’s. In condizioni normali un simile programma l’avrebbe spaventato a morte: adesso gli sembrava eccezionalmente rilassante.

    Si morse il labbro inferiore per le insopportabili fitte che gli laceravano le tempie.

    «Bene, signori, sembra che ci siamo tutti. Vi spiace se cominciamo?».

    Adam Prescott, come per dare l’esempio, prese posto al tavolo delle riunioni. I presenti lo imitarono prontamente mentre inghiottivano l’ultimo boccone.

    «Credo che voi tutti, signori, sappiate perché vi trovate a Whitehall, stamane».

    Il tono di Prescott era grave. Tutti lo ascoltarono con attenzione.

    «Naturalmente siete a conoscenza dell’oggetto di questa riunione, ma ne ignorate ancora i dettagli. Prima di approfondire la questione, però, vorrei presentarvi l’uomo che ho incaricato della missione».

    Sir Prescott si alzò e aprì la porta scura in legno massiccio che collegava la sala riunioni al suo ufficio privato. Roger Lazarus comparve in sala.

    «Signori, questi è il capitano Roger Lazarus del MI6. È un uomo di assoluta fiducia. Credo sia l’unico agente inglese che può fare ciò che stiamo per chiedergli».

    I convenuti salutarono Lazarus con un cenno del capo. L’ospite era palesemente imbarazzato.

    «Adesso, la prego, si accomodi tra noi, capitano».

    Lazarus annuì e si accinse a prendere posto tra sir Freeman e lord Coverdale. Anche sir Prescott tornò a sedersi. Riprese la parola.

    «Dicevo, signori, che nessuno di voi conosce i dettagli dell’operazione di cui parleremo. È stato lo stesso Primo Ministro a insistere affinché si mantenesse il massimo riserbo sulla questione e noi, naturalmente, non potevamo che essere d’accordo».

    Ci furono risatine soffocate. Lazarus, ammirato, notò come il Capo reggesse la scena con l’abilità di un attore consumato.

    «Ed ecco perché i vostri superiori vi hanno fornito soltanto informazioni sommarie. Ma veniamo al sodo».

    Fece una pausa.

    «Già prima dello scoppio della guerra avevamo infiltrato diversi agenti all’interno di quei paesi che poi, purtroppo, sono diventati nostri nemici. Sapevamo come sia il regime fascista che quello nazista non nutrissero particolare affetto nei confronti dell’Union Jack. Dunque, fin dal principio siamo stati molto attenti a tutto quanto avveniva vicino a noi. Abbiamo, per così dire, raddoppiato la soglia di attenzione».

    Roger Lazarus intuì il segreto compiacimento di Adam Prescott per essere riuscito, come al solito, a catturare l’attenzione dell’uditorio. Lord Coverdale accese la sua pipa mentre il silenzioso Burgess, con la fronte lucida per il sudore, estrasse un sigaro.

    «Nel 1936, quando il signor Mussolini si era convinto di poter sopravvivere con le sue sole forze, uno dei nostri migliori agenti prese contatto con un alto gerarca del regime fascista. Il suo nome in codice è Bruto».

    Prescott rimase per un attimo in silenzio e riaccese il tabacco della sua pipa. Tirò una serie di profonde boccate e sospirò.

    «Bruto non è un semplice nome di fantasia. Sapete tutti che quel personaggio ha segnato indelebilmente la storia, e forse ne ha cambiato il corso. Se non fosse stato per Bruto, Giulio Cesare sarebbe vissuto per chissà quanti altri anni ancora. In quel caso, chi può dire come sarebbero andate le cose per i romani? Credo sia questo il motivo per cui il nostro agente – davvero in gamba, vi dico – ha battezzato così il suo contatto. Bruto è un figlio in rotta col padre che, accortosi del marciume del sistema in cui aveva creduto ciecamente, ha deciso di abbandonare la nave al suo destino dopo aver capito che affonderà».

    «Di queste cose, più o meno, ci avevano già messo al corrente, sir Adam. Non le dispiace dirci qualche cosa in più?».

    «Non abbia timore, sir Saunders. Ho l’impressione che quando uscirete da questa stanza ne saprete almeno quanto me. Dico bene, lord Davenport?».

    Prescott ammiccò sorridendo ed Henry Davenport, quasi colto di sorpresa, si affrettò ad annuire in silenzio.

    «Bando alle ciance, allora: continuiamo la storia. Vi dicevo di Bruto. Lo seguivamo discretamente da molto tempo in attesa dell’occasione propizia per tirarlo dalla nostra parte. Occupava un posto chiave e volevamo assolutamente reclutarlo. Apparentemente non aveva vizi: non fumava, non beveva, non giocava d’azzardo. Arrivava in ufficio alle otto del mattino e ne usciva alle nove di sera».

    Un lavoratore modello, pensò Lazarus. Mai però quanto te, Capo.

    «Inattaccabile anche dal punto di vista familiare. Sua moglie, proveniente dall’alta borghesia romana, non si concedeva nemmeno uno straccio di amante. La figlia era felicemente sposata con un astro nascente del regime. Allora ci siamo chiesti: in che modo possiamo incastrarlo? Perché era questo il problema: incastrarlo, per indurlo a essere con noi e sfruttare a nostro vantaggio la sua posizione».

    Sir Adam Prescott inarcò le sopracciglia e si accarezzò la fronte rugosa come se stesse riflettendo.

    «Scoprimmo che l’unica debolezza di Bruto erano le donne. Ahimè, chi può dargli torto?».

    Lord Coverdale si lasciò sfuggire un risolino baritonale.

    «Il nostro agente, che oltre ad essere intelligente è anche una bella donna, lo incontrò casualmente a una festa danzante della nobiltà romana. Lui non si chiese come mai una donna come quella fosse così interessata a un uomo calvo e pingue come lui, diciamo che preferì tenere gli occhi chiusi».

    Sir Prescott aveva fatto quella considerazione come per invitare tutti, implicitamente, a tenere alta la guardia. Careless talk costs lives, ammonivano i manifesti propagandistici più in voga.

    «Per farla breve: un paio di balli e furono scambiati i numeri di telefono, qualche abboccamento e si uscì a cena... sapete meglio di me come vanno queste cose».

    Prescott, che Lazarus osservava attentamente meravigliandosi delle sue doti di istrione, sembrava divertirsi molto con quel racconto. Gli piaceva l’impazienza degli ascoltatori e pareva volerli far soffrire con pause studiate o frasi apparentemente poco importanti.

    «Quindi i due finirono a letto. La cosa andò avanti per diversi mesi e credo che lui si divertisse molto. Addirittura, era diventato anche più affettuoso con la sua signora: la ricopriva di costosi regali. Cadde dalle nuvole quando la nostra dolce maliarda, una sera che erano insieme a casa di lei, gli rivelò di aver registrato su bobina ogni sussurro, ogni respiro dei loro incontri galanti. E non vi dico la sorpresa quando gli rivelò la sua vera identità. Pianse come un bambino, a lungo».

    Gli astanti erano adesso visibilmente interessati a quella torbida storia. Altri cominciarono a fumare nervosamente, in silenzio.

    «E lui, lui che cosa fece?» chiese con impeto il distinto sir Freeman del ministero dei Trasporti, come se non vedesse l’ora di conoscere l’epilogo di un succoso pettegolezzo. Burgess lo guardò di sbieco con una smorfia sprezzante. Ecco da chi siamo governati, sembrava pensare.

    Prescott sorrise. Conosceva i segreti di quell’uomo meglio di chiunque altro in sala. Sapeva bene che genere di giochetti faceva con il suo amico adolescente in un tugurio dell’East End, quando sua moglie lo credeva impegnato con i colleghi del golf club per un calice di porto e un sigaro.

    «Cosa fece? Dapprima sbraitò come un indemoniato, appioppando alla donna epiteti non proprio signorili, poi la minacciò con la sua pistola, infine cercò di comperare il suo silenzio. Immagino voi sappiate quale sarebbe stata la reazione del Gran Capo alla notizia che un suo alto gerarca se l’era spassata con un’agente inglese».

    Nella sala scese un gelido silenzio. Lord Davenport, al pensiero di sangue e torture efferate, ebbe un conato di vomito che trattenne a malapena.

    «Dopo un po’ di tempo il nostro Bruto capisce di essere con le spalle al muro e che non ha vie d’uscita. Allora ritorna su posizioni più distese e si accorge che potrà trarre profitto anche come nostro... collaboratore».

    «Mi dica, sir Prescott», fece Burgess con voce chioccia, «allora la defezione di Bruto non è stata poi così... diciamo, volontaria». Sorrise malignamente.

    «È esatto, sir Burgess, assolutamente esatto». Anche Prescott ghignava beffardo. Davenport colse la sottile intesa tra i due, e per un momento ne ebbe paura. Ecco perché non gli piacevano gli uomini dei servizi segreti.

    «Diciamo

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