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L'ultima scimmia sulla luna
L'ultima scimmia sulla luna
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L'ultima scimmia sulla luna

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About this ebook

Nel 1919 Viktor Tausk, psicanalista slovacco allievo di Freud, pochi giorni prima di suicidarsi pubblica uno studio su una sua paziente, convinta di essere posseduta da un meccanismo elettronico maligno in grado di controllare i suoi pensieri da remoto. La macchina influenzante è ancora oggi un testo fondamentale nello studio delle patologie mentali ed è la prima fonte di ispirazione di questo thriller, in cui la ricerca della soluzione del giallo coincide con un viaggio interiore del protagonista nelle zone più remote dell'io, fino al collasso delle sue convinzioni e di tutto ciò che prima interpretava come reale. Un’espiazione allucinogena: la sua ultima scimmia.
Sullo sfondo la scena hacker italiana e le interconnessioni tecnologiche nel mondo dell’informazione. Un romanzo il cui intreccio funziona da pretesto per inquadrare il condizionamento mediatico nella società moderna, con una scrittura giovane, scorrevole e divertente.
LanguageItaliano
Release dateOct 19, 2011
ISBN9788895758060
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    L'ultima scimmia sulla luna - Gianluca Bellizia

    Gianluca Bellizia

    L’ultima scimmia sulla luna

    romanzo

    ISBN 978-88-95758-06-0

    © Enzo Delfino Editore

    Via Pandosia 70 00183 Roma

    Tel. 0697600408 Fax 0697257966

    http://www.enzodelfinoeditore.it

    A Simona e Giordano, in ordine di apparizione.

    E a tutti quelli che ancora ci credono.

    PRESS PLAY ON TAPE

    Giovedì, 14 agosto 2003

    Chiara apre gli occhi e sente di aver finalmente trovato una spiegazione convincente al virus di follia che ha spinto tutte quelle persone ad ammazzarsi negli ultimi giorni. Proprio oggi, una settimana da quando hanno chiuso Ivan dentro una bara.

    Alza lo sguardo verso il suo viso riflesso contro il finestrino spray art mentre intreccia attorno alle dita i fili avorio del suo iPod, in loop sulla registrazione audio delle migliori puntate di SuperQuark.

    Adesso comincia a chiedersi se i suoi amici siano in pericolo e se questa storia non rischi di sfuggirle di mano. Non temere, sembra suggerirle il ritmo del vagone sulle rotaie. Del resto, la preoccupazione, lei l’ha sempre sostenuto, è un passatempo sterile: gli avvenimenti che definiscono la tua vita, in un modo o nell’altro, finiscono sempre col sorprenderti perché appartengono al buio, come una banda di vandali a un vicolo senza lampioni.

    La carrozza metropolitana lambisce il bordo della banchina, uno sbuffo meccanico precede l’apertura delle porte. Entrano due ragazze, una signora rumena, un signore anonimo, un uomo anziano e due bambini.

    La ragazza X indossa un vestito gessato di marca, ha i capelli corti lamé e tiene per mano la ragazza Y, insieme occupano i primi due sedili giallo zabaione e cominciano a scambiarsi effusioni.

    La signora rumena si siede di fronte a loro, alle prime avvisaglie dell’imbarazzante spettacolo comincia a brontolare qualcosa d’incomprensibile.

    Il signore anonimo veste classico, ha una valigetta di finto cuoio che tiene serrata fra le gambe e un quotidiano finanziario zuppo di sudore incastrato sotto l’ascella.

    L’uomo anziano ha un aspetto trasandato, incurante dei bambini occupa con un movimento scaltro l’ultimo posto libero e si addormenta, spalancando la bocca un attimo prima di chiudere gli occhi.

    Il bambino è roscio, ha le efelidi e una faccia da schiaffi, la bambina è bionda, graziosa, e porta le treccine. Entrambi fissano in cagnesco il signore anonimo.

    Ma dove diavolo li ho già visti? , si chiede perplesso il signore anonimo. Un fischio isterico e il vagone, sospirando, riprende la sua rotta.

    – Candy è poesia… Candy Candy è l’armonia – la cantilena copre un’irriconoscibile Smoke get in your eyes storpiata dagli altoparlanti.

    Parte un simultaneo giro di nuche: l’intera popolazione del mezzo pubblico catalizza il suo interesse verso la fonte dell’anomalia: il signore anonimo.

    – Candy è la magia… Candy Candy è simpatia – continua questi leziosamente. C’è chi sbuffa, qualcun altro si accerta della presenza di spiccioli nella tasca.

    – È zuccheeero filaaato, è curiosità, è un mondo di pensieri e libertaaà. È un fiooore deliiicato, è felicitaaà, che a spasso col suo gatto se ne vaaa – conclude l’anonimo, sfumando in un silenzio inquietante.

    Gelo. Nessun segnale di ritorno. Anzi, molti stanno già riportando la loro attenzione altrove. La signora rumena sfoglia il gemello slavo di Eva Tremila, le due ragazze si guardano, sghignazzano e riprendono a pomiciare.

    – Tranquilli, vi prego – rassicura – non sono pazzo.

    Un momento di pausa.

    – Sono un telefonino!

    Nessuno ride.

    L’uomo anziano russa, i due bambini continuano a squadrare con odio il signore anonimo.

    Sono due sosia… ma porco mondo, dove diavolo li ho già visti…

    Sente la smania crescere, contorcersi come un boa ubriaco dentro lo stomaco, e intanto pensa: è questo? È veramente questa tana di topi il mio ultimo quadro?

    Si alza in piedi e spiega Il Sole 24 Ore, da cui spunta un oggetto lucido che presto diventerà rovente. Pistola, revolver, sono pochi quelli in grado di distinguerli, ma poco importa: lui sa che all’interno ci sono ben sei proiettili che sbattono il muso sul tamburo come cinghiali affamati.

    Uno. Tutti scattano in piedi. Urla.

    Ma è ingiustificato, suvvia, ho mirato in aria solo per abituarmi al frastuono.

    Due. Tentativi vari di supplica smorzati sul nascere. L’uomo anziano apre finalmente gli occhi, pensa Oh! , e si chiede chi abbia cambiato canale.

    Tre. Un fenomeno di astuzia deve aver abbassato la leva d’emergenza, la metropolitana compie una brusca frenata e sul rinculo la signora rumena finisce a gambe all’aria, nell’indifferenza generale. Ora sono bloccati tra due stazioni.

    Ma dove diavolo li ho…

    Quattro. Sembra opinione comune che basta allontanarsi un poco per evitare quegli schizzi rossastri.

    Ci sono! È un telefilm, maledizione, ma quale telefilm?

    Cinque. Il vagone ha ormai assunto un aspetto vermiglio.

    Un telefilm degli anni Sessanta, un telefilm degli anni…

    Il signore anonimo si blocca. Chiara è in piedi davanti a lui, rigida al centro della carrozza tra due fila di sedili ormai deserte. Tende la mano in direzione del viso dell’uomo, lentamente, fino a infilargli la punta delle dita tra le labbra.

    Il vagone è un microcosmo senza eroi, sospeso in silenzio sbigottito, sia reale che mentale, l’unico suono che Chiara può percepire è il tam tam del suo battito cardiaco.

    Il signore anonimo allontana e scuote la testa come per scacciare un rimpianto insensato.

    Poi sorride, sputa qualcosa per terra, e con calma si appoggia la canna della pistola alla tempia.

    Tre nipoti e un maggiordomo!

    Sei. Il vagone rosso diventa nero.

    RIAVVOLGI E CANCELLA

    Venerdì, 8 agosto 2003

    Sbagliato, sono spiacente, non è Armstrong. Non è la risposta esatta. Guarda, siamo tutti addolorati, no, ti assicuro… non ti avevo chiesto il primo, capisci? Ti facciamo comunque un bell’applauso e tanti auguri per la scuola… Cosa? Dai, non prendertela, l’importante è partec… ehi, ma cosa diavolo urli? No, allora, se fai così interrompiamo, niente bestemmie, e che cazzo, qui siamo in fascia protetta…

    Era già qualche giorno, ormai, che Bugs Bunny distorceva in metallico.

    Fu questo il primo pensiero lucido di Michelangelo Silenzi, quella mattina di agosto, appena si ritrovò completamente in piedi: gli occhi stretti come quelli di un criceto miope, un cratere morto al posto della gola e un jingle bastardo dentro la testa che lo tormentava da almeno una settimana. Pessimo sintomo.

    Sebbene il sottosistema che gestiva l’unità di controllo del suo cervello fosse schedulato per iniziare la sua attività alle 9:15, (dopo una dose maschia di caffeina e carboidrati al distributore automatico in grado di trasformarlo, al pari delle noccioline di Superpippo, nel superimpiegato modello dell’azienda di giocattoli dove lavorava), riuscì tuttavia a elaborare un’analisi abbastanza professionale del problema.

    Avrebbe dovuto, in pratica, eseguire un’autopsia sul coniglio, smembrarlo, inoltrarsi nella logica contorta del suo scheletro elettrico, arrivare all’esatta diagnosi del danno e in breve l’adorabile robot radiosveglia che puntualmente, ogni mattina, lo scaraventava giù dal letto come una tata nazista, l’avrebbe piantata di tartagliare, tornando agli odiosi livelli di efficienza del suo primo giorno di vita.

    Sapeva che non l’avrebbe fatto. Non era da lui, non adesso, non appena sveglio.

    Una volta, un tale con cui divideva l’appartamento ai tempi dell’università aveva appiccicato un post-it alla testa dello specchio sul lavandino del bagno. Sopra c’era scritto: Michelangelo, questo sei tu. Non prenderlo a capocciate. Molto più saggio quindi, in queste condizioni, rimanere in boxer e occhiali a grattarsi il sedere scrutando il panorama deserto attraverso le persiane.

    Fuori c’era l’EUR, il quartiere futurista di Roma, l’ultimo conato di una smania imperialista, progettato per festeggiare un vittoria che poi non c’era stata. Attraverso un sottile strato di foschia, sulla linea dell’orizzonte occupata da edifici creati per ospitare statue, si ergeva il fantasma di un grattacielo di granito bianco, forato come una groviera, una piramide del XX secolo senza faraone. Da quel punto si dipartivano linee di catrame scurito dall’umidità collosa d’agosto, un complicato reticolo di strade vuote come canali prosciugati che componevano uno scenario metafisico, l’ambientazione ideale per un manga post-apocalisse.

    In fondo al viale, una folata di vento prendeva a spintoni il foglio di un quotidiano accartocciato e Michelangelo ipotizzò che, forse, con un superlavoro di concentrazione psicofisica, sarebbe stato in grado di captarne il rumore prodotto.

    Nessuna traccia di vita intelligente tranne forse lui; mentre nella sua stanza il pinguino elettrico pompava aria gelata alla grande, il povero mondo rimaneva fuori, triste e muto come una città prigioniera in una bolla di vetro.

    – Dagherrotipo!

    Un groviglio di riccioli neri come la faccia nascosta della luna emergeva minacciosamente dalla distesa brulla delle lenzuola grinzose. Ileana appoggiò le spalle nude alla testiera del letto, poco più sopra, da una litografia tridimensionale appesa alla parete, un delfino stilizzato si stava tuffando in un oceano blu elettrico.

    Incrociò le braccia con impazienza, i suoi occhi cerulei esigevano una replica immediata.

    – È il primo apparecchio usato nell’Ottocento per ottenere una fotografia, grosso modo – tentò Michelangelo. – Accidenti, ma te le sogni la notte? E se ti dico ikebana? – rilanciò, esibendo un sorriso patetico.

    – Facilissimo. È un genere di composizione floreale giapponese.

    Vediamo… ontologia!

    – Mmm… La filosofia che studia le cose come effettivamente sono.

    – Fuochino!

    – Dimmi cinesica allora – le intimò.

    – Lo studio dei gesti e degli atteggiamenti umani del corpo – una pernacchia. – Er-me-neu-ti-ca!

    – Erme… cosa?

    – Ermeneutica, prego.

    – Ma certo… – riprese Michelangelo avanzando con lo sguardo truce verso il letto – Significa compresso, chiuso, a tenuta stagna… – e con un balzo si tuffò sul letto planando con il viso tra le gambe di Ileana, che divertita le richiuse ermeticamente.

    – Ti ho fregato, Paperino! L’ermeneutica è l’arte dell’interpretazione.

    – Ho fatto studi tecnici, che ti aspettavi?

    – Lo so. Quello che ignoro è cosa ha combinato il mio ing. tutta la notte.

    Michelangelo aveva trovato con la nuca una comoda collocazione sul grembo nudo di Ileana. Lanciò uno sguardo verso i led a cifre rosse che sostituivano le pupille del robot sveglia, constatando che se il suo roditore digitale non si era definitivamente rincoglionito, mancava poco alle otto. Niente clacson o antifurti, una lunga pausa silenziosa degna di un film di Antonioni.

    Gli ultimi sono scappati tutti poco dopo l’alba, pensò. Pazzesco, è veramente arrivata l’estate.

    – La memoria è cancellata – le rispose flebile. – Il notebook ha un guasto, i documenti al suo interno sono spariti, ho provato a recuperare qualcosa, ma temo che sia andato tutto perduto.

    – Paperino…

    – Credo che sia successo per colpa di un virus. Sai, non ho trovato nient’altro che il file di una foto, l’immagine di una donna con una croce luminosa impressa sulla fronte.

    – Cosa?

    – La foto in bianco e nero di una donna, ti dico, pallida come un vampiro, uno sguardo da pazza e quella croce come un tatuaggio di fuoco.

    – E cosa significa?

    – Boh! Mi fa ribrezzo, dev’essere un logo, forse, una specie di firma, non ne ho idea. Probabilmente quelli che fanno ’sto genere di cose lo trovano divertente. Il risultato è che tutto il mio lavoro è andato a farsi fottere, l’hard disk vuoto vale meno di un ferro da stiro. Centoventi giga bruciati. Kaputt! – fece, mimando il gesto dell’estrema unzione rivolto al soffitto.

    – Michelangelo – il tono di voce di Ileana era dolce – credo che dovremmo tentare di risolvere la situazione, o perlomeno affrontarla.

    – L’argomento è estinto, mi pare.

    – Lo sai a cosa mi riferisco – lo stuzzicò. – Vorresti prendermi in giro? Sto parlando di Ivan… Siete cresciuti insieme, è assolutamente normale che ti senta scosso.

    – L’ho visto.

    – Come?

    – Poco meno di una anno fa, una domenica mattina, era quasi Natale ed eravamo a Porta Portese, ti eri fermata davanti un rigattiere che vendeva vecchi elettrodomestici, stavi ispezionando la carcassa di un Dolce forno ridotto male e lui si è fermato a meno di un metro da te, io fortunatamente ero un po’ più distante dove non poteva vedermi.

    – Non me ne sono neanche accorta, perché non mi hai avvertito?

    – Non potevi riconoscerlo, era gonfio come una busta d’acqua sporca, aveva la barba a chiazze e indossava un paio di zoccoli aperti, col freddo che faceva.

    – Santo cielo, e lui… credi che mi abbia vista?

    – Non lo so, nell’altra mano portava una pila di CD masterizzati, quelli con le copertine fotocopiate, forse si era avvicinato a te per proportene qualcuno. Poi si è irrigidito e per un attimo, sì, ho avuto la sensazione che ti avesse riconosciuto. Vi siete sfiorati, poi ti sei girata, l’hai fatto senza nessuna malizia, credo che sia stato un movimento automatico per allontanarti dalla puzza che mandava e lui se ne è andato. Adesso so che ti starai chiedendo perché non l’ho fermato, perché non l’abbiamo salutato.

    Ileana annuì.

    – Sai, nei giorni seguenti ci ho pensato un bel po’. Quando ho capito che era proprio lui ho avuto una sensazione strana, mi sembrava sproporzionato. Il corpo tondo e il viso fino, a punta come quello di un corvo. Si sosteneva su un bastone come la caricatura di un aristocratico decaduto. Ecco quello che ho pensato, che fosse buffo. Più tardi, ti ricordi, ci ha sorpreso la pioggia e ci siamo andati a riparare sotto un portico, che alla fine abbiamo scoperto che c’era una trattoria e ci siamo fermati a mangiare lì. Siamo rimasti in giro per il centro e poi la sera siamo andati a teatro e quando siamo tornati a casa eravamo talmente sfiniti che abbiamo deciso che, per la prima volta nella nostra vita, il giorno dopo ci saremmo dati malati al lavoro, solo per dormire un po’ di più.

    – Sì, mi ricordo…

    Michelangelo si voltò verso sua moglie.

    – Fu una gran bella giornata. Ecco, l’unica reazione che provato nel rivederlo è stato un senso di ridicolo, non c’entrava niente con noi. Dimmi, oggi dovrebbe essere diverso rispetto a quel giorno?

    Ivan era già morto da più di dieci anni e io, probabilmente, lo ero per lui. Vuoi una reazione teatrale, dovrei forse piangere, da copione, coltivare un mediocre senso di colpa? E perché mai, oggi?

    Forse perché è troppo tardi? Purtroppo ho la fortuna di sapere cosa farei se potessi tornare indietro: assolutamente nulla.

    Ileana distolse lo sguardo, mentre una nuvola tacita e morbida accanto alla testa recitava: frottole, amore mio.

    – E comunque – proseguì Michelangelo – se ci tieni a saperlo, sto sviluppando l’idea che gli amici veri non muoiano mai.

    – Ok, me la sono cercata: un’altra delle tue massime. Ma hai sbagliato a non parlarmene prima, non tenerti tutto dentro, rischi di scoppiare – piegò le dita come per sfoderare gli artigli e invece prese a rastrellargli il cuoio capelluto. – Anche a me, con Gorbaciov, è successa più o meno la stessa cosa.

    – Ma di cosa stai parlando?

    – Che quando è morto ho represso il dolore, facendomi del male – confermò, annuendo alla sua stessa affermazione.

    – Ileana, Gorbaciov era un gatto. Ma tu mi paragoni Ivan a una bestiaccia pelosa e incarognita, che ormai non si reggeva più in piedi, sbatteva ovunque, miagolava ogni notte come una sirena e si cagava sotto in continuazione?

    – E che c’entra? Proprio l’altra sera in TV il professor Stigliano, parlando del rapporto con gli animali, affermava che è un errore della nostra cultura ritenere che il dolore di una perdita sia proporzionato al suo status di essere vivente.

    – Quello non è uno psicologo: è un jukebox di stronzate.

    – A parte che è uno psichiatra di fama internazionale, che ha scritto dei saggi importantissimi. Poi ti prego di smetterla di essere sempre così acido nei suoi confronti. Tanto è palese che la tua è solo invidia mascherata da gelosia.

    – Come vuoi… – disse lui, voltandosi sul fianco opposto.

    Ileana lo scavalcò goffamente, agendo in modo che il suo viso atterrasse pochi centimetri distante da quello del marito.

    – Ehi… – sussurrò – abbiamo i nervi scoperti. Senti, io penso che questa vacanza farà bene a tutti e due. Mancano nove giorni – sottolineò, sventolando i palmi delle mani come una farfalla. – Domenica prossima a quest’ora staremo a rincorrerci tra leoni e babbuini, poi faremo le lucertole sotto il sole di Malindi. Vedrai che lì, senza tanto stress, scioglieremo uno per uno questi nodi. Va bene? Gonfiò le guance d’aria e inclinò la nuca incrociando gli occhi come un clown.

    – Pace? – farfugliò.

    – E bene – rispose Michelangelo, premiandola con un sorriso.

    Soddisfatta, Ileana si divincolò dalle lenzuola e in punta di piedi, con un’espressione buffa saltellò sulle punte in direzione della doccia. Michelangelo contemplò la silhouette della moglie sbaragliare la polvere sospesa tra i fasci di luce che filtravano attraverso le persiane. Era il corpo agile di una gran bella signora: le lunghe gambe, mantenute snelle da dure sessioni di spinning, slanciavano il busto sopra cui gravitava un mucchio vaporoso di boccoli petrolio, degni di una ex stella della disco music.

    Quarant’anni, una cifra tonda, da esibire fieri con quel fisico in grado di gettare un cono d’ombra su gran parte delle scialbe ventenni che subivano la sventura di camminarle accanto. Quaranta, che significava otto più di lui sebbene, grazie a un incantesimo benevolo, l’assenza di qualsiasi segno di invecchiamento sembrava premiarla, neutralizzando il distacco. Quelle sottili striature intorno agli occhi, che su altri visi si chiamano zampe di gallina, caricavano il suo sguardo di tensione, colmandolo di fascino magnetico.

    Michelangelo non era tormentato da altro: politica, calcio, religione lo lasciavano abbastanza indifferente. Ma di sua moglie, al contrario, non ne aveva mai abbastanza.

    – Ile – la interpellò, congelandola sull’uscio del bagno – quando ci siamo conosciuti fumavo?

    – Cosa, le canne? No di certo, caro signor salutista.

    – Voglio dire le sigarette.

    – No, no, avevi già smesso prima che ci conoscessimo.

    – Sicura?

    1989

    Istituto Tecnico Industriale Pascal. Michelangelo indossa una maglietta nera con il pipistrello di Batman e porta i capelli a spazzola, irti e zuppi di melma collosa. I capelli di Ivan, al contrario, sono lunghi, quasi gli coprono gli occhi e buona parte del viso a eccezione delle guance, divorate dall’acne adolescenziale. Hanno appena combinato qualcosa di losco, fumano e ridacchiano come due canaglie blindati dentro il cesso, emanando piccole nubi tossiche in un misto di odori nauseabondi.

    – Mitico! Non capirà mai chi è stato. Ivan, lo sai, a volte penso che tu sia un genio e mi rode un po’…

    – Sono un genio perché il mondo pullula di merdacce come te.

    (risate)

    –Non vedo l’ora – continua Ivan – di prendere questo schifo di diploma e andare a vivere con mio padre a Milano.

    Un rumore di passi inaspettato li getta in un panico paranoico.

    Fanno capoccella fuori dalla porta e la vedono: giacca con spalline da rugby, minigonna e capelli neri, ricci, ondeggianti sulle spalle. La professoressa Ileana Giusti sta attraversando a passo marziale il corridoio.

    – È la supplente d’italiano, quella nuova.

    – Madonna, quanto è bona!– sussurra Ivan estasiato.

    – Lo dici a me? Da quando è arrivata sogno di farmela tutte le notti…

    Lo scroscio della doccia era simile al fracasso di una friggitrice.

    Quando cessò, la voce di Ileana, sebbene fuori campo, filtrò nitida:

    – Paperino, fatti la barba e metti la cravatta. Mi raccomando, non vorrai farti redarguire proprio l’ultimo giorno prima delle ferie.

    La luce inghiottì l’ultima slide, un flash a bruciapelo sul naso che il pubblico, disorientato, ricambiò con un applauso.

    Un giovane organismo vivente, che sembrava essersi sviluppato su misura per non sgualcire il suo D&G da narcotrafficante, raggiunse lo scranno e alzò il pugno chiuso verso il soffitto, in un baleno realizzò che avrebbe potuto essere mal interpretato e tirò su anche l’altro, come un ciclista sulla striscia di arrivo. Un sorriso smagliante metteva a dura prova la pelle del viso, lucida e ambrata come un paio

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