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bello da morire. bello come un dio.
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Ebook89 pages1 hour

bello da morire. bello come un dio.

By Qam

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About this ebook

Questa è la storia di tre ragazzi, dei loro amori e delle strade che prenderanno le loro vite, in una città Milano, in anni turbolenti,ma anche liberi, è l'inizio della consapevolezza dell'emancipazione femminile.


lei era stata al gioco, ed era stato pure crudele per lui che gli ronzava attorno come una falena con giri sempre più stretti attorno al fuoco per poi buttarcisi dentro e bruciare, infatti era andata così, dunque era innamorata, non era indifferente o un’amica, o altro; aspettava il momento buono, non lo allontanava, faceva l’indifferente, vedeva che soffriva, forse una vendetta verso Marco, no non era questo, era che lei si era innamorata di entrambi, per istinto ci si buttava, ma la ragione la tratteneva, intanto il tempo passava, lui sempre più vicino, tutte le scuse per vederla, anche per strada, pensava lei: “ma mi segue questo?” Troppe coincidenze, addirittura amicizie in comune, ma che ci faceva sto tomo con i suoi amici, erano diversi, loro avevano accettato Marco con la puzza sotto il naso, tanto che appena sparito facevano a gara nel dire: “si sapeva, non lo dicevamo, ma si capiva che finiva, figurarsi sti fricchettoni dell’alta società fanno i rivoluzionari ma poi vanno a casa e si mettono in riga, una volta che la mamma glielo ordina,” perciò ne erano pure felici, se l’erano tolto dalle palle, invece con Andrea erano diversi, lo cercavano, non lo vivevano come Marco, lo spiegavano col fatto che lo trovavano sincero, infatti lui non faceva nessuna rivoluzione, ascoltava per poi dire ai suoi amici
LanguageItaliano
PublisherQam
Release dateOct 25, 2015
ISBN9788892511613
bello da morire. bello come un dio.

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    bello da morire. bello come un dio. - Qam

    fantasia

    cap. 1 Maria

    Maria

              Sei in giro a spendacchiare, come al solito! ti invierò il bollettino. Ora sono come il tempo: cattivo, cazziato, assai nero con fulmini e saette. Aspettando che si cheti la tempesta pulisco il tugurio, fortuna che topi non ne vedo più, ciao.

               Anche questa è fatta, ho scritto il messaggio e chiudo subito facebook, non voglio né sentire né vedere nessuno, altrimenti divento più nera e dentro e fuori. Mentre mi faccio il caffè continuo a mugugnare e guardo cosa c'è di nuovo fuori; ebbene c’è da sempre una fila di alberi abbandonati lì, senza nessuna manutenzione; così, come me, vedono passare la vita altrui, perché le nostre sono immobili, hanno radici d'acciaio, la vita è degli altri, la nostra non c’è più. Passano le stagioni, gli amori, passa tutto e…. cosa resta? Niente, solo niente, ma un niente di che? il nulla di tutto, della tua gioventù che pensi persa, non vissuta, della maturità allora così felice, oggi scontata, quasi scordata, di adesso che il tempo scorre lentamente e tutto il giorno ti dice: non c’è più niente, non c’è più niente, tutto è andato, tutto è perso per sempre. Non ho più lacrime; da quanto tempo non piango! non lo so, mi sono messa qui, di fronte agli alberi, alle querce; loro hanno più o meno la mia età, sono giovani, le hanno piantate negli anni 50 quando hanno costruito questo condominio. Ai tempi era un palazzetto, neanche brutto, ma oggi è un quartierino multietnico, ci siamo tutti qui: io, italiana di origine meridionale, egiziani, rumeni, bulgari, albanesi, indiani, senegalesi, altri con la loro bella pelle nera e i cinesi che vanno e vengono cambiando volti con gli stessi nomi. Chi sono? Sempre in silenzio questi cinesi, paiono servizi segreti permanenti e seguono le regole cinesi: evadere il fisco, maneggiare soldi per mandarli, esentasse, in Cina, e poi, naturalmente, avere un ristorante che spande puzze nauseabonde. Ci siamo tutti, come rappresentanti del pianeta terra, in un condominio decadente con davanti un boschetto, con una fila di alberi crescenti, non curati, sfruttati, come noi. Siamo in regola, siamo oggetti, siamo in armonia con il resto del paese Italia, ci chiamano i nuovi schiavi; che siamo qui o là non conta niente; il luogo sembra quasi un casermone, noi come in un allevamento intensivo di polli, ognuno nella sua gabbietta pronti all’uso. Quale uso si può fare di un uomo? Ma di tutto ci fai! l’operaio, l’impiegato, la nonna, il bambino da riempire di istruzioni per essere pronto un domani a servire. Chi? Ma loro! sempre loro. Da quando l'uomo è diventato stanziale la roba è essenziale, che sia un oggetto, casa, macchine e via dicendo fino al virtuale; comperi milioni di barili di petrolio, ma non ne hai uno, sono virtuali, li comperi e li vendi, accumuli ricchezze, decidi se uno deve morire di fame o rimpinzarsi di schifezze. Il nuovo ordine mondiale, che tutto prende e nulla dà, sta distruggendo il pianeta; noi persone ridotte a omuncoli di allevamento, a zombie, al niente e, se ti ribelli, finisci isolato, sei lì che non sei altro che niente come me e altri miliardi di deficienti che stanno in vari stati del globo, proprio come me, servi.

              Mentre mi occupo di allegri pensieri della mia decadenza fisica e morale, sorseggio il caffè, leggo i giornali su internet, scrivo articoli sui miei blog; scrivo sempre le stesse cose da anni, indignazione su politici corrotti e mignottoni, oppure desideri della gente che fa fatica a vivere, dei politici che magnano e magnano e rubano, tutti rubano di tutto; mi hanno pure rubato terminologie volgari scritte su internet, prima disprezzate e poi fatte proprie e divulgate, le mie parole cazziate, una delle prime a scrivere italiano volgare, fui io che scrissi magna magna, tiè, cazziare ecc. ecc. e altri termini di usanza popolare. Qualche penna arguta e schifiltosa mi fece notare che io, anche se sconosciuta, avevo pubblico che si relazionava e discuteva con me, lui invece, anche con un nome noto, non lo cagava nessuno. Visto che l’invidia ci perseguita sempre, trovò il modo di screditarmi dicendo: ma sbagli a scrivere, correggi, ma dai, come osi mettere certi termini volgari. Gli risposi: guagliò, questo è internet, è popolo, se sei dei quartieri alti non me legge, che io non aspiro ad altro che a rompere i coglioni alla gente che è fine nell’aspetto e anche di penna, ma rubaiola nell’anima e nelle mani e non me scassà la minchia, sparisci che sei solo invidioso. Non mi disse più nulla, però ogni tanto c’è un signore che mi fa notare tramite il suo nick/avatar anonimo la punteggiatura e gli errori ortografici. Sospetto sia sempre lui, un giornalaio,(chiamo così i giornalisti servi del regime, cioè quelli che sanno scrivere benissimo il dettato dei partiti senza errori grammaticali), infatti mi seguiva su internet facendo bannare pure il mio nick; ora ha fatto carriera, da troll è passato, con tutta quella bell’aria panzuta, alla tv, ci staziona dalla mattina alla sera su tutti i canali; lui non parla, sputa di tutto, in specie sparla di noi donne: ma che ne sa lui delle donne; gli piace che la donna sia cristiana e sottomessa, io penso che solo una coraggiosa oppure una depravata va sotto ad uno di 200 chili per dire che gode, ma di che! di schiacciata e via; ma i gusti sono gusti. Io da giovane, a uno così, manco il saluto gli davo e non per la ciccia fuori ma per quello che aveva nel cervello, perché vuole la donna sotto per essere potente, maschio ma non sa che cosa vuol dire essere maschio sul serio, cioè un uomo e non un quaquaraquà. Uno così mi sa che è impotente, un deficiente che si crede giornalista, spero che sia cornificato a dovere.

              Da giovane ero schifiltosa, mi piaceva essere riservata nei modi e nelle parole, non ero molto curata nell’aspetto, non ero elegante, piuttosto trasandata, pulita si, ero vestita di belle cose che appena indossavo prendevano la forma della mia indolenza e diventavano stracci che mi davano un’aria vissuta, di non curanza delle apparenze, ma molto attenta alla sostanza delle cose. Ero ammirata, mi chiamavano la paninara, così di alta classe, ma che alta o bassa, io venivo dal Sud, vissuta in una casa dove non mancava nulla, piena di cose belle e sobrie; mio zio diceva di sé che era padrone della sua casa, della sua terra, della sua vita e naturalmente della mia perché ero una sua estensione. Quando mi guardava io lo capivo, mentre mia zia, sua moglie, che di parentela lo era di sangue in quanto sorella di mia nonna, per ottenere da me a volte mi passava per le mani, sempre nei punti dove non c’era danno: il sedere.

              Vita nel sud, un paesino che pareva un presepe, sui 600 metri d’altezza, quasi montagna, aria frizzante, cibo buono ed educazione rigida, andante verso morbide lasciate, perché ai bambini si lasciava fare; insomma c’era la casa, la sicurezza; non ero popolo, ero una borghesuccia, la mia famiglia era così.

              Il sud che hanno scritto e descritto al nord io non lo riconosco,

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