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Verso la fine dell’economia: apice e collasso del consumismo: Apice e collasso del consumismo
Verso la fine dell’economia: apice e collasso del consumismo: Apice e collasso del consumismo
Verso la fine dell’economia: apice e collasso del consumismo: Apice e collasso del consumismo
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Verso la fine dell’economia: apice e collasso del consumismo: Apice e collasso del consumismo

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Un sistema economico fondato sulla crescita illimitata della produzione sta spingendo l’intera umanità verso il collasso a causa dell’esaurimento delle risorse naturali del pianeta. A peggiorare l’attuale crisi economica concorrono tutta una serie di ulteriori crisi (energetica, agricola, delle materie prime minerarie, delle risorse idriche, socio-demografica e ambientale), troppo spesso ignorate dall’opinione pubblica. Quelli che ci attendono sono tempi difficili, in cui si intensificheranno ancora di più le tensioni e i conflitti per l’accaparramento delle ultime risorse naturali e dove, in un mondo sempre più indebitato, sono aumentate le pressioni per raggiungere la chimera della crescita infinita.
Per evitare il sempre più probabile tracollo dell’intera nostra società (che non riuscirebbe a reggere a lungo l’incapacità di veder crescere la produzione materiale) occorre un radicale rovesciamento dei valori correnti che dovranno necessariamente essere compatibili con l’ambiente. La teoria della decrescita offre la possibilità di evitare la catastrofe riportando l’uomo – e non più l’economia – al centro dell’agire umano.
LanguageItaliano
Release dateSep 9, 2013
ISBN9788897363675
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    Book preview

    Verso la fine dell’economia - Manuel Castelletti

    Introduzione

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    La recente crisi economica non sembra più avere fine. Tutto è iniziato nel luglio del 2007, quando negli Stati Uniti è scoppiata la bolla immobiliare dei mutui sub prime a causa di una scellerata corsa all’indebitamento dei cittadini americani che, sperando di ottenere facili guadagni dal continuo rialzo dei prezzi immobiliari, hanno contratto mutui per comprare la seconda o la terza casa. Nell’autunno del 2008 è fallito il colosso finanziario Lehman Borthers e quella che è seguita è una situazione di stallo a livello mondiale che, nonostante i massicci stimoli economici messi in campo dalle principali banche centrali, nessuno sa con precisione quando potrà dirsi superata. Ma questa crisi ha fatto emergere tutta la fragilità del nostro sistema economico e così ora dobbiamo fare i conti anche con la crisi del debito sovrano europeo e il rallentamento dell’economia cinese (che dipende fortemente dall’export in Europa e Nord America). Nel 2008 il prezzo di praticamente tutte le materie prime (dal petrolio alle derrate alimentari passando per le materie prime minerarie) si è impennato e nonostante il quadro macroeconomico sia fortemente peggiorato rispetto alla situazione pre-crisi, per molte materie prime siamo tornati ai massimi del 2008. E’ dai due grandi shock petroliferi degli anni Settanta che l’umanità si domanda se esiste una reale alternativa ai combustibili fossili, ormai destinati al totale esaurimento nel giro di qualche decennio, ma la risposta è che per ora tale alternativa non esiste. Petrolio, carbone e gas naturale contribuiscono alla produzione dell’87% dell’energia che viene prodotta sul nostro pianeta e le fonti rinnovabili difficilmente potranno far fronte alla crescente domanda di energia dovuta all’affacciarsi dei paesi emergenti sulla scenda mondiale (Cina, India, Brasile e Russia, ma anche Indonesia, Messico e Arabia Saudita). Le materie prime minerarie sono alla base dell’economia mondiale anche se esistono seri problemi legati alla sicurezza della loro fornitura perché i grandi produttori sono spesso paesi poco stabili dal punto di vista politico o intenzionati a massimizzare i vantaggi derivanti dalla posizione monopolistica per motivi geo-politici o per ottenere facili guadagni (come nel caso della Cina con le terre rare). L’acqua dolce è diventata una risorsa sovrasfruttata e in molte regioni del pianeta, nonostante la crescente domanda di acqua per irrigare i campi (il 70% dell’acqua viene destinata all’irrigazione), per usi industriali o civici, la quantità d’acqua pro-capite è destinata a calare, mentre sempre più persone non hanno accesso all’acqua potabile a causa del crescente inquinamento. Molti dei paesi che già ora non sono autosufficienti dal punto di vista alimentare sono quelli che nei prossimi anni vedranno maggiormente crescere la popolazione e quindi la necessità di importare ulteriore cibo, in un mondo in cui la superficie destinata all’agricoltura, pari a circa 1/3 delle terre emerse, per aumentare dovrà necessariamente passare dall’abbattimento delle ultime foreste del pianeta. L’Asia è il continente più dipendente dalle importazioni estere di cibo e con il recente aumento del reddito medio dei suoi abitanti abbiamo assistito a un vero e proprio boom della domanda mondiale di prodotti di origine animale, con il risultato che è aumentata la superficie da destinare alla produzione di cereali e leguminose necessarie alla produzione di mangimi. Nel 2011 abbiamo raggiunto i 7 miliardi di abitanti e secondo i demografi, entro il 2025 il nostro pianeta dovrà fornire tutte le risorse naturali a mantenere lo stile di vita di un ulteriore miliardo di persone (mentre entro il 2050 avremo superato i 9 miliardi di abitanti). Ogni estate assistiamo al dramma dello scioglimento della banchisa dell’Artico, segno inequivocabile del fatto che ci stiamo avviando verso sconvolgimenti del clima che saranno epocali (l’avanzata della desertificazione, l’aumento dei fenomeni meteorologici estremi come siccità e inondazioni, lo scioglimento dei ghiacciai delle principali catene montuose e quindi la diminuzione della portata dei principali fiumi del pianeta fra le conseguenze più prevedibili). La principale causa di questo fenomeno è però da attribuirsi all’attività dell’uomo; infatti, ad ogni aumento del PIL mondiale si immettono nell’atmosfera ulteriori quantità di gas serra (anidride carbonica, metano, cluorofluorocarburi, eccetera), responsabili del riscaldamento del pianeta. Sempre a causa dell’attività dell’uomo stiamo assistendo alla repentina perdita della biodiversità, con l’allarmante esaurimento delle risorse ittiche degli oceani e i fragili ecosistemi tropicali sempre più a rischio. Infine, un altro effetto collaterale del nostro modello di sviluppo è rappresentato dagli inquinanti organici persistenti che – come nel caso delle diossine – si accumulano nella catena alimentare e comportano vere e proprie epidemie di tumori e altre gravi malattie.

    In un sistema economico basato sulla necessità di una costante crescita della produzione materiale è evidente che le sempre più acute crisi che si stanno abbattendo sull’umanità rischiano di portarci dritti verso il collasso. Oltre alla crisi economica, infatti, esiste anche una crisi agricola, energetica, delle materie prime minerarie, socio-demografica, delle risorse idriche e una crisi ambientale. Viviamo in un sistema socio-economico molto complesso e quindi tra le cause dell’attuale crisi economica c’è anche la crisi ambientale, perché l’eccessivo sfruttamento e il rapido deperimento delle risorse naturali ha portato all’aumento del prezzo degli input e quindi a un rallentamento della crescita della produzione materiale. Crisi ambientale che a sua volta dipende dal continuo aumento della popolazione e della povertà (in termini assoluti), che hanno aumentato le pressioni per l’accaparramento delle sempre più scarse risorse del pianeta. Esiste una forte interdipendenza tra le varie crisi che stiamo vivendo.

    Ma alla radice delle innumerevoli crisi che si stanno abbattendo sull’umanità sembra esserci il comportamento dell’homo oeconomicus, ovvero quella razionale stupidità che ha portato ogni singolo attore del sistema economico – individui, imprese e stati – ad agire nel proprio interesse secondo valori prettamente economici (legati alla massimizzazione dell’accumulo di ricchezza). Perché quando i valori economici diventano preponderanti, come già teorizzava Aristotele, si arriva alla disgregazione e quindi alla fine della società. La tragedia dei beni comuni (la natura è patrimonio dell’umanità) nasce dalle scelte razionali dei singoli che per il proprio interesse arrecano danno alla collettività. Ma le perverse logiche del sistema consumista hanno finito per soggiogare anche l’uomo che, trovandosi in un perenne stato di insoddisfazione perché costretto a rincorrere le illusorie promesse della pubblicità – la più efficace delle leve del sistema produttivo –, è costretto svendere il proprio tempo e le proprie energie in cambio di una vacua felicità che durerà giusto il tempo in cui la prossima moda o trovata tecnologica avrà superato ciò che ci è costato così tanta fatica.

    Forse non tutto è perduto, anche se il cambiamento non potrà che venire da un radicale rovesciamento dei valori correnti in grado di fermare la folle corsa alla sempre più efficiente e rapida razzia delle risorse naturali in nome dell’altrettanto sempre più veloce ed efficiente distruzione di esse.

    PARTE I

    La stato dei fatti

    Torna all’indice

    I L’ossessione per la crescita

    A) Rallenta la crescita mondiale ed aumenta il peso degli emergenti

    Il PIL – acronimo di Prodotto Interno Lordo –, occupa il posto d’onore di tutto il discorso economico in quanto essenza stessa dell’economia, ed è quindi la principale preoccupazione di governanti ed economisti. Si tratta di una misura, di un indicatore, che è stato messo appunto a metà del XX secolo dall’economista ed esperto di contabilità nazionale Simon Kuznets per poter valutare in modo preciso la ricchezza materiale di una nazione, ovvero il suo benessere. Dal punto di vista dell’offerta, il PIL è la somma algebrica del valore aggiunto in un dato periodo di tempo, ovvero una misura di ciò che viene prodotto (beni e servizi) al netto del costo dei materiali impiegati. Dal punto di vista della domanda, il PIL è una misura della spesa finale, ovvero della spesa per i consumi delle famiglie, per gli investimenti delle imprese e per la spesa pubblica (per consumi ed investimenti) dello stato. Infine, dal lato della distribuzione funzionale del reddito, il PIL è l’insieme di tutti i redditi, ovvero la remunerazione dei fattori produttivi che hanno concorso alla produzione materiale di beni e servizi. L’intera nostra società, attraverso le sue istituzioni (i governi centrali e gli enti locali, le banche centrali, le authority, i tribunali, le camere di commercio, eccetera) è progettata per favorire e stimolare la crescita, cioè lo sviluppo dell’economia. Da quando il termine PIL è diventato sinonimo di economia, è emerso chiaramente quale fosse lo scopo, il fine della nostra società (una società dominata dall’economia e dai suoi valori): ovvero la crescita del PIL – cioè una sempre maggiore produzione di beni e servizi.

    Nel 2009 abbiamo assistito ad una contrazione del PIL mondiale pari al 2,33%, ovvero alla prima battuta d’arresto del treno della crescita economica dal secondo dopoguerra ad oggi. A luglio del 2007, gli Stati Uniti, ovvero il paese più ricco al mondo, sono stati colpiti da quella che forse è stata la più grave crisi finanziaria di sempre, culminata con il fallimento a fine 2008 del gigante della finanza Lehman Brothers e tamponata dalle massicce iniezioni di liquidità delle banche centrali di tutto il mondo. Ma è importante notare come la recessione mondiale del 2009 ben si intersechi in un processo di lungo termine, ovvero nel graduale rallentamento della crescita economica mondiale, fenomeno iniziato con le tensioni legate al prezzo del petrolio degli anni Settanta (con i due shock petroliferi del 1973 e del 1979), ma sintomo anche di un’economia che sembra aver esaurito lo slancio iniziale legato all’applicazione su larga scala delle tecnologie della Seconda rivoluzione industriale (fondata sull’energia elettrica ed il motore a scoppio) e che non ha ottenuto quei miracolosi benefici provenienti dalle nuove tecnologie (computer, cellulare, fibra ottica, eccetera). Nel periodo che va dal 1971 al 1989, il tasso di crescita medio dell’economia mondiale è stato pari al 3,73%, mentre dal 1990 al 2010 del 2,71%, cioè inferiore di oltre un punto percentuale nonostante la dirompente crescita dei paesi emergenti e le nuove tecnologie (vedi Grafico 1).

    Grafico 1: Tasso di crescita di PIL e popolazione mondiale dal 1970 al 2010

    Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

    Il primo decennio del nuovo millennio ha infatti registrato il boom dell’economia cinese, cresciuta secondo la Banca Mondiale del 171%, ma anche di quella indiana, che si è più che raddoppiata in soli dieci anni (+109%) e di quella indonesiana (+66%). Fra le prime 15 economie del mondo, troviamo ben sei paesi emergenti (Cina, India, Russia, Brasile, Messico ed Indonesia), con i BRIC che pesano per 1/4 del PIL mondiale (ed il 42% della popolazione del pianeta). Dal 2000 abbiamo assistito ad un calo dell’importanza delle economie dei paesi sviluppati (ovvero di quelli a reddito alto), con un generale ribilanciamento a favore delle economie dei paesi a reddito medio-alto (che nel 2010 valevano 1/3 del PIL mondiale) – anche se occorre comunque specificare che i paesi ricchi rappresentano ancora la parte più importante dell’economia mondiale – ovvero il 55,19% del PIL mondiale (vedi Grafico 2).

    Grafico 2: Andamento quota percentuale pil mondiale per gruppi di reddito dal 1980 al 2010

    Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

    Il processo di trasferimento (attualmente in atto) di quote della ricchezza prodotta nel nostro pianeta dai paesi ricchi a quelli non ancora sviluppati trova le sue radici nella globalizzazione, che ha portato i paesi con un più basso reddito pro-capite a convergere con quelli con un più alto reddito pro-capite. Dal 1980 al 2010, il contributo alla crescita del PIL mondiale dei paesi in via di sviluppo (ma nel complesso anche per i paesi poveri) è stato maggiore rispetto a quello dei paesi ad alto reddito.

    B) Globalizzazione: la creazione di un mercato unico mondiale

    L’attuale sistema economico abbraccia in toto l’economia di mercato, un’economia profondamente capitalista, perché anche la Cina – l’ultimo grande paese comunista – ha abbracciato l’ideale del liberismo in campo economico quando nel 2001 ha deciso di entrare a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (l’OMC o WTO). L’ortodossia economica ritiene che la globalizzazione dovrebbe favorire la crescita della produzione di beni e servizi, ovvero l’aumento del PIL, soprattutto nei paesi più poveri, con il fenomeno della convergenza (i capitali tendono ad andare dove i fattori della produzione, come il lavoro, costano meno e inoltre i paesi più poveri adottano la tecnologia di quelli più ricchi). La globalizzazione potrebbe essere definita come un aumento, a livello mondiale, della circolazione di capitali, merci e persone (ma anche idee, tecnologie, culture, specie animali e vegetali e via dicendo). Con l’abbattimento dei dazi doganali e delle misure protezionistiche (il cui ultimo atto si è tenuto nel novembre del 2001 con la firma degli accordi del Doha Round), viene promossa la libera circolazione di merci, capitali e persone e si entra nella fase più avanzata della globalizzazione economica, che era iniziata con la caduta della cortina di ferro. La prima fase è stata caratterizzata dell’affermarsi dell’ideologia liberista negli ambienti economici prima e politici poi.

    Grafico 3: Variazione del peso di import/export sul totale del PIL per area geografica dal 1970 al 2010

    Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

    La seconda fase è stata invece quella dell’abbattimento dei dazi doganali e dell’adozione delle grandi innovazioni tecnologiche nel settore dell’ICT, come il computer, internet, il cellulare, le fibre ottiche e via dicendo, che hanno permesso la libera circolazione delle idee e dei capitali (peraltro sempre più virtuali). A partire dall’inizio degli anni Novanta, l’incidenza del commercio estero (inteso come somma dell’import e dell’export) è passato dal 38,76% del PIL mondiale nel 1990, al 49,61% del 2000, un balzo di oltre dieci punti percentuali in soli dieci anni (vedi Grafico 3). Il culmine degli scambi commerciali a livello internazionale (sempre in rapporto al PIL) è stato toccato nel 2008 (allo scoppio della crisi finanziaria americana), quando il commercio internazionale arrivò a pesare per il 59,44% del PIL prodotto dall’umanità. Ma la globalizzazione non ha raggiunto lo stesso grado di intensità ovunque. Ad esempio, nel 2010 gli scambi commerciali con l’esterno dell’Unione Europea erano pari al 79% del proprio PIL, mentre per la Cina, sempre per lo stesso anno, erano pari al 55% della propria economia, mentre troviamo che è il Nord America la regione più autarchica: gli scambi con l’esterno pesano per poco più del 30% del valore del prodotto interno lordo (cosa sorprendente visto il ruolo che gli USA e le grandi multinazionali nordamericane hanno avuto nella costruzione istituzionale di questa globalizzazione). Con la globalizzazione si assiste anche a un aumento della circolazione delle persone oltre le frontiere nazionali e questo fenomeno si manifesta con le migrazioni dei lavoratori dai paesi poveri a quelli più ricchi e con l’aumento del flusso di turisti. Nel periodo che va dal 1960 al 2010, il fenomeno delle migrazioni dai paesi più poveri verso quelli più ricchi è aumentato di quasi undici volte (secondo la Banca Mondiale nel 1960 quasi 2 milioni di persone hanno dovuto migrare verso i paesi ricchi, mentre nel 2010, il numero di persone che hanno deciso di migrare alla ricerca di migliori condizioni di vita sono state 23 milioni). Le due grandi ondate migratorie sono avvenute tra il 1990 ed il 1995 (+37% rispetto al quinquennio precedente) e tra il 2000 ed il 2005 (+51% rispetto al quinquennio precedente, con quasi 7 milioni di migranti in più). Anche il turismo ha registrato una costante crescita –anche se a differenza delle migrazioni si tratta di spostamenti temporanei e che riguardano principalmente la popolazione più ricca. Secondo la Banca Mondiale, il numero di arrivi è aumentato del 67% in 14 anni, passando dai 531 milioni del 1995 ai 923 milioni del 2009. Dopo aver analizzato l’aumento della circolazione delle merci e delle persone degli ultimi 20 anni, ci rimane da affrontare l’ultimo aspetto della globalizzazione, cioè la libera circolazione dei capitali oltre i confini nazionali. Secondo McKinsey, dal 1990 al 2010 gli investimenti oltre confine a livello globale sono quasi decuplicati, passando dagli 11.000 miliardi di dollari del 1990 ai 96.000 miliardi del 2010. Il 32% degli investimenti internazionali sono prestiti, che sono stati concessi da banche e istituti finanziari a soggetti oltre i confini, il 21% sono titoli obbligazionari detenuti all’estero e un altro 21% sono investimenti diretti esteri, il 15% titoli azionari detenuti all’estero e infine, il 9% sono riserve straniere.

    C) Il fattore produttivo capitale: risparmio, stock monetario e finanziario

    Il risparmio viene indirettamente considerato un fattore di produzione (che va a incidere sull’offerta aggregata), perché attraverso l’intermediazione del sistema finanziario, diventa capitale. Un sistema finanziario sufficientemente sviluppato permette alle imprese (ma anche allo stato e alle famiglie che investono ad esempio nell’istruzione o nell’acquisto dell’abitazione di proprietà) di finanziarsi tramite i risparmi delle famiglie (ma anche di imprese ed enti pubblici). Il risparmio svolge quindi un ruolo molto importante nelle economie moderne, perché permette l’accumulazione di capitale tramite gli investimenti produttivi di imprese, stato e famiglie. Secondo la Banca Mondiale, negli ultimi quarant’anni il tasso di risparmio mondiale è calato, passando dal 25% del reddito prodotto (il PIL) nel 1970 a valori al di sotto del 20% nel 2010. Il calo del tasso di risparmio mondiale è dovuto al calo del tasso di risparmio registrato nei paesi a reddito alto, che detengono ancora la maggioranza del risparmio (sempre secondo la Banca Centrale nel 2010 pesavano per il 54,31% del totale mondiale). I paesi a reddito alto rappresentano oltre 1/3 del risparmio mondiale (il 36,83% nel 2010), ed è emblematico il fatto che sia uno di questi paesi il maggior risparmiatore al mondo. Secondo la Banca Centrale, la Cina, infatti, con 3.063 miliardi di dollari è il più grande risparmiatore al mondo, destinando il 51,69% del proprio reddito – una percentuale molto più alta rispetto alla quota di risparmio degli Stati Uniti, pari l’11,51% del proprio PIL – a investimenti o consumi futuri.

    Lo stock finanziario totale, in quanto capitale finanziario, è una buona approssimazione del fattore produttivo capitale, perché in grado di convertirsi, di comprare il capitale fisico (macchinari, terra, lavoro). Ma questo può essere aumentato anche da un incremento della moneta presente nel sistema economico con un intervento della banca centrale che aumenta la base monetaria, ovvero l’offerta di moneta. La moneta creata dalla banca centrale entra quindi a far parte del sistema finanziario, che ha poi il compito di indirizzarla agli investimenti e ai consumi di imprese, famiglie e stato. Per valutare l’andamento dello stock monetario, ho preso in considerazione l’andamento di M2, una misura dell’aggregato monetario che si definisce come la somma di M0 (circolante e

    depositi delle banche presso le banche centrali), M1 (moneta elettronica e depositi in conto corrente) più tutte le attività finanziarie che, come la moneta, hanno elevata liquidità e valore

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