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Pavese, Vittorini e gli americanisti: Il mito dell'America
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Pavese, Vittorini e gli americanisti: Il mito dell'America

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Osservatore attento della realtà americana, Claudio Antonelli esplora nel libro le radici dell’americanismo di Vittorini e Pavese , due scrittori – scrive – “che ricercarono in America sì un’occasione di libertà, ma non in termini di libertà di sistema di governo, quanto di libertà creativa di rinnovamento del linguaggio. (da “Leggere Tutti” n. 36, gennaio/febbraio 2009).
LanguageItaliano
Release dateFeb 6, 2015
ISBN9788897060376
Pavese, Vittorini e gli americanisti: Il mito dell'America

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    Pavese, Vittorini e gli americanisti - Claudio Antonelli

    Pavese

    ​Introduzione

    Il mito dell’America, vissuto da Vittorini con abbandono lirico, ha fornito abbondanti munizioni all’interpretazione di un Vittorini in contrasto con le idee dominanti del tempo, letterarie e soprattutto politiche. La potente attrazione verso l’America di questo autore è stata vista dai critici in chiave eminentemente politica e di forte valenza antiregime; tanto che sia la maggioranza dei critici sia il Vittorini del dopoguerra hanno voluto fare di questo filoamericanismo la prova inequivocabile di una militanza antifascista. Anche l’entusiasmo del giovane Pavese per il mondo letterario americano con le sue originalità stilistiche e di linguaggio è stato sempre acclamato come un atto di anticonformismo spavaldo e audace, di chiaro significato antifascista.

    Questa particolare interpretazione politica della passione per il romanzo americano ha garantito, per lunghi anni, a Vittorini, a Pavese e agli altri americanisti, il riconoscimento di una coraggiosa fronda antiregime. Mentre sarebbe assurdo negare ogni significato politico al filoamericanismo, vissuto in maniera mitica o non mitica, nel caso di Vittorini e di Pavese, per troppo tempo si è voluto ignorare che il loro entusiasmo per il Nuovo Mondo ebbe una forte base letteraria.

    Per giungere alla globalizzazione dell’ingrediente politico, che ha subordinato a sé ed annullato tutte le altre considerazioni sottintese da questo mito complesso, la critica si è basata soprattutto su certe dichiarazioni, circa le causali profonde di quella scelta, fatte dai diretti interessati - Vittorini, Pavese, Pivano e gli altri - in tempi posteriori al periodo del filoamericanismo. All’America, paese nuovo, terra della libertà, del movimento, della rigenerazione, della mescolanza di razze, del benessere, è stata contrapposta l’Italia del tempo, dominata da un regime dittatoriale, e paese chiuso, provinciale, xenofobo, economicamente arretrato, e autarchico anche in campo culturale. A controprova sono stati ripresi certi slogan della propaganda antiamericana del regime mussoliniano che denunciavano il sistema statunitense perché plutocratico, consumistico, materialista, alienante, meccanico, uniforme, collettivistico, volgare, dalla moralità dubbia,2 e ipocrita. Si è anche sostenuta la tesi che la voga delle traduzioni, durante il ventennio, fu il risultato dell’oppressione culturale del regime: chi si vedeva precluso dalla censura il mondo della creazione, per sopravvivere era costretto a darsi alle traduzioni. Questi critici hanno preferito scivolare su altri aspetti più sfaccettati e complessi del rapporto tra l’Italia e gli Stati Uniti, giungendo così ad un giudizio poco articolato e assai poco sfumato.

    Ben diverso è l’approfondimento apportato dall’italianista francese Michel Beynet. Questi, al termine di una ricerca veramente straordinaria per ampiezza e per rigore di metodo, perviene a delle conclusioni divergenti rispetto alla tesi maggioritaria. Per aver proceduto allo spoglio e all’esame critico di una massa estesissima di scritti italiani sull’America, Beynet impone un metodo e delle verifiche che dovrebbero rendere impossibile, d’ora in poi, l’ottica unidimensionale fin qui seguita nell’esame dei fenomeni dell’americanismo e dell’antiamericanismo durante il fascismo. Ed ecco, in qualche riga, quali sono le conclusioni di Michel Beynet. L’antiamericanismo fu, sì, una costante durante il fascismo, ma limitata ai movimenti, minoritari e piuttosto marginali, creatisi intorno al programma di un fascismo squadristico puro e duro, come Strapaese ad esempio.3 L’antiamericanismo, come atteggiamento ufficiale dell’Italia, e quindi diffuso anche in seno agli organi di stampa nazionali, caratterizzò due fasi precise e non l’intero periodo del ventennio. La prima fase sopraggiunse subito dopo la prima guerra mondiale e durò, all’incirca, fino al 1926. La seconda fase iniziò con la guerra d’Etiopia nel 1936, e si delineò chiaramente nel 1938 con l’avvicinamento al nazismo; quindi vi fu la guerra.4 Beynet sostiene che l’antiamericanismo non fu mai un tutto coerente ed omogeneo.5 Non sempre chi esaltò il regime fascista avversò l’America, e non sempre chi si sentì attratto dall’America avversò il regime.6 L’immagine dell’America, che ritroviamo sugli organi di stampa ufficiali del fascismo, non è necessariamente negativa. Nella costruzione di questa immagine, l’ideologia fascista e la sua propaganda non sembrano aver esercitato un’influenza significativa.7 Alla base dei pregiudizi antiamericani espressi dagli intellettuali italiani ritroviamo un’incompatibilità di sensibilità, di civiltà e di educazione, più che d’ideologia e di programmi politici. La passione degli americanisti per la letteratura degli Stati Uniti non appare motivata, al contrario di quanto sostiene Dominique Fernandez, fautore dell’interpretazione politica, dal loro amore per la democrazia.8 Per dimostrare l’ambivalenza della percezione dell’America esistente presso le gerarchie fasciste, Michel Beynet riprende un fatto ben noto: i gerarchi, Mussolini in testa, videro nel New Deal di Roosevelt una sperimentazione politico-sociale di tipo fascista.9

    Anche lo studioso Emilio Gentile ha dato un notevole apporto al dibattito, contribuendo a farlo uscire dal binario morto in cui un’interpretazione a senso unico aveva finito con il mantenerlo. Il suo maggior merito è di aver sottolineato la complessità del quadro d’insieme, mostrando che non esiste un’unica, semplice formula interpretativa dell’atteggiamento ufficiale italiano nei confronti dell’America durante il periodo fascista; dunque egli invita a studiare i vari livelli di un fenomeno che è indubbiamente complesso.10 Questo studioso sostiene che l’antiamericanismo fu certamente una posizione diffusa durante il periodo fascista, ma che non è giusto considerarlo un atteggiamento tipicamente ed esclusivamente fascista. Secondo Gentile, l’avversione alla modernità trionfante di tipo americano fu uno dei motivi, ma non il solo, della posizione critica tenuta dal regime verso quel sistema.11 Inoltre, occorre saper distinguere lo spirito d’antagonismo e l’avversione che un certo fascismo ortodosso provava nei confronti del modello americano, inteso come trionfo della civiltà delle macchine, dalla modernità che lo stesso fascismo cercava di attuare. In altre parole, l’antiamericanismo era un rifiuto della modernità americana, ma non certo della modernità tout court.

    Un vento nuovo, quindi, è cominciato a soffiare sugli studi di critica. Ci si potrebbe ora chiedere: ma perché, per anni ed anni, nell’analisi del fenomeno America si è percorsa praticamente una pista sola? L’ipoteca politica, così presente nei giudizi della critica italiana, probabilmente spiega perché nell’analisi dell’americanismo e dell’antiamericanismo si sia data precedenza ad un’interpretazione che è lecito definire iperpolitica.

    La riduzione del mito dell’America a virtuale opposizione antifascista ha il merito di percorrere fino in fondo il filone politico, la cui esistenza è innegabile, anche se è molto difficile stabilirne, oggi, l’importanza reale. Ha il demerito, però, di ridurre i rapporti allora esistenti tra il mondo italiano e quello statunitense ad una semplice contrapposizione, mentre la storia ci dice che i rapporti tra i due sistemi furono piuttosto complessi. Inoltre, questa interpretazione, che ha un carattere univoco, sorvola su tutti gli altri aspetti del mito, con il risultato che tante prese di posizione di Vittorini e di Pavese, circa la realtà letteraria e sociale americana, rimangono inspiegabili o appaiono contraddittorie perché viste unicamente attraverso la lente politica. Acquistano invece una nuova valenza se le colleghiamo ad un quadro interpretativo più ampio e articolato.

    Emblematico è l’atteggiamento di Armanda Guiducci che, ne Il mito Pavese, consacrato al mito dell’America di Pavese e Vittorini, si ostina a voler far trionfare nell’amore di questi due scrittori per l’America, ad onta delle prove contrarie da lei stessa indirettamente apportate, l’aspetto che definiremmo radical-progressista. Armanda Guiducci cerca di scavalcare, senza riuscirvi, tutta una serie di contraddizioni, inevitabili nella visione di chi, come lei, vede nell’America il trionfo del capitalismo più selvaggio e nello stesso tempo acclama come progressisti coloro che soggiacquero al fascino di un tale mondo. La quadratura del cerchio, per lei, sarebbe assicurata dal New Deal, anzi - come precisa - dalle fallaci speranze suscitate dal New Deal. Insomma, secondo questo critico, l’America per un attimo sembrò quella che non fu e che non sarà mai. In queste speranze si collocherebbe la fuga ideale nella terra promessa americana; terra promessa perché socialmente avanzata e progressista, o almeno vista come tale. Il fatto che né Pavese né Vittorini parlino mai di Roosevelt e del New Deal non sembra aver alcun peso per la Guiducci. Viene, inoltre, totalmente trascurato da lei il particolare che persino Mussolini credette di vedere nel New Deal una versione americana del fascismo. E che il New Deal fosse un esperimento sostanzialmente di tipo fascista lo sostiene al giorno d’oggi, tra gli altri, lo studioso americano Jonah Goldberg in Liberal Fascism.

    Un esame profondo e senza preclusioni del mito dell’America ci farà invece incontrare, ancora una volta, i motivi più significativi, che non sono certamente quelli politici, della vicenda vittoriniana. Alle radici del mito noi ritroviamo, infatti, quegli stessi motivi che appaiono in tutte le opere, in tutte le prese di posizione, in tutte le scelte di questo scrittore. Occorrerà, però, saper leggere con occhi nuovi l’antologia Americana e gli altri suoi scritti letterari relativi all’America. Forse sarà sufficiente leggerli con attenzione dall’inizio alla fine, perché il sospetto è forte che l’antologia Americana sia un documento poco letto, visto che di essa si citano sempre gli stessi brani; non diversamente, in fondo, da come dalla farraginosa e, tutto sommato, ambigua risposta polemica a Togliatti si estrae e si ripete l’unica frase chiara ed energica con cui Vittorini proclama di non voler suonare il piffero per la rivoluzione.

    Solo attraverso un esame approfondito si vedrà che il mito dell’America di Vittorini si nutrì soprattutto di romanzi americani, e si scoprirà che la passione americana gli permise di conciliare due opposte tensioni - per usare un termine caro al suo vocabolario - in lui coesistenti: la passione per il presente e l’abbandono al sogno.

    Parimenti, lo studio dei rapporti tra Pavese e l’America ci farà vedere che fu il magico mondo creato dal cinema e dalla letteratura ad accendere il suo entusiasmo. Questa fu la sola America che conobbe. E nessuna altra realtà avrebbe potuto interessarlo, vista la preminenza assoluta, in lui, della dimensione dell’arte sulla dimensione del reale. Studiando la natura più profonda di Pavese, vedremo quanto questi fosse refrattario alle cause collettive e agli impegni politici, ma vedremo anche che, cedendo alle pressioni dell’ambiente, assunse controvoglia nel dopoguerra un atteggiamento da intellettuale impegnato. E fu così che cercò di dare una coloritura marxista al suo passato di americanista. Il suo entusiasmo poggiò sul linguaggio fortemente creativo e sullo stile innovatore dei romanzieri americani. L’America gli apparve come un mondo giovane, pieno di energie, popolato da personaggi virili, poco convenzionali ed avventurosi, ad immagine e somiglianza dei loro stessi autori così dissimili dai letterati italiani. Lo scrittore piemontese ammirò questa esuberanza vitale, ma soggiacque soprattutto alla magia della realtà artistica - cinematografica, letteraria, poetica, musicale, romanzesca - di un mondo conosciuto esclusivamente attraverso lo schermo, i dischi e la pagina. Fu il ritmo americano ad affascinarlo.

    ​1. L’interpretazione politica

    Secondo l’interpretazione corrente, il mito dell’America che dominò l’animo di Vittorini, di Pavese e di qualche altro intellettuale italiano nel periodo che va, grosso modo, dal dopoguerra del primo al dopoguerra del secondo conflitto mondiale (Dominique Fernandez, che fa coincidere questo mito soprattutto con l’attività letteraria di Pavese, ci fornisce due date precise per l’inizio e per la fine: il 1930 e il 1950 12), ebbe la sua causa quasi esclusiva nel regime fascista. La fuga fantastica verso i lidi di quel mitico mondo sarebbe avvenuta per reazione alla dittatura che opprimeva l’Italia. Ciò perché l’America rappresentava tutto quanto il fascismo non era, non voleva e non poteva essere.

    È difficile negare che gli Stati Uniti - ma diremo in seguito America per designare gli Stati Uniti del mito - fossero una terra sotto certi aspetti antitetica all’Europa, e che per questo carattere antinomico potessero fungere da magnete verso chi giaceva in uno stato d’insoddisfazione e di disagio, in Italia come altrove. Ma l’interpretazione politica di Dominique Fernandez ha un carattere assoluto: per lui la passione per l’America fu un antidoto alla dittatura, e il filoamericanismo fu una forma di antifascismo. Egli scrive: "Senza il fascismo, la cultura fascista, la politica fascista d’autarchia culturale, gli intellettuali italiani avrebbero letto senza dubbio i romanzieri americani come li lessero in Francia o negli altri paesi d’Europa: ma non ci avrebbero messo la stessa passione, non si sarebbero dedicati al lavoro ingrato delle traduzioni, infine non avrebbero mitizzato quella terra lontana, la cui prima qualità, ai loro occhi, fu d’essere un altrove, un antidoto contro la dittatura."13

    Patrizia Lorenzi Davitti si esprime in una maniera molto simile: "Senza un fascismo, senza l’assurdità tragica e banale di quella retorica spicciola con cui il regime imbavagliava le masse italiane, e la cultura ufficiale in specie - per non parlare della persecuzione politica vera e propria - forse non ci sarebbe stato un mito dell’America."14

    Ma già prima di Fernandez e di Lorenzi Davitti, il critico americano Harris MacDonald (alias Donald Heiney) aveva espresso una tesi quasi identica: all’asfissiante retorica di un’Italia fascista, vòlta verso il passato con la sua ridicola celebrazione della romanità, l’America offriva un mondo di purezza e di innocenza, primitivo ed elementare, eppure arditamente orientato verso il futuro.15

    La maggior parte dei critici è concorde nel vedere nel mito dell’America una mongolfiera fantastica che permise a Vittorini, a Pavese e a qualche altro intellettuale, d’innalzarsi sopra l’asfittica palude italica, dominata anche nel campo delle lettere dai temi obbligati del nazionalismo e dell’autosufficienza autarchica, e di spaziare sulle vaste e primitive lande e sugli arditi grattacieli del Nuovo Mondo, popolato da un’umanità più giovane, più vitale e più intensa. A questa matrice politica danno preminenza assoluta sia gli esegeti del fenomeno sia i protagonisti stessi dell’avventura americana, i cosiddetti americanisti. Occorre precisare: non proprio tutti. Vi è anche chi non seppe resistere al fascino dell’America, pur non trovando nulla da ridire sulla dittatura mussoliniana. Mi riferisco a Vittorio Mussolini, al quale si deve questa confessione: "Il jazz, la letteratura, il cinema americano mi avevano fatto amare l’America dei blues, di Dreiser e Dos Passos, di Faulkner e Lee Masters, di King Vidor e Frank Capra."16

    Lo studio del mito dell’America di Vittorini non può prescindere da Cesare Pavese, che svolse un ruolo notevole di traduttore e per ciò stesso di divulgatore della letteratura di quel paese. Lo scrittore piemontese cominciò quest’attività due o tre anni prima di Vittorini, traducendo il romanzo di Sinclair Lewis Our Mr. Wrenn. E non si fermò qui. La sua traduzione di Moby Dick di Herman Melville, pubblicata nel 1932 dall’editore Frassinelli di Torino, è ancora oggi molto apprezzata per la sua grande qualità, secondo il giudizio della maggioranza dei critici; giudizio che occorrerebbe però prendere cum grano salis, anche per la conoscenza scolastica che Pavese aveva dell’inglese e per la grande disinvoltura con cui concepiva la sua attività di traduttore.17 E difatti l’editore fiorentino Enrico Bemporad non apprezzò molto la citata traduzione del romanzo di Sinclair Lewis Our Mr Wrenn,18 fatta da un Cesare Pavese fresco laureato.

    Come per Vittorini, anche per Pavese la critica ha voluto ravvisare nell’entusiasmo per la letteratura americana un’inequivocabile scelta a carattere politico. Scrive Patrizia Lorenzi Davitti: "Nella diversità delle interpretazioni critiche, degli accenti e delle poetiche, che Vittorini e Pavese svilupparono dall’esperienza culturale americana, l’elemento comune è dato dal valore polemico della loro adesione. È in primo luogo l’impegno sociale e politico, antifascista, antinazionalistico e progressista, e l’insofferenza crescente del ‘disagio’, che unisce i giovani intellettuali e li spinge ad accostarsi alla cultura americana in un senso completamente diverso da quello inteso dagli illustri predecessori."19

    Anche Davide Lajolo, che pur non trascura il profondo interesse provato da Pavese per il carattere vivificante della parlata popolare dei personaggi del romanzo americano, ravvisa soprattutto nell’impegno sociale l’attrattiva esercitata da tale letteratura su questo autore e su tutti gli altri americanisti. Lajolo scrive: "Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse; condannava ed impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani erompevano impulsi e moti popolari capaci di creare nuovi rapporti sociali."20

    Le dichiarazioni, fatte da Pavese nel dopoguerra, sulle ragioni più profonde della nascita, in Italia, del mito della letteratura americana, oscillano tra la matrice politica, da un lato, e quella letteraria e più particolarmente linguistica, dall’altro. È importante sottolineare che le dichiarazioni di tipo politico sono state fatte tutte in un’epoca di diffuso attivismo fra gl’intellettuali italiani di sinistra, fortemente attratti dal PCI, partito guida delle forze progressiste e da queste chiamato icasticamente il Partito.

    Pavese, nella testimonianza che segue, vede nel filoamericanismo letterario una ribellione contro l’immobilismo italiano, e si dice convinto che quel periodo passerà alla storia come il periodo delle traduzioni: "Il decennio dal ’30 al ’40 che passerà nella storia della nostra cultura come quello delle traduzioni, non l’abbiamo fatto per ozio, né Vittorini, né Cecchi, né altri. Esso è stato un momento fatale, e proprio nel suo apparente esotismo e ribellismo, è pulsata l’unica vena vitale della nostra recente cultura politica. L’Italia era estraniata, imbarbarita, calcificata, bisognava scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti primaverili dell’Europa e del mondo."21

    Nell’Unità di Torino del 3 agosto 1947, Pavese carica la dose politica dell’avventura americana, anche se nelle sue parole l’equazione americanismo = antifascismo è più suggerita che detta: "Verso il 1930, quando il fascismo cominciava ad essere ‘La speranza del mondo’, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei libri l’America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente."22

    Il valore delle traduzioni, di opposizione al sistema culturale e politico dell’Italia fascista, sarà affermato chiaramente anche da Vittorini in un’intervista del 1965. "Non ritradurrei certamente Caldwell e forse neppure Saroyan, dirà Vittorini. Ma se la congiuntura storica fosse per l’Italia e la sua letteratura ancora quella di venticinque anni fa credo che ritradurrei tutti quanti.23 Quanto alle interpretazioni e chiarificazioni di Vittorini fatte in epoca posteriore al periodo fascista, noi sappiamo che vanno prese con circospezione perché rispecchiano il nuovo" Vittorini. La critica, invece, le accetta come testimonianze insospettabili.

    L’interpretazione iperpolitica ha il torto di presumere comportamenti e atteggiamenti antifascisti durante tutto il ventennio, nei cultori di questo mito, come per esempio in Vittorini; il che appare molto meno evidente, oggi, di quanto la critica, per anni, abbia voluto farci credere. Questa interpretazione poi comporta un’insufficienza metodologica, perché colui che ritiene identica in tutti la causale del sogno americano, evita l’approfondimento di quei motivi che invece sono diversi da persona a persona. Oltre tutto, una tale interpretazione tende a contrapporre due mondi reali, due sistemi politici considerati nella loro contemporaneità, mentre nel mito dell’America - che, come vedremo, per questi autori ha una forte valenza letteraria, anche se su di esso convergono i motivi di un mito più ampio esistente in Italia (e non solo in Italia) - il passato del Nuovo Mondo, cioè gli inizi dell’America hanno un forte significato simbolico di ricostruzione del mondo.

    Le debolezze dell’analisi iperpolitica sono inoltre messe in evidenza dalla seguente serie d’interrogativi, che riassumono le difficoltà appena esposte e ne sollevano altre. Ma è proprio vero, come sostiene Dominique Fernandez, che in altri paesi, la Francia per esempio, non vi fu mai un’ammirazione per gli autori americani di un’intensità tale da poter far parlare, anche lì, di un mito del romanzo americano? Ma perché né Vittorini né Pavese vollero mai recarsi negli Stati Uniti, anche quando andarvi divenne molto facile? Quali sono le ragioni profonde che fecero vedere a Vittorini, al di là dell’Atlantico, la realizzazione dei suoi sogni? L’America ch’egli idealizzava erano veramente gli Stati Uniti, paese storico, o non era piuttosto un’America della fantasia, letta e riletta sulle pagine dei romanzieri americani? È proprio vero che le causali del mito americano furono identiche in Pavese e in Vittorini? Quali prove ci sono che costoro cercassero in quella letteratura l’impegno sociale e politico? Ed infine come si spiega che, durante il fascismo, due autori di presunte simpatie marxiste si volsero verso gli Stati Uniti in cerca di una patria ideale, e non verso l’Unione Sovietica, laboratorio dell’uomo nuovo socialista? Dopo tutto, nonostante il New Deal di Franklin D. Roosevelt, gli Stati Uniti apparivano a molti come il paese modello del capitalismo selvaggio che aveva incontrato nella crisi del 1929 la prima seria battuta d’arresto.

    A dire il vero, Dominique Fernandez, che è uno dei maggiori esponenti dell’interpretazione iperpolitica, sembra rendersi conto di questa contraddizione nella scelta della patria ideale da parte dei nostri dissidenti, e tenta una spiegazione semplicistica e insieme spicciativa, sostenendo che se, durante il fascismo, quegli intellettuali italiani che erano di simpatie comuniste si rivolsero all’America capitalista e non alla Russia progressista e collettivista, ciò avvenne perché da sempre gli Stati Uniti erano il porto d’arrivo di innumerevoli italiani, prima con Cristoforo Colombo, e poi con gli emigranti. Dominique Fernandez scrive: "Senza risalire a Cristoforo Colombo, l’America costituiva dunque una ragione di fierezza per gli italiani; e questa circostanza spiega perché i giovani intellettuali della penisola, intorno agli anni Trenta, benché fossero se non comunisti almeno fortemente impregnati di marxismo e oppositori di sinistra a Mussolini, scelsero come patria ideale non già la Russia Sovietica ma gli Stati Uniti, nel momento stesso in cui il crollo delle azioni a Wall Street (1929) e la conseguente crisi economica e sociale svelavano le contraddizioni del capitalismo."24

    Nella spiegazione di Fernandez, come si vede, non c’è nessun riferimento agli aspetti irrazionali e mitici dell’immagine trionfante dell’America, paese che, notiamo en passant, aveva numerosi nemici anche fra gli intellettuali europei per il suo significato di modernità alienante. Eppure il mito del Nuovo Mondo, terra promessa, così potente e diffuso in quei tempi presso le masse europee, ebbe un’influenza innegabile sul fatto che i nostri americanisti decisero di eleggere domicilio ideale in quella fantastica terra e non nell’Unione Sovietica.

    Un interessante studio di Michela Nacci sui viaggiatori francesi degli anni trenta mostra che un legame dopo tutto c’era, in molti intellettuali, tra una certa immagine degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica. Entrambi i paesi, paradossalmente, a loro apparivano come la patria dell’uniformità e del collettivismo burocratico. Secondo questi osservatori, il trionfo della modernità assumeva, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Sovietica, le forme disumanizzanti del materialismo e della civiltà di massa.25

    Per quanto riguarda Vittorini, la domanda più importante da porsi è una sola: qual è il significato più profondo che la parola America riveste per lui? Come vedremo più in là, il desiderio di questo autore di essere sempre contemporaneo costituì la molla più significativa del suo innamoramento per il Nuovo Mondo.

    Un’interpretazione della passione di questi autori per l’America, che voglia poggiare su basi soprattutto politiche, è condannata a non trovare risposta ai tanti interrogativi, proprio per le sue preclusioni metodologiche ad una visione più ampia ed articolata; la sola capace di spiegarci, per esempio, perché negli scritti di Vittorini o in quelli di Pavese, prima dell’allineamento al Partito, non sia mai menzionata a proposito dell’America la parola libertà. Eppure, secondo l’interpretazione corrente, ciò che questi scrittori ricercavano negli Stati Uniti era proprio la libertà. Ed è egualmente assente nei loro scritti più intimi - vedi l’epistolario dell’uno e dell’altro, e vedi il diario di Pavese - il minimo accenno al rooseveltismo e al New Deal, di cui invece tanto parla Armanda Guiducci nell’analisi di quello che lei definisce un mito sociale.26

    A mio parere, i nostri due scrittori ricercarono in America, sì, un’atmosfera di libertà, ma non in termini di libertà di sistema di governo, quanto di libertà creativa e di rinnovamento del linguaggio. L’immagine dell’America in Vittorini e in Pavese assume una configurazione sui generis, come vedremo, proprio perché riceve linfa dalle pagine della letteratura americana, di cui essi erano avidi lettori. Le conseguenze di questa particolare matrice letteraria sono numerose e profonde. L’idea

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