A/R - Quasi libero
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A/R - Quasi libero - Giuliano Forresu
ANDATA
Marco e Lisa
La canna da pesca fletteva al ritmo delle onde di risacca che, alternatamente, andavano a spegnersi sulla battigia lì stante. Umida, dura, lucida al chiaro riflesso della Luna che quella notte illuminava tutta la lunga spiaggia.
Era una notte serena, dal cielo terso e irto di intermittenti stelle che formavano, con l’aiuto dell’incommensurabile fantasia degli Antichi, le forme più varie relative alla vita dell’uomo, ormai superata ed obsoleta.
Il mare, all’orizzonte, appariva placido, liscio. Il riflesso del bianco satellite andava a crescere verso il buio infinito, eterno nero della notte che confondeva il confine tra il mare ed il cielo. Quella spiaggia, poi, tanto popolata nella stagione estiva, era quella sera di Settembre vuota, deserta, bianca come mai la si sarebbe potuta vedere durante la bella stagione. Quello era il mese che la riportava alla pacatezza. Era come un Dio, protettore di quelle coste sabbiose periodicamete invase ed abusate. Era il padre della stagione che rassettava la naturalezza di quei luoghi sacri, per chi li vive in ogni periodo, ogni giorno dell’anno.
La sabbia aveva ormai perso il calore del sole che, fino alle porte di Autunno, aveva battuto per tutto quel giorno scaldandola, allietandola e rendendola quasi miracolosa ai piedi nudi di chi l’avrebbe calpestata. Quel soffice suolo presentava, quella sera, le poche impronte di un gruppo di ragazzi che aveva deciso di bivaccare in riva al mare, oltre a quelle dei gabbiani che andavano, al tramonto, alla ricerca del cibo che gli uomini li avevano abituati a trovare durante la calda Estate appena trascorsa.
La canna da pesca era fissata ad un portacanne metallico e luccicante piantato nel suolo, ma era come un essere indipendente, abbandonato alla sua stessa sorte. Il suo proprietario era dietro di lei, ma non ci badava più di tanto. Aveva infatti altro a cui pensare.
Marco era sdraiato a ridosso dei cespugli che segnavano la verde cornice di quella lunga luna terrestre al confine del mare. Giaceva su un telo rivolto veso le stelle con le dita incrociate sotto la nuca, che fungevano da cuscino sostenitore per quella mente che viaggiava nell’infinito dei pensieri più astratti, più utopici, più deliranti che si stava abituando ad avere.
Aveva poco più di vent’anni e aveva avuto modo di conoscere tante persone diverse da quelle con cui era invece cresciuto. Nonostante ciò, accanto a lui era Lisa, la sua dolce metà.
Essa sedeva, abbracciandosi le ginocchia, con gli occhi fissi sul mare, verso quel bianchissimo riflesso lunare che evidenziava parte dell’increspatura di un’acqua quieta, che ridondante si faceva sentire con lo scroscio delle sue piccole onde che andavano ad invadere l’umida battigia di fronte a lei.
A quell’ora, l’atmosfera si faceva sentire umida e malamente fresca, quasi spiacevole. Il respiro non era più leggero, ma punto da quel sale che sciolto nell’aria entrava dritto ai polmoni corrodendo le pareti interne delle narici dei due ragazzi che zitti, tremolanti, rimanevano assorti nei loro pensieri usando i loro occhi come autostrade, quasi per sfuggire ad una realtà che non poteva più essere quella di un tempo. Le loro menti correvano al di là di quel mare, al di là di quel riflesso, al di là di quel confine nascosto tra terra e cielo. La loro fantasia, i loro sogni, le loro speranze erano però ancora superiori alla realtà che li circondava e la loro rassegnazione non era ancora sopraggiunta nei loro spiriti. Il cuore di quei giovani palpitava ancora e poteva esplodere in onde di energia di una potenza tale, che sarebbe stata capace di trasformare tutta la loro realtà, tutto il loro mondo. Un mondo che si stava complicando col tempo, che stava manifestando un numero sempre maggiore di ostacoli da superare, di questioni da risolvere, di elementi da evitare o da cercare di incontrare affinché la vita futura potesse essere piacevolmente vivibile. Questo era quello che gli raccontavano i grandi.
Perché loro, alla vita futura, non è che ci pensassero tanto. Erano giovani e, come banalmente si può pensare, non facevano che viversi il presente.
Marco si alzò senza dire niente. Lentamente mosse i suoi passi verso quella canna da pesca che, come d’improvviso, si ricordò di aver piantato in prossimità della riva.
Presa in mano e avvolto il mulinello, con i piedi prima inumiditi dalla fresca e dura battigia, poi bagnati dagli ultimi palpiti dell’onda che lì si spegneva, si accorse che l’esca, ancora una volta, era stata divorata dai pesci. Essi, contrariamente a quanto stava facendo lui, non avevano pensieri per la testa. Non dovevano risolvere scialbi problemi, ma soltanto sopravvivere per rimanere in quel loro mondo e poi, incessantemente, rimettersi alla ricerca di cibo.
Doveva essere dura, quella vita. Ogni essere sembrava condannato a doverla vivere e non si capiva il motivo per cui ciascuno di essi si affaticasse tanto, pur di rimanere in quel mondo. Per lui non era così, non lo era mai stato. Non aveva mai dovuto faticare né per rimanere vivo né per avere tutte quelle comodità che aveva recentemente imparato a catalogare come superflue. E vedeva lo stesso in tutte le altre persone che aveva conosciuto fino ad allora. Nonostante questa facilità di vita, notava più entusiasmo negli esseri che erano costretti giorno e notte a procacciarsi il cibo non per il futuro, non per la loro vecchiaia, né per l’indomani, ma per quel momento. Percepiva più entusiasmo e più voglia di vivere in loro, pieni di vere difficoltà direttamente connesse alla sopravvivenza, che in lui o nelle persone che, come lui, si impegnavano per procurarsi non il cibo, ma i divertimenti, i lussi e i vizi.
Marco era infelice.
Sentiva, nel suo io più interiore e profondo, che gli mancava un elemento essenziale per stare bene con gli altri e persino con se stesso. Desiderava uno stato diverso da quello in cui si trovava in