Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Favole della Mezzanotte
Favole della Mezzanotte
Favole della Mezzanotte
Ebook592 pages8 hours

Favole della Mezzanotte

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Mezzanotte. A mezzanotte i bambini sono già tutti a letto, immersi nei loro sogni. Perché allora scegliere proprio questa strana ora per raccontare una favola? E raccontarla a chi? Quelle che abbiamo voluto raccogliere in questo libro sono favole, storie fantastiche, per ragazzi più grandi e adulti. Quelli che a mezzanotte sono ancora alzati, e possono riunirsi davanti a un camino, oppure in campeggio sotto alle stelle, e raccontarsi storie. Storie che per una volta tanto non sono solo racconti di paura. Storie tristi o felici, storie della loro vita e della loro città, oppure perse in mondi lontani, ma che abbiano in sé una speranza, un significato, persino un insegnamento da dare. Favole. Sono proprio le favole il fulcro stesso dalla narrativa, l'anima del fantastico. Esse sono radicate nell'animo dell'uomo da tempo immemore, e sono il fondamento di ogni genere letterario. Sono la base, le origini, della fantasia stessa. In questa raccolta è proprio la fantasia a essere la protagonista. In assoluta libertà gli autori che vi compaiono hanno messo nero su bianco il loro concetto di fantasia. Senza confini, senza imposizioni, perché nel mondo della fantasia... tutto è concesso. ---- I corrispettivi dovuti ai vari autori, a titolo di diritti d'autore, andranno interamente devoluti all'iniziativa: UNA STRUTTURA DI ACCOGLIENZA PER LE FAMIGLIE DEI BAMBINI RICOVERATI AL GASLINI della PARROCCHIA GENTILIZIA SAN GEROLAMO DELL'ISTITUTO GIANNINA GASLINI di Genova. ----
LanguageItaliano
Release dateMay 4, 2011
ISBN9788897277828
Favole della Mezzanotte

Related to Favole della Mezzanotte

Titles in the series (15)

View More

Related ebooks

Short Stories For You

View More

Related articles

Reviews for Favole della Mezzanotte

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Favole della Mezzanotte - Stefano Pastor

    COLLANA «ORANGE»

    Favole della Mezzanotte

    a cura di Stefano Pastor

    Gli Autori hanno rinunciato espressamente a qualsiasi corrispettivo a titolo di diritto d’autore in quanto la pubblicazione della propria opera, all’interno di questa antologia ha, come unico obbiettivo, uno scopo benefico e sociale. Infatti, di comune accordo Autori/Editore, si è deciso di devolvere l’intero importo, così determinato, a un Ente benefico e precisamente all’iniziativa denominata:

    UNA STRUTTURA DI ACCOGLIENZA PER LE FAMIGLIE DEI BAMBINI RICOVERATI AL GASLINI della PARROCCHIA GENTILIZIA SAN GEROLAMO DELL'ISTITUTO GIANNINA GASLINI di Genova.

    www.gaslini.org

    Favole

    della

    Mezzanotte

    a cura di Stefano Pastor

    Copyright © 2011 CIESSE Edizioni

    Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni

    Favole della Mezzanotte

    a cura di Stefano Pastor

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a:

    CIESSE Edizioni Servizi editoriali

    Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD)

    Telefono 049 78979108/8862964 | Fax 049 2108830

    E-Mail redazione@ciessedizioni.it | P.E.C. infocert@pec.ciessedizioni.it

    ISBN 978-88-97277-81-1

    ISBN 978-88-97277-82-8

    Collana ORANGE

    http://www.ciessedizioni.it

    NOTE DELL’EDITORE

    La presente Antologia è opera di pura fantasia. Naturalmente ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

    RINGRAZIAMENTI

    Desidero esprimere tutta la mia gratitudine a Stefano Pastor che ha curato ogni particolare di quest’opera, compreso l’editing e la selezione dei racconti, con infaticabile abilità e talento. Ringrazio gli Autori che si sono adoperati per concorrere alla realizzazione di questo straordinario volume e, non per ultimo, i nostri lettori e a tutti coloro che "sanno ancora sognare". Proprio a questi ultimi, tra l’altro, è dedicato questo volume.

    Carlo Santi

    Direttore Editoriale

    Dedicato a tutti coloro

    che sanno ancora sognare

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Introduzione di Stefano Pastor

    Lizzi Bizzi e la Strega Rossa di Stefano Pastor

    Oltre le Pozzanghere di Stefano Vignati

    Turquaz di P.M. Sirach

    Olivia dagli Occhi Nocciola di Jenny Gecchelin

    Il Patto di Luigi Milani

    Sitael, Angelo Oscuro di Sabrina Parodi

    Proxima di Angela Di Bartolo

    Il Sentiero Nascosto che porta alle Stelle di Giulia Lucchesi

    Occhi Azzurri, Capelli Blu di Patrizia Birtolo

    Gemini di Antonella Vigliarolo

    Dalila La Sirena che voleva le Scarpe di Cristina Origone

    E Vissero per Sempre Felici e Contenti… di Sonia Dal Cason

    Tre Favole (A)normali di Nicolò Di Bernardo

    Il Frutto del Credo di Antonio Ferrara

    Il Drago Angelo di Laura Sarotto

    La Terra Salvata dagli Irtsérret di Trap

    I Bambini Controvento delle Ore Senzatempo di L. Nivoul

    Introduzione

    di Stefano Pastor

    Mezzanotte.

    A mezzanotte i bambini sono già tutti a letto, immersi nei loro sogni. Perché allora scegliere proprio questa strana ora per raccontare una favola? E raccontarla a chi?

    Quelle che ho voluto raccogliere in questo libro sono favole, storie fantastiche, per ragazzi più grandi e adulti. Quelli che a mezzanotte sono ancora alzati, e possono riunirsi davanti a un camino, oppure in campeggio sotto alle stelle, e raccontarsi storie. Storie che per una volta tanto non sono solo racconti di paura. Storie tristi o felici, storie della loro vita e della loro città, oppure perse in mondi lontani, ma che abbiano in sé una speranza, un significato, persino un insegnamento da dare.

    Favole.

    Sono proprio le favole il fulcro stesso dalla narrativa, l'anima del fantastico. Esse sono radicate nell'animo dell'uomo da tempo immemore, e sono il fondamento di ogni genere letterario. Sono la base, le origini, della fantasia stessa.

    In questa raccolta è proprio la fantasia a essere la protagonista. In assoluta libertà gli autori che vi compaiono hanno messo nero su bianco il loro concetto di fantasia. Senza confini, senza imposizioni, perché nel mondo della fantasia tutto è concesso.

    Il risultato è stato quanto mai eterogeneo, e questo è senz'altro un bene. Leggendo queste pagine sarà possibile trovare tutto ciò che compone l'immaginario della razza umana, in forme e modi sempre nuovi e originali.

    La prima novella, Lizzi Bizzi e la Strega Rossa, che io stesso ho scritto, racconta la storia di un uomo che, arrivato alla fine della sua vita, viene soccorso da due strane bambine che forse appartengono ai ricordi della sua infanzia, e che lo condurranno in un viaggio incredibile alla scoperta di ciò che ha perduto. In Oltre le Pozzanghere, del giovane Stefano Vignati, una bambina abbandonata trova la strada per raggiungere un bizzarro luogo dove riuscirà finalmente a capire ciò che realmente conta. Turquaz, di P.M. Sirach, è la storia di un uomo che si ritrova in un'altra realtà cupa e malevola, e qui gli verrà offerta un'occasione unica: sacrificare se stesso per un bene superiore. Olivia dagli Occhi Nocciola, di Jenny Gecchelin, è la storia di una strana vagabonda e del suo amore impossibile. Ne Il Patto di Luigi Milani, un vecchio realizzerà il suo sogno di volare. Sitael, l'Angelo Oscuro di Sabrina Parodi, sarà disposto a rinunciare a ogni cosa per la donna che ama. In Proxima, di Angela Di Bartolo, l'ultimo sopravvissuto di una razza perduta racconterà la sua amara storia. Il Sentiero Nascosto che porta alle Stelle, di Giulia Lucchesi, Occhi Azzurri, Capelli Blu, di Patrizia Birtolo, e Gemini, di Antonella Vigliarolo, hanno in comune un tenero e delicato rapporto con chi non c'è più, ovvero con un fantasma, e ciascuna delle tre autrici ne fornisce una visuale completamente diversa e assai originale. Dalila, di Cristina Origone, presenta una sirena quanto mai attuale. E Vissero per Sempre Felici e Contenti…, di Sonia Dal Cason, racconta finalmente cosa succede nelle fiabe dopo questa fatidica frase. Le Tre Favole (A)normali del giovanissimo Nicolò Di Bernardo si rifanno con molto brio alle favole classiche di Esopo. Ne Il Frutto del Credo, di Antonio Ferrara, conosceremo una versione molto particolare di Babbo Natale. Il Drago Angelo, di Laura Sarotto, insieme commovente e divertente, ci presenta un angelo custode molto pasticcione. La Terra Salvata dagli Irtsérret, di Trap, ci dimostra come i bambini siano in grado di compiere qualunque prodigio. Conclude il volume la più classica delle favole: I Bambini Controvento delle Ore Senzatempo, di L. Nivoul, che ci trasporta in mondi magici e incantati.

    Un viaggio nella fantasia più sfrenata, quindi, che mi auguro appagherà i vostri desideri. A questo punto non mi resta che augurare:

    «Buona lettura a tutti!»

    Lizzi Bizzi e la Strega Rossa

    di Stefano Pastor

    Stefano Pastor è nato a Ventimiglia nel 1958. Dopo vent’anni passati nel commercio di musica e film, da un paio d’anni ha deciso di dedicarsi alla scrittura. Un primo successo l’ho ottenuto vincendo il Premio Letterario Città di Ventimiglia con il romanzo Holiday, pubblicato in seguito dalla Editrice Zona con il titolo di Ritorno a Ventimiglia (2010). Con il thriller L’Intervista ho vinto il Premio Le Fenici 2010, indetto dalle Edizioni Montag, che l’hanno poi pubblicato in volume. Con CIESSE Edizioni ho pubblicato Creature, una raccolta di quattro novelle horror, e La Correzione, entrambi nel dicembre 2010, e il thriller Morte, nel febbraio 2011. A marzo 2011 è uscito il romanzo horror La Prigione per la Zerounoundici Edizioni. Le sue storie sono dei generi più disparati, thriller, fantascienza, fantasy, horror, avventura, drammatico, ma ha una predilezione per il fantastico puro, senza una precisa inquadratura.

    «È la prima volta, vero? Si vede.»

    Per lei non lo era. Si poteva capire dal foulard che le avvolgeva la testa. Il signor Orazio non avrebbe saputo dire quanti anni avesse, ma lui di queste cose non se ne intendeva. A dire il vero non c’era nulla in cui eccellesse.

    Forse quella donna era sulla quarantina, forse ne aveva pure dieci in meno, almeno prima che fosse aggredita dalla malattia.

    «Stavo per andare in pensione», disse lui, come se questa fosse una risposta. «Ho già sessantacinque anni.»

    Lei comprese, invece. Proprio non ci voleva la malattia, quella malattia, a un passo dalla pensione. Era troppo presto. Lei che aveva molti anni di meno, ebbe ugualmente pietà di quell’ometto così piccolo e fragile, dal volto di luna piena, come quello di un bambino.

    «È venuto da solo?»

    «Sono solo», confermò il signor Orazio. «Non mi sono mai sposato.»

    «Non è facile affrontare tutto questo da soli», disse la donna.

    «Non lascio nessuno. Nessuno piangerà per me.»

    Non sembrava triste, il signor Orazio. Spaventato ma non triste, come se il fatto che nessuno avrebbe pianto per lui in qualche modo lo rincuorasse.

    La donna posò una mano sopra le sue e le strinse. «Ce la faremo, vedrà. Riusciremo a vincere.»

    «È doloroso?» chiese l’ometto, timidamente.

    La donna scosse la testa. «Non adesso.»

    Il signor Orazio comprese le sue parole solo alcune ore dopo, mentre stava tornando a casa, in autobus. Si sentì la gola secca, un gelo nei polmoni, lo stomaco in disordine come se avesse ingerito una pietra. Sentì il bisogno di vomitare, prepotente più che mai. Anche se quel giorno, ligio agli ordini del medico, non aveva ingerito niente.

    È la chemio, si disse, e aveva perfettamente ragione.

    Non c’erano speranze, lui lo sapeva già. Il medico era stato più ottimista, aveva detto che le speranze erano scarse, però bisognava tentare lo stesso. E lui ci stava provando.

    Non aveva realmente paura, non era spaventato all’idea dell’annientamento totale, piuttosto lo preoccupava il percorso che avrebbe dovuto condurlo a ciò. Aveva paura del dolore, insomma.

    Sentiva di meritarselo, perché la sua vita era vuota. Non aveva fatto nulla, in tutta la sua esistenza, che meritasse di essere tramandato. I suoi ricordi erano un’immensa sequela di azioni preordinate: alzarsi, lavarsi, fare colazione, andare al lavoro, pranzare, lavorare ancora, poi la cena e un po’ di televisione, prima di andare a dormire. Non c’era mai stato nulla che interrompesse quella ruotine, nulla che lo strappasse a quella sfilza di libri contabili che erano tutta la sua esistenza.

    Finora, almeno.

    Pregò di riuscire ad arrivare a casa, di non sentirsi male proprio lì, in mezzo a tutti quegli estranei. In fondo ne aveva paura, non era mai riuscito a interagire con nessuno.

    Era un solitario.

    In parte ci riuscì.

    Vomitò nell’ingresso del suo palazzo, cercò di farlo nel vaso di un vecchio ficus striminzito che avrebbe dovuto abbellire quella desolazione, ma sbagliò mira e allagò il pavimento. Poi riuscì a trascinarsi fino all’ascensore, ringraziando il cielo che il palazzo ne fosse provvisto.

    Avrebbe dovuto pulire ma proprio non se la sentiva, del resto nessuno avrebbe potuto capire che era stato lui.

    Aveva sbagliato, doveva venire subito a casa, dopo la chemio, non andare a lavorare. Ora stava pagando questa imprudenza, si sentiva privo di forze e gli girava la testa.

    Arrancò fino al suo appartamento e faticò non poco ad aprire la porta. La mano gli tremava troppo per riuscire a infilare la chiave.

    Fece appena in tempo a entrare prima che le forze lo abbandonassero del tutto, e lì stramazzò a terra.

    Non era facile essere solo, ora se ne rendeva conto.

    Steso a terra, senza la forza di alzarsi, perduto.

    Sarebbe potuto morire lì. Prima o poi sarebbe successo, se ne rendeva conto. Senza che nessuno se ne accorgesse, che lo venisse a cercare. Era orribile.

    Cercava un punto di appoggio per riuscire a sollevarsi, ma non c’era alcun mobile nelle immediate vicinanze. Strisciare come un verme, non c’era altra soluzione. Che gli stava succedendo? La chemio non avrebbe dovuto avere una reazione così forte, o forse sì? L’avevano avvertito che sarebbe stata una terapia d’urto, a dosi massicce. Il suo ventre era in fiamme, e continuava a tremare.

    «Dai, alzati. Ti do una mano io.»

    C’era proprio una mano tesa verso di lui, una mano molto piccola, la mano di una bambina.

    Restò a bocca aperta, a guardarla.

    Era quanto di più assurdo avesse mai visto. I suoi capelli erano colore del grano, divisi da una riga in mezzo e raccolti in due lunghe trecce che le arrivavano fino alla vita. Aveva labbra rosse e occhi di un azzurro purissimo, non dimostrava più di otto o nove anni. Anche il vestito che indossava era assurdo, con sbuffi sulle spalle e una gonna a palloncino. Lunghi calzettoni in tinta fantasia le coprivano le gambe e a completare il suo abbigliamento strambo c’erano un paio di scarpette rosse con una fibbia dorata.

    Non aveva idea di chi fosse, non l’aveva mai incontrata prima. Non abitava nel palazzo, ne era sicuro.

    Forse avrebbe dovuto chiederle cosa facesse lì, nel suo appartamento, ma non era il momento adatto. Aveva troppo bisogno del suo aiuto. «Non ce la puoi fare», le disse. «Sei troppo piccola.»

    Lei sbuffò in modo rumoroso, quasi fosse una pernacchia. «Ti degni di darmi una mano o devo fare tutto io?»

    Non si stava rivolgendo a lui. Il signor Orazio cercò di guardarsi intorno e scorse una seconda bambina.

    Questa era più alta, e indossava una mantellina che la faceva assomigliare a Cappuccetto Rosso. Il suo aspetto non era meno strano di quello della prima bambina.

    Stava appollaiata sul bracciolo della poltrona, quasi fosse un avvoltoio, i suoi capelli rosso fiamma andavano sparati in ogni direzione e pareva non avessero mai conosciuto un pettine. Il volto era coperto di lentiggini e persino i suoi occhi sembravano avere una sfumatura rossastra.

    «Lei non parla», gli spiegò la prima bambina, e alzò la voce per farsi sentire dall’amica. «Però ci sente benissimo.»

    Gli fece una confidenza, ridacchiando. «Mette tutti a disagio, dicono che sia una strega.»

    Il signor Orazio era più confuso che mai. In quel momento proprio non gli interessava chi fossero quelle bambine, ringraziò solo il cielo che fossero lì. «Aiutatemi, non mi sento bene.»

    La strega rossa saltò giù dalla poltrona e venne verso di loro con un’andatura ciondolante. Non indossava calze e aveva gambe nodose, come quelle di un maschiaccio. Ai piedi un paio di sandali aperti.

    Era certo che non sarebbero riuscite nell’impresa, ma fu subito smentito. Non solo l’alzarono, ma riuscirono pure a sostenerlo. Il signor Orazio non si era mai sentito così debole.

    «Devi andare a letto», disse la biondina con le trecce.

    Persino parlare era uno sforzo eccessivo, fece solo un cenno del capo.

    Se e come arrivò nel suo letto, per il signor Orazio rimase un mistero. Quando riaprì gli occhi erano passate molte ore e il buio aveva invaso la stanza.

    «Ti ho preparato un brodino, è meglio che non mangi altro.»

    La biondina era lì, quasi fosse in attesa del suo risveglio. Salì sul letto e si inginocchiò al suo fianco, reggendo il piatto fumante. Prima che potesse dire una sola parola iniziò a imboccarlo col cucchiaio, quasi fosse un bambino.

    Era alquanto imbarazzante, per il signor Orazio, ma appena il liquido caldo venne in contatto con la sua gola riarsa si sentì rivivere. Nell’assoluto stupore lasciò che lei continuasse.

    Il piatto era quasi vuoto quando riuscì a dire le prime parole. Furono talmente ovvie che lo fecero sentire ancor più stupido. «Chi sei?»

    Lo sguardo di quella bambina era penetrante, quasi fosse una persona adulta. «Davvero non ti ricordi di me?»

    Frugò nella memoria, si sforzò in ogni modo, ma fu inutile. «Qual è il tuo nome?»

    Parve soppesare se fosse il caso di dirglielo. Sembrava davvero delusa di non essere stata riconosciuta.

    «Lizzi.»

    «Lizzi», ripeté il signor Orazio. Doveva essere di certo un diminutivo. Di Letizia, probabilmente. Lui non aveva mai conosciuto nessuna Letizia.

    La strega rossa era appollaiata sulla sua poltrona preferita, stavolta, ai piedi del letto. «E lei?»

    Lizzi sbuffò di nuovo in modo esagerato. «Non parla, te l’ho detto. E se non parla come può fare a dirmi il suo nome?» Alzò le spalle. «Chiamala strega, come fanno tutti.» E aggiunse, con uno strano sorrisetto: «Una volta lo facevi anche tu.»

    Non le aveva mai conosciute, ne era più che certo, non erano tipi che si sarebbero potuti dimenticare.

    «Abitate qui vicino?»

    Lizzi saltò giù dal letto e andò verso l’amica. Forse si scambiarono pure uno sguardo, ma il signor Orazio non poteva esserne certo.

    «Stai morendo», disse Lizzi, senza voltarsi.

    Nessuno sapeva della sua malattia, del resto non c’era nessuno da informare. Di certo non lo potevano sapere loro.

    «Io credo che il signor Agenore saprebbe cosa fare.»

    Non era certo di aver capito. «Come?»

    Lizzi si girò scuotendo il capo, con aria triste. «Se ti rifiuti di ricordare non possiamo aiutarti.»

    La confusione era assoluta, il signor Orazio non sapeva cosa dire.

    Lizzi sembrava decisa. «Se siamo qui vuol dire che non vuoi morire. Sforzati!»

    Il signor Orazio avrebbe voluto, ma non ne aveva la forza.

    La strega rossa fece uno strano cenno, passandosi un dito davanti alle labbra.

    «Sì», disse Lizzi. «Sei troppo stanco, devi riposare. Parleremo ancora, più avanti.»

    Le ultime forze sembravano averlo abbandonato, il signor Orazio non riusciva più a tenere gli occhi aperti.

    Li chiuse.

    La mattina dopo, al risveglio, il signor Orazio scoprì di stare bene. L’illusione durò finché non si sedette a fare colazione, e allora si ricordò che da lì a poche ore sarebbe dovuto tornare a fare la chemio.

    L’apparizione di Lizzi e della strega rossa fino a quel momento era rimasta relegata in un angolino del cervello. Neppure per un istante le aveva considerate reali, ma solo allucinazioni dovute alla confusione della sera prima. Non esistevano, questo era ovvio. Le aveva create la sua mente.

    Perché così? Perché loro? Dovevano essere legate in qualche modo a un episodio del suo passato. Considerando quanto fossero bizzarre, di certo doveva trattarsi dei personaggi di un libro, oppure di un film. Qualcosa risalente alla sua infanzia, che la sua mente conscia aveva scordato.

    Era tutto così semplice e ovvio, non ne ebbe neppure paura.

    Dopotutto era già finito.

    Quella notte fu un incubo.

    Dopo la chemio stavolta era tornato subito a casa. Il suo corpo pareva averla recepita meglio. Aveva avuto gli stimoli del vomito, ma si erano subito attenuati. La spossatezza non l’aveva paralizzato. Aveva fatto una cena molto leggera ed era andato a letto presto.

    Non era riuscito a dormire.

    Le cose erano andate via via peggiorando. Quando la pendola aveva suonato l’una di notte, il signor Orazio si sentiva come se un pachiderma di due quintali si fosse seduto sul suo petto.

    Non riusciva a respirare, non riusciva a muoversi. Era arrivata la fine, stava morendo, ne era certo. La sua mente urlava, anche se le sue labbra restavano sigillate. L’orrore lo travolse, un orrore cieco, irragionevole.

    «Non puoi andare avanti così, bisogna fare qualcosa.»

    Lizzi era accanto al suo letto, che scuoteva il capo.

    «Aiutami, su, bisogna sollevarlo, io da sola non ce la faccio.»

    Anche la strega rossa era presente, all’altro lato del letto.

    Fu orribile, il signor Orazio quella notte vomitò persino l’anima. Lizzi non faceva altro che andare avanti e indietro con le bacinelle piene del suo vomito, mentre la strega rossa lo sosteneva. Il signor Orazio non riusciva a parlare, ogni volta che tentava di farlo tornavano i conati di vomito.

    «Ti stai distruggendo!» lo accusò Lizzi. «Quelle cure ti stanno rovinando, devi smetterla!»

    Il signor Orazio scuoteva solo il capo, non riusciva a parlare. Loro non potevano capire quale fosse la sua situazione.

    «Non ti basta ancora? Non hai già pagato abbastanza?»

    Quelle bambine erano troppo strane, quasi terrificanti. Eppure non poteva che essere grato della loro presenza, di non essere solo.

    Molto tempo dopo lo fecero di nuovo coricare.

    «Chi sei?» mormorò il signor Orazio. «Parlami di te, della tua amica. Aiutami a ricordare.»

    Di nuovo Lizzi valutò se fosse il caso di farlo, e si sedette sulla sponda del letto. «Lei si è trasferita da poco. Giochiamo insieme. Non so molto di più, non parla mai. Non so neppure se ne sia capace.»

    «Perché la chiami strega?»

    «Non gliel’ho dato io, quel nome. Sono gli altri bambini che la chiamano così. A causa dei capelli, credo. Lei li picchia sempre.»

    «Assomiglia a Cappuccetto Rosso.»

    Lo sguardo che gli rivolse Lizzi lo mise subito a disagio. «Che ho detto di sbagliato?»

    «Non ti è mai piaciuta quella favola, la odiavi.»

    Il signor Orazio stava iniziando a capire. «Voi appartenete al mio passato, vero? Di quando ero un bambino.»

    «Devi tornare a casa, è indispensabile. Se non vuoi morire devi tornare a casa.»

    Inarcò appena un sopracciglio. Il suo passato, la sua casa. «Che significa?»

    Lizzi sembrava proprio depressa. «Noi non possiamo fare altro, sta a te decidere.»

    «Così non basta! Devi dirmi di più!»

    Lei scivolò giù dal letto, allontanandosi. «Ti abbiamo già detto tutto quello che c’è da sapere! Ti abbiamo detto chi siamo noi, non ti basta?»

    «E chi siete?»

    Un sorriso sbarazzino. «Ma lo sai! Lizzi Bizzi e la Strega Rossa!»

    «Avrei una richiesta un po’ bizzarra da farle. So che non sarà facile. Sto cercando un libro un po’ particolare.»

    Aveva scelto quella donna perché gli era sembrata la più adatta. Sulla sessantina, un aspetto materno, sempre sorridente. L’altra bibliotecaria del reparto ragazzi l’aveva subito messo a disagio, secca e rigida come un tronco d’albero.

    «Dica pure, cercheremo di aiutarla.»

    «Sto cercando un libro che ho letto molti anni fa. Quand’ero solo un bambino, probabilmente. Non ricordo il titolo, però le protagoniste erano due bambine. Lizzi Bizzi e la Strega Rossa.»

    La donna fece una ricerca al computer e scosse il capo. «Mi dispiace, non abbiamo alcun libro con quel titolo.»

    «Non credo che fosse il titolo, erano solo i personaggi.»

    «Ti ricorda qualcosa?» chiese la donna alla collega.

    Lei fu sbrigativa. «Cercalo su Internet.»

    «Si può fare?» domandò il signor Orazio, e loro lo guardarono come se fosse un marziano.

    Il risultato finale lo lasciò perplesso.

    «Non esiste.»

    «Forse mi sbaglio, allora, forse non era un libro. Magari…»

    «No, non mi ha capito. Non esiste proprio. Non ci sono quei nomi, qualunque cosa fossero. Forse non li ricorda bene.»

    Il signor Orazio era sempre più perplesso. «Lì c’è tutto?»

    La bibliotecaria sorrise comprensiva. «Tutto forse no, ma quasi. Tutto ciò di cui si è parlato, e che sia appena conosciuto. Sì, si potrebbe dire che c’è tutto, ma non quei nomi.»

    «Forse è un film», mormorò il signor Orazio.

    «Libro o film non cambia. Non c’è, non esiste. Non sono mai esistiti.»

    Stava perdendo la pazienza, ma il signor Orazio non riusciva a darsi per vinto. «C’era un altro personaggio, Agenore. Può cercare anche quello?»

    L’aria materna era scomparsa dal volto della donna. «Quale parte del non esistono non è riuscito a capire?»

    Fece la chemio, anche se loro gli avevano detto di no, e poi stette male, tanto male, ma Lizzi Bizzi e la Strega Rossa non si fecero vedere.

    Non osò coricarsi nel letto e si mise seduto su una poltrona, coprendosi con una coperta. Il telefono era lì accanto, in caso di emergenza. Si preparò a un’altra notte insonne.

    Non esistevano, non erano reali, che importanza potevano avere i loro nomi o quale fosse la fonte delle sue allucinazioni?

    Eppure qualcuno l’aveva sollevato da terra, l’aveva imboccato, aveva pulito il suo vomito, possibile che si fosse sognato pure quello?

    Smettere la chemio? Il cancro aveva invaso il suo corpo, ormai era ovunque. Stava attaccando il fegato, non c’erano più speranze. Smettere equivaleva ad arrendersi.

    Loro, però, non la pensavano così.

    Ma loro non esistevano! Erano il parto della sua fantasia!

    Il signor Orazio stava sempre peggio, e non sapeva cosa fare.

    «Ricordi ancora la tua casa?»

    Era apparsa di nuovo, chissà da quanto era lì. Nel dormiveglia il signor Orazio non si era accorto di niente.

    C’era anche la strega rossa, ma lontana da loro, in fondo al divano.

    «E la tua, di casa? Dove abiti? Da dove arrivi?»

    Lizzi alzò le spalle. «Vivo con mamma e papà, che altro? Papà è un medico, e mamma è sempre occupata, con le sue amiche del club. Cucina per le feste parrocchiali. Io la faccio impazzire. Ci divertiamo a far loro dispetti, e lei si arrabbia sempre.»

    «Tu e la tua amica?»

    Annuì.

    «E cosa fate?»

    Si mise a ridacchiare, come una vera bambina. «Be’, una volta abbiamo messo un topo morto dentro la torta che mamma aveva fatto per il parroco. Oppure quella volta che abbiamo dipinto lo steccato a strisce gialle e blu. O quando abbiamo incollato tutte le pagine del libro della maestra. E…»

    Il signor Orazio la interruppe. «Ci conoscevamo? Eravamo amici?»

    Lizzi restò in silenzio a lungo. «Amici non direi. No, decisamente no.»

    Il più delle volte le sue parole contrastavano con l’età che dimostrava. Talvolta, invece, sembrava proprio una bambina. Il mistero era sempre più complesso. «Lizzi Bizzi è il tuo vero nome?»

    «Ma no, stupido! Non lo vedi che è finto? Chi vuoi che si chiami così!»

    «Come ti chiami, allora?»

    «Letizia, no? Ma io lo odio. Non ti parlo più se mi chiami con quel nome!»

    «Letizia e poi?»

    «Letizia Bizzarri.»

    «Non l’ho mai sentito.»

    «Certo che non l’hai sentito! Non se lo ricorda nessuno che mi chiamo così.»

    «Da dove arrivi?»

    Stavolta ottenne una risposta. «Da casa tua.»

    Cercò di dare un senso a quelle parole. «È lì che ci siamo conosciuti? Eri una vicina? Giocavamo insieme?»

    Dall’espressione di Lizzi comprese di aver di nuovo sbagliato. «Cosa ricordi della tua casa?» chiese ancora lei.

    Il signor Orazio sforzò di nuovo la memoria, anche se i ricordi tendevano a sfuggirgli. «Da piccolo abitavo al Silvestri, un quartiere quasi in periferia. Era un casermone, ricordo, e il nostro appartamento era molto piccolo. Papà faceva l’operaio, non era mai a casa. La mamma…»

    S’interruppe, e Lizzi lo spronò con pazienza. «Vai avanti.»

    Il signor Orazio scosse la testa. «Ero sempre solo, non avevo amici. Gli altri bambini mi evitavano.»

    «Perché?»

    «Non lo so. Forse ero grasso. Comunque a me andava bene così.»

    Ci pensò a lungo e aggiunse: «Non potevamo essere amici. Non avevo amici. Proprio non mi ricordo di te, abitavi davvero lì?»

    Lizzi scosse la testa. «Non quella. La tua vera casa. Cosa ti ricordi della tua vera casa?»

    Il signor Orazio aggrottò la fronte. «Non ci sono altre case. Ho abitato laggiù fin quasi a trent’anni, poi sono venuto a vivere qui. Era più comodo, vicino alla ditta dove lavoravo. Per i miei non è stato un problema.» Sospirò. «Sono morti, già da parecchi anni. Prima papà e un paio di anni dopo anche la mamma.»

    «Gli volevi bene?»

    Strana domanda, e altrettanto strana fu la risposta. «Erano i miei genitori.»

    «Ti amavano?»

    Il signor Orazio non sapeva che dire. Forse non si era mai posto quella domanda. Cercò di richiamare alla memoria qualche momento piacevole passato con la sua famiglia, qualche dimostrazione di affetto, una festa vissuta insieme, un Natale, un compleanno, ma non ci riuscì, la sua mente era vuota.

    «Noi sì», mormorò Lizzi. «Noi ti amavamo, prima che tu ci facessi così tanto male.»

    Il signor Orazio rimase a bocca aperta, e subito fu assalito da timori spiacevoli. «Vi ho fatto del male? A chi? A tutte e due?»

    La sua mente partorì pensieri allucinanti. «Sei morta? Siete morte? Siete dei fantasmi? È stata colpa mia?»

    Per sua fortuna Lizzi si alzò sbuffando. «Non hai capito proprio niente!» Si rivolse all’amica. «Cosa dobbiamo fare adesso?»

    La strega rossa si fece avanti e girò intorno alla poltrona, studiandolo come un pesce nell’acquario.

    «Io non me ne vado», dichiarò risoluta Lizzi. «Se lui ci ha chiamate vuol dire che c’è ancora qualcosa da fare. Non mi do per vinta.»

    «Io vi ho chiamate?» mormorò il signor Orazio.

    Lo ignorarono entrambe. «Dobbiamo portarlo indietro», decise Lizzi. «Farlo tornare a casa.»

    Lo sguardo della strega rossa esprimeva tutto il suo disappunto.

    «Lo so che non saranno affatto contenti, però non vedo altra soluzione.»

    La strega rossa scosse il capo.

    «È cambiato», disse Lizzi, senza sembrare affatto convincente. «Sono certa che è cambiato.»

    Il signor Orazio non riusciva a intervenire, di nuovo si sentiva privo di forze.

    «È l’unico modo», furono le ultime parole di Lizzi. «Potrebbe essere la nostra unica speranza.»

    Quel giorno non andò a fare la chemio.

    Quando Lizzi gli disse quale sarebbe stata la loro destinazione, restò a bocca aperta.

    Mille domande affollavano la sua mente. «Perché? È impossibile! Non sono mai stato lì! Non so neppure dove sia!»

    Non se ne erano andate. Il sole era ormai alto nel cielo, eppure quelle presenze continuavano a essere tangibili, nella sua cucina.

    Lizzi gli aveva preparato la colazione, poi si era messa a cucinare dei biscotti. Per il viaggio, aveva detto.

    Erano quanto mai reali, la loro esistenza non poteva più essere negata.

    «Non sono mai stato lì!» ripeté il signor Orazio, quasi urlando.

    Era una follia, quelle strane bambine avrebbero voluto che lui piantasse il lavoro e le cure, nelle sue condizioni, per intraprendere un assurdo viaggio che l’avrebbe portato all’altro lato dello stato, in un paesino sperduto che non aveva mai sentito nominare.

    Eppure esisteva, aveva controllato sulla cartina, si trovava in riva al mare: Troppani. 300 abitanti, diceva l’atlante.

    «Non mi sono allontanato da questa città! Mai, non una sola volta in vita mia!»

    «Allora non vuoi venire?» tagliò corto Lizzi.

    Il signor Orazio non se l’era ancora chiesto. Voleva seguire quel sogno assurdo o preferiva restare lì ad attendere la morte? «Voi abitate lì? È da lì che venite?»

    Entrambe le bambine annuirono.

    «E siete reali?»

    A questo non c’era risposta, poteva solo credere. Ormai non poteva più fidarsi dei suoi sensi.

    «Posso ancora vivere?» osò chiedere. «Posso non morire?»

    Si guardarono tra loro, prima di dare una risposta. La strega rossa scosse il capo, mentre Lizzi fu più diplomatica. «Ancora non lo sappiamo. Tu puoi ogni cosa, bisogna vedere se ne sei in grado.»

    «Essere in grado?» ripeté il signor Orazio, confuso.

    «Sì, se vuoi davvero vivere.»

    Partirono due ore dopo, con il treno.

    Ci fu un momento imbarazzante, quando il signor Orazio andò a comprare i biglietti e non seppe decidersi su quanti prenderne.

    C’era poco da dire, Lizzi Bizzi e la strega rossa lo accompagnavano, ed erano proprio uno strano trio, talmente bizzarro da far voltare la testa a chiunque. Eppure non accadde, tutti parevano ignorarli.

    Il signor Orazio era ancora dell’idea che non esistessero, che fossero un parto della sua fantasia, e che lui soltanto fosse in grado di vederle. Però, davanti al bigliettaio annoiato, preferì chiedere tre biglietti.

    Presero posto sull’ultimo vagone, quasi deserto.

    «Come siete arrivate qui?» chiese, aggrappandosi ancora una volta alla logica. «Qualcuno vi ha accompagnate?»

    Ricevette solo due sguardi pietosi, quasi avesse detto un’assurdità.

    Quando il treno si mise in moto, e ormai il dado era tratto, il signor Orazio si abbandonò a quella follia. «Dite davvero che potrei guarire? E come?»

    Si scambiarono il solito sguardo, perfettamente sincronizzate. «Noi non abbiamo detto questo. Non lo sappiamo.»

    «Chi è questo signor Agenore? Mi può aiutare?»

    Lizzi si mosse a disagio sul sedile. «Lui è saggio. Il più grande saggio del mondo. Forse potrebbe trovare un sistema.»

    Spiò l’amica al suo fianco e aggiunse: «Sempre che lo voglia fare.»

    «Potrebbe non volere?»

    Non risposero.

    «È un mio amico? Lo conoscevo?»

    Il disagio crebbe, alla fine Lizzi decise di essere più esplicita. «Nessuno di noi è tuo amico. Tu non hai amici.»

    La cosa non lo sconvolse, ormai ci era abituato. «Eppure hai detto che un tempo mi volevi bene.»

    Quegli occhi azzurri divennero gelidi, puntati su di lui. «Non è stata una mia scelta.»

    C’era astio nella sua voce, e il signor Orazio comprese che lo disapprovavano, qualunque cosa avesse fatto o credevano che lui avesse fatto. «Perché siete venute, allora?»

    «Neppure questa è stata una nostra scelta. Sei tu che ci hai chiamate.»

    Lui scosse il capo. «Perché avrei dovuto? Non mi ricordo di voi.»

    Rispose all’istante. «Non volevi morire. Nonostante tutto ancora ti rifiuti di morire.»

    Erano reali.

    Suppergiù. Qualcosa del genere. Perlomeno non era il solo a vederle. Quando passò il capotreno a controllare i biglietti, il signor Orazio gliene consegnò prudentemente uno soltanto.

    Lo vide inarcare un sopracciglio, perplesso. «Le bambine non sono con lei?»

    Il signor Orazio si profuse in scuse assurde, mentre gli mostrava gli altri due biglietti, ringraziando il cielo di averli comprati.

    Il fatto che fossero reali, però, non lo consolò affatto. Anzi, rendeva tutta quella storia ancor più inquietante. Tanto era immerso nel mistero, che neppure un attimo pensò al male che lo divorava e lo stava portando alla morte. Le sedute di chemio erano ormai dimenticate e il suo corpo continuava a funzionare senza problemi.

    Si abbandonò sul sedile, deciso a godersi il viaggio.

    I guai iniziarono un’ora dopo, quando ancora erano lontani dalla meta.

    Si era assopito, causa le molti notti agitate, e al suo risveglio altre persone erano venute a sedersi nel suo scompartimento. Delle bambine non c’era traccia, ma questo non lo stupì né lo depresse: sapeva che sarebbero tornate, quando sarebbe venuto il momento, ormai si era abituato alle loro sparizioni.

    La sua pace durò molto poco, però, perché arrivò il capotreno a chiamarlo. Entrò nello scompartimento e lo puntò subito, a colpo sicuro. «Lei! Venga con me!»

    Il povero signor Orazio lo seguì col cuore in gola.

    «Queste sono sue, immagino!»

    Durante il suo pisolino Lizzi Bizzi e la strega rossa si erano scatenate, portando scompiglio nell’intero treno. I loro scherzi e i loro dispetti avevano messo sul piede di guerra gran parte dei passeggeri e tutto il personale. La lista delle loro marachelle sembrava infinita.

    Il signor Orazio era esterrefatto, proprio non riusciva a comprendere quel comportamento.

    «Che ha intenzione di fare?» gli chiese il capotreno.

    Non sapeva proprio cosa dire, di certo ormai non poteva più fingere di non conoscerle. Anzi, si sarebbe messo ancora di più nei guai. Loro ridacchiavano, quasi fossero orgogliose di ciò che avevano combinato. Bambine, erano solo bambine.

    Non fu facile trovare una soluzione. Si profuse in scuse e promesse quanto mai aleatorie. Arrivò quasi a strisciare ai loro piedi. Alla fine li rinchiusero tutti e tre dentro a uno scompartimento deserto, con l’ordine di non mettere piede fuori da lì fino al loro arrivo.

    Il signor Orazio riuscì a tirare un sospiro di sollievo. Quando chiese alle bambine perché l’avessero fatto, Lizzi rispose con un sorriso angelico: «È nella nostra natura.»

    Dopo tante ore, quando il sole stava per tramontare, giunsero a destinazione.

    Erano stati costretti a cambiare treno, e fare l’ultimo pezzo di strada su uno scassato pulmino. Il signor Orazio si era fidato totalmente delle sue guide. Non aveva neppure protestato quando il pulmino li aveva depositati su una strada deserta, in un posto che sembrava dimenticato da Dio.

    Lì il signor Orazio vide il mare per la prima volta.

    Non era preparato a tanta vastità. Le immagini televisive non gli rendeva affatto giustizia. Era immenso, al punto che non vi era quasi divisione dal cielo, una distesa azzurra che si stava appena tingendo di una sfumatura arancione.

    «Muoviti, dobbiamo andare. Siamo quasi arrivati.»

    Non era facile staccare lo sguardo da tanta meraviglia. Il signor Orazio si guardò intorno, cercando tracce di vita, inutilmente. «Dov’è il paese?» chiese.

    Lizzi scosse il capo. «Non dobbiamo andare in paese. La nostra casa è prima.»

    Aveva detto la nostra, e questo poteva avere molte implicazioni. Il signor Orazio avrebbe voluto farle altre domande, ma fu costretto a correre per starle dietro.

    La strada era in salita, e conduceva a una ripida scogliera. Non incontrarono nessuna macchina. Quando superarono un dosso il signor Orazio se la trovò all’improvviso davanti.

    Finora l’avevano chiamata casa, ma era molto di più. Una villa antica, su tre piani, proprio sull’orlo della scogliera, con i tetti spioventi e colonne in marmo intorno all’ingresso. Era una costruzione cupa e desolata, degna di un film dell’orrore. Al signor Orazio venne in mente una sola parola per definirla: disperata.

    Si bloccò. «No, no.»

    Le bambine si fermarono, Lizzi fece una smorfia. «Cos’è questa storia, proprio adesso?»

    «Non sono mai stato lì! Ne sono sicuro!»

    Se era così, e il signor Orazio ne era certo, perché allora si sentiva così agitato? Neppure lui riusciva a trovare una spiegazione.

    «Ormai siamo arrivati, non puoi tornare indietro.»

    Sì, che poteva! Al signor Orazio venne un’altra terribile idea: che al mondo esistessero cose ben peggiori della morte. Ed era certo che lì le avrebbe incontrate. «No, no, me ne vado.»

    Lizzi s’infuriò. «Smettila di fare storie! Me lo devi! Ce lo devi a tutti!»

    Non era abituato a essere trattato in quel modo. Quando la strega rossa venne a prenderlo per mano, lui non riuscì a fare resistenza. Lo trascinarono entrambe, le bambine, verso il suo destino.

    La casa era abitata.

    Anche se da fuori era sembrata abbandonata e deserta, questa prima impressione venne fugata appena messo piede al suo interno. I mobili erano lucidati a specchio e non c’era in vista un filo di polvere. Tappeti soffici riempivano i pavimenti. Ogni centimetro delle pareti era riempito da quadri, arazzi e suppellettili tra le più varie. C’era vita lì dentro, tanta vita.

    Neppure aveva fatto un passo e Lizzi non aveva ancora chiuso la porta, che arrivò una voce gelida a farlo sobbalzare.

    «L’avete portato qui? Come vi è saltato in mente!»

    Quella che era apparsa pareva il prototipo della governante. Vestito mascolino e guardo severo, pareva una Mary Poppins stagionata. Ma non c’era in lei la minima traccia di benevolenza.

    «Tu avevi un’altra soluzione?» l’affrontò Lizzi, sfrontata.

    La strega rossa continuava a tenere il signor Orazio per mano, forse per confortarlo, forse per impedirgli di fuggire.

    La governante sembrava sull’orlo di una crisi isterica. «Perché? Perché?»

    «Lo sai benissimo!» urlò Lizzi, e in quel momento non sembrava affatto una bambina. «Non abbiamo nessuna certezza che riusciremo a farcela senza di lui!»

    La donna scosse il capo, nervosa. «Non importa, non ce lo voglio qui. Non lo voglio lo stesso!»

    Il signor Orazio ritrovò un briciolo di voce. «Devo andarmene?» chiese, con la speranza che gli dicessero di sì.

    Lizzi si rivoltò contro di lui. «Non devi andare da nessuna parte! Questa è la tua casa! È tutto tuo, ogni cosa che c’è qui dentro!»

    «Mio?» ripeté l’ometto, incredulo.

    Le bambine fronteggiarono la governante, e lei alla fine capitolò. «Sì, è tutto suo», ammise. «Questa è la sua casa. Può fare quello che vuole.»

    Poi si girò, sempre rigida, e andò via.

    Le bambine lo presero di nuovo per mano. «Vieni, adesso. Devi andare in camera. Sei troppo stanco, il viaggio è stato faticoso. Parleremo dopo.»

    Come evocato dalle sue parole, il dolore tornò e il signor Orazio si ritrovò all’improvviso debole. L’imponente scalinata in legno che l’attendeva gli strappò un gemito.

    Era una strana stanza, quella in cui si svegliò, senza ricordarsi come ci fosse arrivato. Era mattina, e l’odore del mare giungeva fino a lui nonostante gli scuri abbassati.

    «Stai meglio, vero? È servito venire qui.»

    Di nuovo era apparsa come un fantasma, la piccola Lizzi, e dietro di lei si intravedeva anche la strega rossa, che dal corridoio sporgeva la testa nella stanza.

    No, non c’era stato alcun miracolo, il signor Orazio si sentiva ancora debole e strani crampi gli attanagliavano lo stomaco.

    «Avrebbe dovuto?» chiese.

    Lizzi fece una smorfia. «Forse è troppo presto. Forse è necessario ricordare, prima.»

    «Ricordare cosa?» ribatté, sempre più seccato. «Questa casa non la conosco, è inutile che diciate che è mia, non ci sono mai stato!»

    «Lui è Bobo», annunciò Lizzi, in maniera assai teatrale.

    Avrebbe dovuto essere una rivelazione, di certo lei ne era convinta, ma la vista di quel bambino spinto dentro con forza dalla strega rossa non suscitò nel signor Orazio la benché minima reazione.

    Era sparuto e mingherlino, anche lui con capelli rossi e un volto coperto di lentiggini, e per un attimo pensò che potesse essere il fratello della strega rossa. La somiglianza, però, si fermava lì, in tutto il resto erano troppo diversi.

    Bobo sgranò gli occhi, vedendolo. Fece due passi avanti, per poterlo osservare meglio. Il signor Orazio vide chiaramente i suoi occhi dilatarsi e riempirsi improvvisamente di lacrime.

    Si fece indietro, scuotendo il capo e mettendo le mani avanti, come a volerlo scacciare. «No, no! Non ce la faccio! No!»

    Lizzi si stava di nuovo infuriando. «Bobo, smettila!»

    «Ma hai visto com’è ridotto?» strillò il bambino. «Non ce la faccio! Non così, non in queste condizioni!»

    Si gettò fuori dalla camera, singhiozzando, lasciando il signor Orazio esterrefatto. Lui tentò di scendere dal letto, cercando qualcosa su cui specchiarsi. Le ultime parole di quel bambino l’avevano messo in agitazione.

    Non era facile mettersi in piedi, si sentiva sempre più debole. Allora gridò: «Cosa mi è successo?»

    Lo sguardo di Lizzi era impenetrabile, e lo riempì solo di timore. «Sei vecchio.»

    Non era certo di aver capito. Fece un ultimo sforzo e raggiunse lo specchio. L’uomo riflesso era lui, sempre uguale. Neppure si notavano i segni della malattia. Si girò più confuso che mai. «Vecchio?»

    «Credi che per me sia stato facile, vederti in queste condizioni?» sbuffò Lizzi. «Eppure ce l’ho fatta, ci sono riuscita lo stesso. Bobo esagera sempre, si comporta come un bambino.»

    «Vecchio?» ripeté di nuovo il signor Orazio, mentre la sua mente compiva strani collegamenti.

    «Be’, non sarai decrepito, ma sei decisamente vecchio, adesso.»

    «Lo conosco? Dovrei conoscerlo? L’ho conosciuto in passato? Quel bambino mi conosce?»

    Lo sguardo di Lizzi non lasciava dubbi su ciò.

    «Appartiene al mio passato? Quale passato? Sono vecchio, ma vecchio… quanto? Come mi ricorda? Com’ero quando mi ha visto l’ultima volta?»

    Aveva fatto le domande giuste, il disagio di Lizzi era palese. Ciondolò la testa, prima di rispondere. «Otto anni. Avevi otto anni quanto ti abbiamo visto per l’ultima volta. Eri un bambino proprio come noi.»

    E lo piantò lì, fece dietro front, afferrò la strega rossa per mano e fuggirono entrambe via.

    Il signor Orazio non fu neppure tanto sorpreso. Ormai aveva capito che quella casa, e tutti i suoi abitanti, facevano parte del suo passato. Un passato che non riusciva a ricordare per il semplice fatto che non era mai esistito. La sua vita era stata altrove, e altrove aveva vissuto.

    C’era qualcosa di reale in tutto ciò? La casa era reale, lo erano i suoi abitanti? Non stava forse vivendo in un mondo da sogno? Non gli era per sbaglio capitato di attraversare lo specchio di Alice?

    Erano gli amici immaginari della sua infanzia, che tornavano a tormentarlo? Lui non ricordava di averne mai avuti. Però non c’erano altre spiegazioni, se quei bambini erano stati suoi amici oltre cinquant’anni prima, non potevano essere che fantasmi o allucinazioni.

    Si guardò intorno. Perché l’avevano portato proprio lì? Era quella la sua stanza, nel passato che non esisteva?

    Forse. Per certi versi sembrava la stanza di un bambino, anche se il letto era troppo grande, ma tutto in quella casa aveva proporzioni esagerate. Non c’erano giocattoli, però, e quando aprì gli armadi li scoprì vuoti. Non c’era nulla di personale, nulla che potesse stimolare qualche impossibile ricordo.

    In quell’attimo pensò che in fondo non era poi così terribile, essere venuto lì a morire, che fossero reali o meno, lo liberavano comunque dalla sua solitudine.

    Si rivestì e usò il bagno, anch’esso immacolato, poi raccolse il coraggio per avventurarsi fuori dalla stanza e cercare qualcosa

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1