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Bastarde
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Bastarde

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Le relazioni clandestine tra studentesse e professore sono sempre rischiose, ma questa volta le cose sono andate davvero male: Rebekka è stata ritrovata senza vita nel suo letto, e il professor Kamper deve raccontare che cosa ha fatto nel corso della notte precedente sia alla polizia sia a sua moglie. Sono davvero in pochi a crederlo innocente: tra questi la giornalista Karin Sommer, disposta a giocarsi anni di credibilità professionale per ribaltare la sentenza. La sua ricerca è tutta controcorrente, per di più in una Copenaghen sconvolta dagli episodi di violenza che una fantomatica Amazzone va compiendo di pari passo con le notizie di cronaca nera: per ogni violenza su una donna, un atto di violenza su un uomo, per ogni femminicidio, un uomo morto. Quello dell’Amazzone è un disegno programmatico, probabilmente condiviso da altre donne che odiano gli uomini: così potrebbe intitolarsi questa crime story al femminile, ambientata in una città che dietro i ritrovi alla moda e gli scorci da cartolina nasconde mille ombre e inquietudini.
LanguageItaliano
Release dateApr 2, 2014
ISBN9788897012566
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    Bastarde - Gretelise Holm

    le stelle

    Titolo originale

    Møgkællinger

    Gretelise Holm

    BASTARDE

    traduzione di Bruno Berni

    © 2010 Gretelise Holm & C&K Forlag ApS

    © 2012 Lantana editore srl

    In copertina: elaborazione grafica di Valentina Cassano

    Ricerca iconografica di Alessandra Gambetti

    La traduzione di questo libro è stata finanziata

    dal Danish Art Council Committee for Literature

    ISBN: 978-88-97012-56-6

    www.lantanaeditore.com

    Premiata dalla Danish Academy for Crime Fiction

    Le relazioni clandestine tra studentesse e professore sono sempre rischiose, ma questa volta le cose sono andate davvero male: Rebekka è stata ritrovata senza vita nel suo letto, e il professor Kamper deve raccontare che cosa ha fatto nel corso della notte precedente sia alla polizia sia a sua moglie. Sono davvero in pochi a crederlo innocente: tra questi la giornalista Karin Sommer, disposta a giocarsi anni di credibilità professionale per ribaltare la sentenza. La sua ricerca è tutta controcorrente, per di più in una Copenaghen sconvolta dagli episodi di violenza che una fantomatica Amazzone va compiendo di pari passo con le notizie di cronaca nera: per ogni violenza su una donna, un atto di violenza su un uomo, per ogni femminicidio, un uomo morto. Quello dell’Amazzone è un disegno programmatico, probabilmente condiviso da altre donne che odiano gli uomini: così potrebbe intitolarsi questa crime story al femminile, ambientata in una città che dietro i ritrovi alla moda e gli scorci da cartolina nasconde mille ombre e inquietudini.

    BASTARDE

    Furono in molti a vedere la Morte baciare lo Scheletro dietro la mostruosa ragnatela nell’angolo, ma demoni, diavoli e zombi non si scandalizzarono. Le storie fra insegnanti e allievi erano più la regola che l’eccezione alle feste dell’università popolare di Skovholm. In seguito streghe, maghi, boia e pipistrelli avrebbero ricordato proprio quel bacio dietro la ragnatela, durante gli interrogatori della polizia.

    Il comitato della festa si era impegnato al massimo per l’organizzazione di Halloween, all hallows’ evening, che nello spirito danese era stato chiamato la Festa di Ognissanti. L’aula magna dell’istituto era stata decorata dal corso di creatività con scene di morte e altre cose orribili: ragnatele e muco, crani e parti di scheletri, ragni e pipistrelli, croci e forconi, gufi e ratti. Lo stesso tema veniva ripreso dal buffet, per il quale il corso di cucina aveva bollito, arrostito e infornato parti di cadaveri, ali di pipistrelli, rigurgito di gufi e cervello nel pentolone della strega.

    Tutti si erano impegnati nel travestimento e non sarebbero stati identificabili, se non fosse che vivevano talmente a stretto contatto che si riconoscevano dalla voce e dai gesti. Perciò tutti sapevano che se la Morte baciava lo Scheletro, allora era l’insegnante di scienze sociali e media, Jonas Kamper, che baciava Rebekka, quella ragazza così divertente e popolare che veniva dallo Jutland meridionale. E pace se Rebekka aveva un ragazzo da qualche parte nello Schleswig e Jonas una moglie, anche se non era presente, perché questo corso dell’università popolare aveva rifiutato con decisione l’ondata neopuritana di indignazione morale per le azioni altrui.

    L’aula magna era scarsamente illuminata da candele nere e da poche lampade coperte di ragnatele, e la musica era dello stesso genere: cupa, demoniaca, satanica. Le coppie ballavano strette l’una all’altra e dietro il bancone del bar il diavolo col suo forcone versava vino e birra alla spina, per mantenere viva l’atmosfera di festa. Una strega e uno stregone ballavano stretti. Uno zombie e un angelo nero caddero l’uno sull’altro fra grandi risate, e un boia e un fantasma cercarono un po’ di privacy in uno dei corridoi dell’istituto, per poi tornare avvinghiati, coi capelli arruffati e i costumi in disordine. Si era formata una coppia. Tutti conoscevano tutti e si sentivano sicuri e contenti. La festa era bella, il letto era vicino. Il corso della serata avrebbe mostrato con chi eventualmente condividerlo...

    Verso mezzanotte gli insegnanti cominciarono a ritirarsi, mentre una strega sexy e un Dracula tenevano d’occhio la Morte e lo Scheletro. Dracula era infatti segretamente innamorato dello Scheletro, mentre la strega aveva puntato la Morte, che purtroppo quella sera aveva dimostrato di avere altre preferenze. Ma la Morte e lo Scheletro riuscirono a scomparire senza farsi notare, e poi Dracula e la strega sexy si consolarono risolutamente l’uno con l’altra. Poi tornarono alla festa… ciascuno per conto suo e col volto deluso.

    Gli ultimi due zombi e un solitario vampiro conclusero la festa solo alle sette del mattino. Ma il vampiro si era sfilato già da un pezzo la calda maschera di latex, rivelando di essere Kristine, la compagna di stanza di Rebekka.

    Rebekka e Kristine condividevano la stanza in fondo all’ala degli allievi, quella che si spingeva verso il bosco. La notte fra ottobre e novembre, quando verso l’una uscì dall’edificio centrale per prendere una scorciatoia attraverso il parco, Rebekka aveva freddo col suo costume da Scheletro. La maschera fosforescente sulla lingerie nera riluceva al chiarore dei lampioni dell’ingresso principale, ma pochi passi più in là la notte era scura. Rebekka non era affatto preoccupata. Era contenta e piena di aspettative, innamorata e ubriaca. La relazione con Jonas, che durava da due mesi, era così segreta che non ne sapeva niente nemmeno Kristine... per riguardo a lui e al suo matrimonio. Ma questa sera l’aveva abbracciata e baciata davanti a tutti, e fra poco sarebbe andato da lei.

    Tre piccoli colpi alla porta e aprì, con il suo Scheletro fosforescente, e tirò la Morte dentro la stanza. Girò la chiave e la lasciò nella toppa. Era il segnale nel caso in cui, contro ogni aspettativa, fosse arrivata la sua compagna di stanza. Ci si organizzava così, quando si condivideva la camera e allo stesso tempo si voleva avere una vita privata.

    Non parlarono molto, ma si strinsero disperatamente crollando intrecciati sul piccolo letto. Pochi secondi dopo si erano liberati dei costumi da Halloween, la cappa e la falce della Morte sul pavimento.

    «Quando devi andare via?», chiese lei dopo.

    «Non ha molta importanza. Sara è andata a fare visita alla madre, ma sono le due e Kristine dovrà pur dormire, no?»

    «Non andartene finché non sono addormentata», gli mormorò all’orecchio.

    «No», rispose lui, e con voce dolce e sensuale le cantò la ninna nanna dell’elefante.

    La cantilena funzionò, insieme all’alcol. Rebekka si rese conto di essere sul punto di addormentarsi quando la raggiunsero i pensieri surreali, nel territorio di confine fra il sonno e la veglia, piccoli diavoli con le corna che marciavano in fila indiana lungo le rive di un fiume per catturare i pesci. Si svegliò perché uno dei pesci boccheggiava in cerca d’aria, e scoprì di essere lei stessa a provare a respirare. Qualcosa le stringeva la gola, non riusciva a parlare né a muoversi, perché qualcuno era seduto a cavalcioni su di lei e la immobilizzava. Per un istante fu presa dal panico, cercò di agitare gambe e braccia, ma poi si addormentò di nuovo. Per sempre.

    Kristine, ventuno anni, era di Hanstholm e pensava che il soggiorno all’università popolare dovesse rappresentare la fase del divertimento prima della vita adulta e di una formazione da infermiera. Si era conquistata la fama di essere una delle maggiori festaiole, e per tutta la notte aveva tenuto fede alla sua reputazione finché, verso le sette del mattino, barcollando si era diretta verso la stanza, attaccata a una birra bevuta per metà. Era ancora buio e non era tanto ubriaca da non avere riguardi. In genere lasciavano la porta aperta quando una delle due doveva ancora rientrare, perciò Kristine aprì piano ed entrò di soppiatto per non svegliare Rebekka, poi si lasciò cadere sul letto senza accendere la luce. Aveva ancora indosso il vestito da vampiro fatto in casa, completo di cannuccia per succhiare il sangue, e cadde in un sonno profondo.

    Quattro ore dopo si svegliò con un impellente bisogno di fare pipì, e solo in quel momento scoprì cosa era accaduto alla sua compagna di stanza. Rebekka era coperta dal piumino fino al mento, ma aveva il volto livido, gli occhi sbarrati e sporgenti, la lingua le usciva a un angolo della bocca. Kristine sollevò il piumino e scoprì una cintura da accappatoio verde oliva stretta al collo. Grazie alle sue nozioni da infermiera sciolse il laccio al collo, controllò le pulsazioni e constatò che era sopravvenuta la morte. Poi telefonò ai soccorsi.

    Solo successivamente si concesse di essere scioccata. Si precipitò in bagno, lo stomaco si contrasse, defecò e vomitò contemporaneamente. Si alzò con la testa che le girava e scivolò sul vomito, e l’abito da vampiro si sporcò, ma si sentiva troppo male e troppo scossa per fare qualcosa. Restò seduta a terra con la schiena poggiata alla cabina doccia ad aspettare. Per un istante aveva pensato di aprire la porta e chiamare aiuto, ma il suo buon senso tipico dello Jutland le ordinò di tenere la porta chiusa a chiave finché non fosse arrivata la polizia.

    «Ogni scena del delitto racconta una storia nuova, e questa storia è variopinta», pensò il capo delle indagini, il dirigente di polizia Halfdan Thor, quando quella domenica pomeriggio guardò l’aula magna dove allievi e insegnanti erano stati riuniti per un orientamento. L’intera sala era devastata da un’atmosfera di morte e atrocità, la maggior parte dei presenti aveva l’aria pallida e stanca. Alcuni indossavano ancora completamente o in parte i costumi carnevaleschi.

    La voce del direttore Jan Blovstrød tremava:

    «È successo qualcosa di terribile nell’istituto, stanotte o questa mattina presto. Rebekka Madsen è morta...»

    Si fermò e rivolse a Thor uno sguardo interrogativo, poi si rese conto che doveva dire qualcosa di più e di diverso:

    «Rebekka Madsen era una brava ragazza, piena di gioia di vivere, benvoluta da allievi e insegnanti, perciò ricordiamola tutti con un minuto di silenzio».

    Fino a quel momento c’era stato un silenzio opprimente, il messaggio del direttore generò sospiri e pianti fra le persone riunite, circa cinquanta.

    «E poi voglio dare la parola al dirigente di polizia Halfdan Thor», disse il direttore, e si soffiò il naso toccandosi nervosamente il pizzetto.

    «Rebekka Madsen è stata trovata morta nella sua stanza un paio di ore fa, stiamo indagando sulla possibilità che sia stato commesso un delitto. Perciò dobbiamo stabilire cosa è avvenuto qui stanotte. Vogliamo chiedere a tutti di rimanere nell’edificio finché non avrete parlato con uno dei nostri...», fece una pausa, perché il resto andava detto con un certo tono: «C’è anche un’altra cosa di cui voglio pregarvi. Da quanto abbiamo capito, questa notte sono state scattate molte foto con i cellulari, perciò voglio invitarvi a infilare il vostro telefono in una di queste bustine scrivendo il nome sull’adesivo. Questo vale sia per gli allievi sia per i dipendenti presenti alla festa».

    Indicò le bustine sul tavolo davanti a lui.

    Samir, detto «il bello», alzò un dito:

    «Si può fare una domanda?»

    Halfdan Thor annuì: «Naturalmente».

    «Ci sequestrate i cellulari?»

    «Non in senso giuridico. Per ora vi chiediamo solamente di aiutarci. Ma se si rivelasse necessario potremmo ottenere un mandato. Qualcuno non vuole che controlliamo il suo telefono?»

    La domanda sembrò fare effetto: la scelta era fra consegnarlo spontaneamente o essere costretti a farlo. Lo consegnarono tutti, ma Samir aveva l’aria irritata quando infilò il suo cellulare nella bustina. Thor notò quel giovane restio che parlava danese come se fosse la sua lingua madre, ma che dall’aspetto sembrava avere radici in un’altra parte del mondo.

    Continuò con le disposizioni pratiche:

    «I tecnici hanno isolato l’ala dove Rebekka Madsen è stata trovata morta...»

    Evitò volutamente la parola «uccisa», perché nella storia della medicina legale c’erano esempi isolati di suicidio con un soffocamento simile, perciò bisognava attendere l’esame del medico.

    «Vi chiediamo di rimanere per quanto possibile nelle vostre stanze finché non sarete interrogati, ma potete mangiare come al solito, e potete utilizzare anche la biblioteca e il soggiorno nell’edificio principale. Semplicemente preferiamo non dovervi cercare in giro per i laboratori e le aule», disse, e concluse: «C’è una sola domanda che voglio farvi ora che siete riuniti qui: qualcuno di voi ha visto gente di fuori – ovvero persone che non sono dipendenti o allievi – nel corso della serata, della notte o nelle prime ore del mattino?»

    Alcuni risposero di no. I restanti scossero la testa collettivamente. Questo ridusse il campo d’indagine ai quarantadue allievi e dodici dipendenti che avevano partecipato alla festa di Halloween. O forse no? L’università popolare di Skovholm era isolata, certo, ma un estraneo, senza farsi notare, avrebbe potuto attraversare il bosco fino all’estremità dell’ala degli allievi in cui Rebekka Madsen aveva condiviso la stanza con Kristine Rasmussen.

    Con i rinforzi del centro nazionale investigazioni della polizia, i circa venti poliziotti e specialisti della scientifica stavano eseguendo gli interrogatori e raccogliendo le tracce sul luogo del delitto. Già quella stessa sera avevano un quadro della situazione. Il medico legale stabilì nel suo primo referto che si trattava senza dubbio di un omicidio. La cintura era stata stretta così forte che era impensabile che la causa della morte fosse il suicidio, e a questo si aggiungevano i marcati segni di pressione sulle braccia della vittima. La ragazza era stata chiaramente immobilizzata. Il momento della morte veniva fissato provvisoriamente fra l’una e le quattro di notte, ma in seguito sarebbe stato possibile stabilirlo con maggiore precisione.

    Stavano anche cominciando a comprendere lo sviluppo della serata e quali persone si nascondevano dietro i costumi visibili sulle molte foto dei cellulari che lo specialista informatico stava trasferendo sul pc. La gran parte degli allievi e dei dipendenti aveva festeggiato in grandi o piccoli gruppi e poteva fornirsi reciprocamente un alibi. Altri avevano passato tutta la notte con fidanzati o compagni di stanza. Quasi tutti gli insegnanti e gli altri dipendenti avevano lasciato la festa già verso mezzanotte, in compagnia dei coniugi che erano venuti a prenderli o tornando a casa a piedi nei loro alloggi sulla Højskolevej, dove ad accoglierli in quelle ore critiche c’erano i loro conviventi.

    Era stato stabilito con una certa sicurezza che la ragazza aveva lasciato la festa verso l’una, e l’esame del suo cellulare fece concentrare l’interesse su Samir Urduvan, che le aveva inviato tre sms fra le ventuno e l’una. Erano messaggi sottintesi e criptici, ma facevano supporre che i due fossero più che semplici compagni di studi. Samir era vestito da Dracula e compariva sulle foto della festa fino alle due. Ma dopo quell’ora erano state scattate pochissime fotografie, perciò alla sua assenza non poteva essere attribuito molto significato. Samir Urduvan fu il primo a essere chiamato per il secondo interrogatorio, e Halfdan Thor era seduto anche lui al tavolo. Erano quasi le ventidue e Samir era chiaramente stanco e irritato.

    «Ah, allora dovete parlare un’altra volta con me perché ho la pelle un po’ più scura della maggior parte degli altri?», disse in tono aggressivo.

    «No, dobbiamo parlare con te perché hai mandato tre sms a Rebekka Madsen ieri sera. Cosa significa quando scrivi: xké nn cvd?».

    «Significa quello che c’è scritto», rispose lui scontroso.

    «Perché non ci vediamo?», lesse un giovane ispettore.

    Samir annuì e guardò i poliziotti come se fossero degli idioti.

    «Ma Rebekka non ti ha risposto e all’una ha lasciato la festa. Tu cosa hai fatto?», chiese Thor.

    «Mi sono chiuso con Lisbeth Vestergaard nello stanzino delle pulizie, un locale di questo edificio, sotto la scala principale che sale al primo piano. Poi sono tornato alla festa. Questo l’ho già raccontato».

    «Com’era il tuo rapporto con Rebekka? Stavate insieme, in un certo senso?»

    «Avevamo fatto sesso una volta. Nessuno di noi voleva un rapporto fisso, ma non per questo uno non si può irritare quando lei fila con un altro proprio davanti ai tuoi occhi».

    «E quell’altro chi era?»

    «Lo sanno tutti, Jonas Kamper. Insegnante di scienze sociali e media. Non riesce a tenersi il cazzo nei pantaloni. Chiedete a Lisbeth. È stata la prima della nostra classe, e probabilmente aveva contato di farselo ieri sera, ma il suo costume da strega del sesso non ha funzionato a dovere».

    «È normale che insegnanti e allievi facciano...»

    Halfdan Thor non andò oltre, perché Samir esclamò:

    «Tutti si danno da fare in lungo e in largo, alcuni insegnanti sono peggiori di altri. E le ragazze gli si buttano ai piedi. È molto facile rimorchiare se sei insegnante...»

    «Quando hai lasciato la festa?»

    «Fra le due e le tre. Insieme a Maja e Karen. Mi sono addormentato nella loro stanza».

    Poi chiamarono Jonas Kamper per la seconda volta. Half­dan Thor notò che era un bell’uomo, dimostrava meno dei quarantatre anni che risultavano dalla sua scheda. Era alto circa un metro e novanta, snello e un po’ curvo, come se si piegasse per dimostrare cortese attenzione nei confronti delle persone più basse che lo circondavano. Aveva un volto sorridente e giovanile, il tipo d’uomo che somiglia a un ragazzo troppo cresciuto. Proprio a causa della sua altezza e del suo costume da Morte con la falce in spalla era stato facile riconoscerlo in molte foto. E nella maggior parte di esse, da qualche parte nelle vicinanze si vedeva lo Scheletro, Rebekka Madsen. Molti degli altri partecipanti alla festa li avevano visti baciarsi dietro la ragnatela, in un angolo dell’aula magna. Halfdan Thor partì dai baci, e Jonas rispose:

    «Non bisogna dargli molto peso. C’era una festa, ed è quasi nello spirito dell’università popolare baciarsi e abbracciarsi in certe occasioni».

    Thor gli fece una domanda diretta: «Lei aveva una relazione sessuale con la vittima?»

    «No di certo, sono felicemente sposato e vivo con mia moglie e i miei due figli qui all’istituto. A parte questo non ritengo che insegnanti e allievi...», si interruppe cercando le parole.

    Thor comprese il senso e continuò: «Quando ha lasciato la festa?»

    «Intorno all’una, e sono andato dritto a casa. La nostra casa è la prima della strada, quando si entra dalla statale. Ci vogliono cinque o dieci minuti ad arrivarci a piedi».

    Thor sfogliò il rapporto del primo interrogatorio: «E la sua famiglia non era a casa?», disse.

    «No, mia moglie e i bambini sono andati per il fine settimana da mia suocera a Næstved».

    «Da quanto tempo siete sposati?»

    «Da sette anni. Mia moglie è più giovane di me, ha trent’anni. E i nostri figli hanno tre e sei anni».

    Thor fissò a lungo, in silenzio, l’uomo che aveva di fronte. Un trucco psicologico che avrebbe dovuto renderlo insicuro. Jonas si grattò la testa e chiese con un sorriso sghembo, che sembrava affettato:

    «Insomma, sono sospettato di qualcosa?»

    «Lei è uno dei pochi che non hanno un alibi confermato per la notte», rispose Halfdan Thor e lo lasciò andare.

    Non dirlo a nessuno, Linda, perché altrimenti rischio di essere rinchiusa di nuovo, ma penso che dovremmo castrare un uomo a ogni violenza che avviene. Gli uomini devono imparare, come le donne, a non sentirsi mai sicuri, mai completamente liberi.

    La violenza limita la possibilità di azione e la libertà di movimento di tutte le ragazze e di tutte le donne. Non abbiamo il coraggio di attraversare il bosco da sole, non abbiamo il coraggio di uscire di notte, ci sentiamo insicure in certi quartieri e non dobbiamo mai abbassare la guardia quando viaggiamo. Nemmeno con i nostri amici, fidanzati e mariti possiamo sentirci sicure. Non dobbiamo mai metterci in determinate situazioni e mai comportarci o vestirci in modo che gli uomini siano tentati di farci violenza.

    Nello stesso modo il concetto di castrazione potrebbe insegnare agli uomini a non andare mai da soli nei locali. Mai muoversi al buio e in posti deserti. Mai accettare con leggerezza la compagnia di donne, né tantomeno andare a casa di una sconosciuta. Perché allora gli si potrà dire che avrebbero potuto pensarci bene, e che in quel modo avevano loro stessi la colpa di essere stati castrati.

    Nessun uomo deve sentirsi mai sicuro, ma soprattutto ragazzi e uomini giovani. Questo corrisponderà al fatto che a essere violentate sono prevalentemente le ragazze e le donne giovani.

    Dobbiamo scegliere quelli che fanno particolarmente mostra della loro virilità. Gli uomini che appaiono spavaldi e provocanti.

    La violenza è un delitto quasi impunito in Danimarca. Solo un quinto delle violenze denunciate porta a una condanna. Nel 60 per cento dei casi di aggressione in cui un presunto colpevole viene catturato, l’accusa non procede all’azione legale perché considera insufficienti le prove. Infatti le parole di un uomo contano più di quelle di una donna.

    Amnesty International ha criticato lo Stato danese perché non difende i diritti umani delle donne, lasciando in pratica che la maggior parte delle violenze non porti a una condanna. Ho qui davanti a me la lettera mandata dall’organizzazione al ministro della giustizia tre anni fa:

    «È una violazione dei diritti umani quando lo Stato trascura il suo dovere di mostrare tempestiva attenzione nel difendere le donne contro le aggressioni sessuali, indagare sui delitti e perseguire i presunti colpevoli. Le vittime di aggressioni a sfondo sessuale hanno diritto a una efficace protezione legale, a un giusto processo e alla soddisfazione. Si tratta di una particolare categoria di delitti che gli uomini compiono contro le donne, e che a causa della procedura di accusa molto restrittiva, in realtà rimane spesso impunita».

    Ma il governo non ha fatto niente, e perciò dobbiamo prendere le armi per prime, Linda, e allo stesso tempo dobbiamo essere preparate al fatto che lo Stato proteggerà gli uomini e che si impegnerà in ogni modo per catturarci e punirci.

    Ho pensato molto a come procedere nella pratica.

    A lunga scadenza ritengo che dobbiamo avere un normale servizio militare per le donne, in modo che le giovani vengano addestrate all’uso delle armi, alla violenza e all’omicidio come accade per i ragazzi. Nell’immediato dobbiamo esortare tutte le giovani donne a presentarsi volontarie al servizio militare.

    Castrare gli uomini, che sono fisicamente più forti, richiederebbe armi oppure collaborazione, come nelle violenze di gruppo degli uomini.

    Io sono la lupa solitaria che preferisce lavorare da sola e con le armi. Solo tu, Linda, dovrai essere al mio fianco, come mio angelo custode. Mi sto procurando una pistola a questo scopo. Internet offre diverse possibilità, e quanto spesso capita che venga controllato il bagaglio di una signora perbene che torna da un viaggio organizzato?

    Sara Kamper mandò a letto i bambini, mise su l’acqua per il tè e tirò fuori dalla borsa un blocco di compiti in classe. Insegnava in una nona classe e doveva riportare loro i compiti corretti un paio di giorni dopo. Provò a concentrarsi sul lavoro, ma dovette rinunciare. Si era vista arrivare a casa sua la polizia, e lei aveva rilasciato la propria dichiarazione:

    «Per il fine settimana sono stata da mia madre, che abita a Næstved, e sono tornata a casa con Sille e Simon solo oggi alle diciotto. No, non ho parlato al telefono con Jonas ieri sera né questa notte. Con un lavoro a tempo pieno e due figli piccoli, la notte ci si abitua a dormire».

    Guardò l’orologio. Quasi le ventidue, e Jonas non era ancora tornato a casa. Poi accese il televisore con l’ultimo notiziario.

    «Un’allieva ventiduenne è stata trovata uccisa oggi dopo una festa all’università popolare di Skovholm...»

    Terminato il servizio spense di nuovo la tv, mezz’ora dopo sentì finalmente arrivare Jonas. Aveva l’aria stanca e segnata, ma il suo saluto fu insolitamente caloroso. La strinse a sé e disse:

    «Tesoro, quanto mi sei mancata. Devi sapere che tu significhi tutto per me. Tu e i bambini».

    «È terribile, ciò che è successo...», rispose lei. «Come è stata uccisa?»

    «Soffocata in qualche modo, ma la polizia non ha rivelato i dettagli. Credo sia normale».

    «Quanto bene la conoscevi?»

    Sara lo guardò.

    «Lo sai, tutti

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