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Di Sangue e Di Sogno: Le Querce possono aspettare
Di Sangue e Di Sogno: Le Querce possono aspettare
Di Sangue e Di Sogno: Le Querce possono aspettare
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Di Sangue e Di Sogno: Le Querce possono aspettare

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About this ebook

In Nicaragua, nel 1982, un gruppo di giovani volontari per la raccolta del caffè si conosce nei campi, approfondendo l'amicizia e facendo nascere nuovi amori. Eleonora e Luciano, italiani, si uniscono a Ulrike e Andreas per una vacanza estemporanea, che sancirà il loro comune sentire in un idillio vacanziero del tutto fuori dal tempo. Ma quando si torna a dare una mano alle popolazioni indigene, sconvolte dalla lotta contro i Contras, sostituendosi nei campi ai maschi (andati in guerra), la realtà torna prepotentemente a farsi sentire, e a distruggere le loro vite con la violenza indiscriminata che può scatenarsi nella foresta. Gli eventi precipitano, e l'unica alternativa realmente percorribile è tornare in Europa, a leccarsi le ferite e a riallacciare rapporti umani, familiari e amicali, fatalmente interrotti, con persone che difficilmente potranno capire ciò che è successo in centroamerica. Finché a distanza di anni giungerà inatteso il momento della vendetta. Un romanzo di inaspettata intensità, tra spionaggio, vita normale e amori la cui gestione non può che essere molto, molto difficile.
LanguageItaliano
Release dateSep 25, 2014
ISBN9788899091033
Di Sangue e Di Sogno: Le Querce possono aspettare

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    Di Sangue e Di Sogno - Graziano Turrini

    PARTE PRIMA

    Lottavano così, come si gioca,

    i cuccioli del Maggio, era normale:

    loro avevano il tempo

    anche per la galera

    ad aspettarli fuori rimaneva

    la stessa rabbia, la stessa primavera.

    Fabrizio De Andrè

    CAP. 1

    Aprile 1982, Nicaragua, VI Regione, Kusulì

    «Veronica! Altre bende, presto!»

    «Quelle che hai in mano sono le ultime…»

    «No, no, guarda nello scatolone, là in fondo, dove c’è scritto Roma…»

    La suora corse ansimando all’altro lato della stanza, aprì in tutta fretta il pacco sigillato con la carta postale marrone e tornò con altre due confezioni di garze sterili. Sul bancone di legno il ragazzo mugugnava, stringendo tra i denti un fazzoletto imbevuto di Ron Plata; la ferita alla gamba era stata suturata da Eleonora a regola d’arte, ed aveva già smesso di sanguinare. Mentre lo disinfettava, l’infermiera lo faceva parlare per tenerlo sveglio.

    «Sei stato fortunato, soldato. Il proiettile è uscito da solo e non c’è stato bisogno di torturarti andandolo a cercare tra le tue cosce…» Si interruppe un attimo, poi sorridendo: «Chissà cosa avremmo potuto trovare!»

    Il ragazzo comprese in ritardo l’ironia della chela, e non ebbe nemmeno il tempo di arrossire.

    «Come ti chiami? Dai, parlami, ché adesso il peggio è passato. Quanti anni hai? Da dove vieni?.»

    «Juan… sono Juan Barradiaga, di Los Mangos… della comunità Los Mangos, ed ho diciassette anni. Ma… come sta Camilo?»

    Camilo era il suo compagno. Al villaggio, erano di guardia loro due quando era iniziato l’attacco dei contras, fulmineo e vigliacco come sempre; arrivarono in una decina, con uniformi lucide e fucili mitragliatori nuovi di zecca, recenti forniture degli yanquis. Erano entrati da sud, probabilmente di ritorno da qualche altra scorribanda, mentre le due sentinelle stavano sorvegliando il sentiero nord, quello che portava alla frontiera con l’Honduras, dove i primos, i cugini, come venivano chiamati, avevano le basi. Erano entrati nel villaggio ed avevano iniziato a sparare a casaccio, alcuni per aria ed altri ad altezza d’uomo; avevano colpito due donne che stavano impastando tortillas, ed il secchio di latta pieno d’acqua di un bambino, che si era messo a correre gridando. Camilo era stato il primo ad accorgersi di quello che stava succedendo e si era precipitato verso la campana della cappella per dare l’allarme; Juan subito dietro, a protezione del compagno, sparando brevi raffiche di Kalashnikov in direzione degli assalitori. Fu la velocità, dettata dalla paura, a permettere loro di arrivare alla fune ed iniziare a tirarla, diffondendo i rintocchi per tutta la vallata. In lontananza sulla collina, quasi subito, si erano uditi i tre colpi secchi di fucile della pattuglia che era uscita in perlustrazione: avevano sentito! Si trattava di resistere pochi minuti e gli altri compagni sarebbero arrivati.

    Il fuoco dei contras si era allora concentrato sui due ragazzi. Juan, colpito alla coscia, si era afflosciato a terra. La seconda raffica aveva centrato in pieno Camilo che, lasciata la corda della campana, era caduto sul corpo del compagno, coprendolo a difesa dei proiettili che continuavano ad arrivare. Juan aveva perso i sensi, e questo gli aveva salvato la vita: gli assalitori, credendoli entrambi morti, avevano appiccato fuoco alle prime capanne e si erano dati alla fuga. La pattuglia sandinista, rientrata poco dopo, si era subito suddivisa; quattro soldati erano rimasti a dare una mano a spegnere l’incendio e gli altri si erano messi in caccia dei fuggitivi, inseguendoli nella foresta.

    Adesso nel villaggio era tornata la calma. Dopo l’iniziale confusione di voci, grida e movimenti, la situazione si era normalizzata; i bambini avevano ripreso i loro giochi e le donne stavano dando assistenza alle compagne che erano rimaste contuse o ferite. Lontano, sul versante opposto del monte, cominciarono gli spari; di sicuro li avevano raggiunti ed era iniziata la battaglia. E tutti al villaggio pensarono che per i contras non c’era scampo, perché la pattuglia inseguitrice era guidata da Beatriz. Al ritorno avrebbero portato fucili nuovi, munizioni e mimetiche, e Beatriz sarebbe andata al fiume…

    «Purtroppo Camilo non ce l’ha fatta, Juan» gli rispose suor Veronica, «ma è stato coraggioso, come te. Poco dopo che avete suonato la campana sono arrivati i vostri compagni ed i contras sono fuggiti. Grazie a voi due, che non avete avuto paura ad affrontarli, ci sono stati pochi danni. Hanno colpito di striscio doña Lidia e sua figlia, ma non sono gravi.»

    Il ragazzo si commosse. Ebbe un tremito nel corpo ed alcune lacrime gli rigarono le guance; era orgoglioso di quello che aveva fatto, ma il costo era stato troppo grande per lui: la morte di Camilo.

    «Camilo era come un padre per me» singhiozzò. Poi si riprese. «Quello vero l’ho conosciuto molto poco perché era sempre in giro per i villaggi ed ogni tanto tornava a casa. Mia madre diceva che andava a vendere il riso e parlare con la gente; poi, un giorno, io avevo quasi dieci anni, quelli della Guardia Nazionale sono venuti a prenderlo, e nessuno lo ha più rivisto.»

    La suora fece bere un sorso d’acqua al ragazzo e gli deterse la fronte dal sudore. Juan recuperò fiato e proseguì il racconto.

    «Un anno fa Camilo passò dal mio villaggio e mi raccontò chi era stato veramente mio padre. Si chiamava Aureliano, ma per i suoi compagni era Celestino, per il colore degli occhi; Celestino è diventato il suo nome di battaglia ed il suo compito era quello di raccogliere informazioni sui movimenti della Guardia Nazionale per poi passarle alla guerriglia. Ed è quello che ha fatto finché lo hanno scoperto. Camilo mi disse che mio padre probabilmente aveva fatto l’ultimo volo in elicottero sopra Waslala e che adesso toccava a me prendere il suo posto, che avevo sedici anni, che ero un uomo e che la patria aveva bisogno di me. Sono entrato nell’Esercito e, da allora, sono rimasto giorno e notte sempre con Camilo. Lui mi ha insegnato tutto…»

    «Basta così, ora riposati» lo fermò Veronica. «Domani ci racconterai tutto. Ma adesso hai bisogno di dormire.»

    Eleonora, uscendo dalla stanza, fece segno alla suora che l’avrebbe aspettata sul patio per fumare una sigaretta. Suor Veronica ripose le bende ed il disinfettante negli scaffali e raggiunse la sua compagna. Aveva iniziato a piovere un’altra volta e, sedute sulle amache appese ai pali di sostegno della veranda, potevano osservare la vita del villaggio, i giochi dei bambini, il fumo delle cucine delle donne, il viavai incessante dei soldati: erano tutti talmente abituati a questi cambiamenti repentini del tempo che per loro era ormai indifferente che ci fosse il sole o piovesse. La loro vita era fatta anche di sole e pioggia, di polvere e di fango.

    «Sei stanca?»

    «Sì, ma non fisicamente» rispose Eleonora. «Di notte dormo bene e mi sono ormai abituata all’amaca ed alle zanzare. Sono solo stanca di vedere la gente che muore ammazzata, questi mezzi bambini e mezzi uomini, feriti, sanguinanti, senza nessun futuro se non quello di avere un fucile in mano…»

    «Non devi farti coinvolgere» la interruppe Suor Veronica. «La nostra è una missione: siamo qui per tentare di ridurre al minimo la sofferenza di questa gente, non per capire.»

    «Eh, è facile per te. Tu hai la fede che ti sorregge. E delle aspettative che vanno oltre questa vita. Ma io non riesco a sopportare tutta questa ingiustizia, questa crudeltà, questa brutalità. A volte mi chiedo perché sono venuta qui. Quando sono partita dall’Italia ero piena di sogni, di belle speranze. Si parlava di Rivoluzione, e di questa Rivoluzione, della Rivoluzione Sandinista. Con i compagni, all’Università, passavamo ore a discutere su cosa potevamo fare in Italia; in alcuni di loro c’era solo rassegnazione, ma la maggior parte aveva voglia di fare, di essere parte attiva di un possibile cambiamento. La scelta era tra tentare di portare avanti la rivoluzione in Italia o di appoggiarsi ad una già fatta; è per questo che sono venuta in Nicaragua. Qui c’era un popolo intero che aveva sconfitto una dittatura, si respirava aria di vera democrazia. Forse sono stata un’illusa nel credere che gli Stati Uniti potessero permettere lo svilupparsi di un simile contagio agli altri Paesi del Centroamerica, però non mi aspettavo tutti questi massacri, questa violenza gratuita, questa lotta tra fratelli…»

    Eleonora si sollevò dall’amaca e fece un paio di passi verso il cortile. Gettò la sigaretta e sporse la mano fuori dalla tettoia. La pioggia adesso cadeva più forte di prima e non c’era un filo di vento, segno che sarebbe durata almeno per un’altra ora, ma l’attività nel villaggio continuava come se nulla fosse. Lo sguardo della ragazza, che si era illuminato mentre guardava il cielo, si fece più cupo al ricordo di una frase del ragazzo ferito, che le aveva lasciato dentro una sensazione di disagio, quasi di paura di non voler sapere. Ma la curiosità fu più forte.

    «A proposito, cosa intendeva dire prima Juan quando ha parlato dell’ultimo volo in elicottero?»

    Suor Veronica la guardò fissa negli occhi: nella loro limpidezza vide l’innocenza della giovinezza e provò una sorta di pena per lei.

    «Non te ne hanno mai parlato, vero?» le chiese, alzandosi anche lei e portandosi al fianco di Eleonora. «Me lo immaginavo. La gente non parla volentieri di queste cose perché per parecchi di loro è ancora una ferita aperta. Il problema dei desaparecidos non riguarda solamente il Cile e l’Argentina, perché quella di far sparire le persone è diventata una pratica comune in tutti i Paesi dell’America Latina governati da dittature di vario genere. Anche qui in Nicaragua, soprattutto negli ultimi anni del somozismo, quando ormai il Frente Sandinista si era ben radicato tra la popolazione, venne spesso utilizzato questo sistema: le persone sparivano e non se ne sapeva più niente; a volte erano arrestate, altre volte venivano semplicemente prelevate dalla strada; comunque, di loro non si aveva più nessuna notizia.»

    Con un cenno del capo indicò le montagne a sud. «Vedi là in fondo, dove comincia a schiarire? Là c’è Waslala. Se non hai fatto l’altra strada, quella di Estelì, per venire quassù sei passata per forza da Waslala. È da là che si vedevano volare gli elicotteri della Guardia Nazionale carichi di prigionieri politici, di dissidenti del regime o di semplici contadini magari con l’unica colpa di avere un parente scomodo. Sorvolavano Waslala e, arrivati dove la foresta è più fitta, si liberavano del carico lanciandoli dall’elicottero.»

    «Ma è orribile!» esclamò Eleonora con un sussulto e gli occhi sbarrati.

    «Sì, è orribile» riprese la suora. «Ma quel che è peggio è che se alcuni, provenendo dalle carceri dov’erano stati torturati, erano già morti, la maggior parte di loro era ancora viva. Appena sentivano il rombo dell’elicottero, dalle comunità più vicine partivano verso il Cerro de la Muerte, per vedere se riuscivano a trovare qualche sopravvissuto o identificare qualche cadavere, per poter poi dare la comunicazione ai familiari in modo che si mettessero l’animo in pace. Ma il più delle volte erano tentativi inutili.»

    «Tu ci sei stata, vero Veronica? Sei andata con loro?.»

    «Sì, una volta.» La suora rimase in silenzio per pensare se valeva la pena di raccontare alla ragazza quello che aveva visto: i corpi smembrati, i visi sfigurati, i segni delle torture, i pianti della gente, la rabbia, la disperazione, la raccolta dei pezzi di cadaveri per dar loro una cristiana sepoltura… e decise che non era necessario ferirla ulteriormente. «Una volta sola» continuò, «poi non ce l’ho più fatta. Immagino che ti renda conto di cosa vuol dire portare i miei ottanta chili su e giù per quei sentieri, in mezzo alla foresta, con questo caldo asfissiante; al ritorno ho avuto il privilegio di fare un pezzo di strada a dorso di una mula, per riposarmi un po’. Ma da allora ho deciso che non ci sarei più andata…» E terminò sorridendo: «Non ho proprio il fisico adatto!»

    In effetti, Suor Veronica era in serie difficoltà in ogni suo movimento. Alta meno di un metro e cinquanta e decisamente sovrappeso, compensava queste sue limitazioni con una tenacia ammirevole ed una forza di volontà che poteva incutere timore a chi non la conosceva; ma la sua allegria ed il suo sorriso dispensavano serenità e buonumore tutt’intorno, facendola amare e rispettare già al primo incontro.

    «Adesso basta con queste cose tristi. Andiamo a berci un bicchierino di disinfettante.» Terminò la discussione prendendo per mano la ragazza ed invitandola a rientrare. Sul bancone il soldato ferito si era addormentato ed aveva iniziato a russare. La suora prese dalla mensola la bottiglia di Ron Plata già iniziata e si diresse nell’altra stanza, accanto al fuoco acceso, dove una donna stava cucinando i soliti fagioli neri.

    «Tieni, butta giù un sorso; ce lo meritiamo proprio» disse offrendo la bottiglia a Eleonora. «Anche se è una vera schifezza, è l’unico liquido che possa scaldare un po’ il cuore. Anzi, è quasi un peccato sprecarlo come disinfettante.»

    «Probabilmente la settimana prossima arriverà del vero disinfettante» la informò Eleonora. «Prima dell’ultima spedizione avevo chiesto ai ragazzi di Roma di mandarmelo, assieme ai farmaci principali: aspirine, clorochina, antidiarroici; ma sono arrivate solo le garze. Non è facile per loro recuperare tutto quello che ci serve, anche se mio padre ogni tanto li aiuta. E non è facile nemmeno la spedizione, perché le merci rischiano di fermarsi a Fiumicino o a Managua. La soluzione migliore è trovare qualcuno che venga in Nicaragua e li porti con sé, nascosti in qualche modo.»

    «Eh, lo so bene. Anche in Spagna abbiamo lo stesso problema, ma lo risolviamo in parte appoggiandoci alle Congregazioni di suore o a qualche parrocchia; in dogana chiudono un occhio più facilmente. Ma cosa dicevi di tuo padre? Fa parte anche lui di qualche associazione di solidarietà internazionalista?»

    «Ah ah ah!» La risata limpida e fragorosa di Eleonora stupì la suora, che si chiese cosa avesse detto di tanto buffo. Anche la cuoca si era voltata, indicando con un movimento delle labbra l’altra stanza, dove Juan stava dormendo.

    «Scusami Veronica, ma tu ovviamente non potevi sapere» riprese la ragazza abbassando la voce. «Abbiamo avuto così poche occasioni di parlare di me che non ti ho raccontato quasi niente. Mio padre è il professor Onorio Salvetti, primario di Chirurgia all’Ospedale Gemelli di Roma. È un luminare nel suo campo: se vuoi una visita privata da lui devi fare un mutuo. Figurati se può far parte di qualche associazione che non sia il circolo tennistico o il Country Club di Castelgandolfo. Anche suo padre, mio nonno Antenore, era medico; la nostra è una tradizione familiare, e questa era anche la strada che loro avevano tracciato per me. In effetti, mi ero iscritta a Medicina ma non sono durata più d’un anno. All’Università ho conosciuto un sacco di gente che mi ha fatto vedere un mondo al quale non ero abituata: dal mio piedistallo della buona borghesia non avevo quasi mai guardato oltre la famiglia, la scuola, il lavoro, la carriera, la posizione sociale, il benessere. Tutto quello che stava al di fuori sembrava non esistere. La povertà, le disuguaglianze sociali, le ingiustizie, i privilegi, facevano parte di un ordine quasi naturale delle cose. Per fartela breve: mollai Medicina e mi trasferii a Bologna dove mi iscrissi a Scienze Politiche. Per la mia famiglia fu uno shock molto forte; soprattutto per mio padre che, per sei mesi, non mi rivolse la parola. Fortunatamente mia madre, dopo lo smarrimento iniziale, appoggiò la mia scelta e continuò a finanziarmi gli studi. In quell’anno ho fatto anche la volontaria della Croce Rossa; è stato là che ho imparato quel poco che so in fatto di medicazioni ed interventi per traumi, non certo perché sia una vera infermiera. Ed è stato in quell’ambiente che ho sentito parlare di volontari partiti per l’Africa o per l’America Latina: persone normalissime che lasciavano il lavoro per qualche mese o per qualche anno per andare in altri Paesi a dare una mano dove c’era la vera sofferenza. Dopo un anno, perciò, decisi di sospendere gli studi anche a Scienze Politiche; mi aggregai ad un gruppo di ragazzi in partenza per la raccolta del caffè, ed eccomi qui con te.»

    «Lo trovo meraviglioso» disse la suora, che sembrava ad ogni momento del racconto sempre più attratta ed affascinata. «Cioè, trovo meraviglioso che esistano ragazze come te che…»

    «Ti prego, smettila» la troncò subito Eleonora imbarazzata, «non mi piacciono le lodi; soprattutto se vengono da una insaziabile golosa come te che ha l’unico scopo di portarmi via il mio piatto di gallo pinto che ci spetta per cena.»

    Adesso fu la suora a scoppiare a ridere. «Dai, proviamo a dare una mano a doña Maria per rendere meno monotona la nostra dieta anche se, temo, nemmeno stasera saranno previste varianti.»

    Il pentolone con i fagioli neri fumava già da tempo e sull’altro fuoco la cuoca aveva iniziato la cottura del riso; alla fine li avrebbe mescolati e fatti saltare in padella con mezza cipolla, ed il gallo pinto sarebbe stato pronto per essere la cena, la colazione del giorno dopo, il pranzo, e così via per tutti i giorni a seguire; il tutto, ovviamente, accompagnato da un paio di tortillas di maìs che avrebbero integrato l’apporto proteico.

    Dopo una mezzʼoretta di attesa, Eleonora prese un piatto e lo portò nell’altra stanza, al soldato-bambino che stava ancora dormendo. Lo scosse lievemente.

    «Svegliati Juan, che è ora di mangiare.» Lo aiutò a mettersi seduto e tornò dall’amica. «Bene, adesso possiamo buttar giù un boccone anche noi.» E si sedettero a tavola con la cuoca. Di solito questa era l’occasione per fare il resoconto della situazione con Padre Vinicio, ma quella sera il prete non presenziava: era andato in visita a Pozo Grande, una comunità che distava più di sei ore di cammino. Non potendo fare tutto il viaggio in una giornata, erano rimasti d’accordo che sarebbe ritornato l’indomani.

    Suor Veronica divorò con avidità la sua parte di gallo pinto e, prima di servirsi una seconda razione, chiese conferma a Eleonora di quanto aveva sentito. «Mi dicono che tra qualche giorno arriverà un altro chele; ne sai qualcosa?»

    Alla ragazza si illuminarono gli occhi. «Sì, non vedo l’ora. È Luciano, un compagno di Bologna; siamo partiti assieme dall’Italia per la raccolta del caffè e poi ci siamo separati. Io sono venuta quassù e lui è rimasto a San Ramon: non so se sia stato inserito nella campagna di vaccinazioni o cos’altro. Non ho più avuto sue notizie se non dei saluti che mi ha portato Padre Vinicio.»

    La suora rimase in silenzio: le informazioni che aveva avuto lei da Beatriz erano diverse, e non sapeva se avrebbero potuto turbare Eleonora. Aveva notato lo scatto di felicità della ragazza ed era stato facile immaginare che per lei il nuovo ragazzo significava qualcosa di più di un semplice amico.

    Chiacchierarono ancora un po’. Suor Veronica si fece trasportare dai ricordi e si mise a raccontare della sua terra, l’Estremadura, caldissima ed arida d’estate e freddissima d’inverno. Ripensò ai campi sterminati pieni di olivi centenari, all’olio buono prodotto dalla sua famiglia, alle pietre infuocate incastonate nei muretti a secco, alle greggi di pecore, alle sue quattro sorelle…

    E non volle considerare, nascondendolo dietro un’invisibile lacrima, che mancava da casa da più di sei anni.

    CAP. 2

    Aprile 1982, Nicaragua, VI Regione, vicino a Estrellas

    La capanna era stata presumibilmente costruita in meno di un’ora; quattro pali di caoba, il durissimo mogano, impiantati nel terreno, collegati tra loro, nella parte superiore, da rami più sottili e leggeri, legati con liane; le foglie di banano, incastrate a formare il tetto, garantivano un discreto riparo dal sole ma anche dalla pioggia che, in aprile, benediceva campi, foreste e suoi inquilini almeno una decina di volte al giorno. Di forma vagamente quadrata, era stata ideata per mantenere all’asciutto armi e munizioni, ma veniva usata anche dai soldati per riposarsi durante i cambi e da quelli di passaggio per ristorarsi con un sorso d’acqua, un pezzo di carne secca o con qualche briciola avanzata di cuajada, il solo formaggio, di latte e sale, che potesse durare con questo clima per più di un giorno.

    I quindici cachorros lo stavano aspettando da parecchio. Alcuni seduti per terra, lo sguardo nel vuoto o gli occhi chiusi, altri chiacchierando appoggiati ai sostegni, approfittando dell’occasione rara che si era presentata per chiedersi l’un l’altro notizie delle famiglie o delle comunità che avevano lasciato e per le quali qualcuno di loro era magari passato. Erano quasi tutti della zona ma, nonostante questo, non avevano avuto modo di conoscersi prima: dai villaggi si usciva molto raramente, in quel periodo, ed era stato solamente con l’introduzione della leva obbligatoria che avevano potuto conoscere le città, Matagalpa, Estelì, Leòn e qualcuno anche Managua, la capitale.

    Luciano entrò salutandoli e, sorridendo rassicurante, si scusò per il ritardo stringendo la mano a tutti. Dopo le presentazioni, fece portare due casse al centro del locale e le ricoprì con un telo mimetico; dispose i ragazzi in semicerchio e da una terza cassa estrasse un fucile che sistemò sopra il tavolo improvvisato.

    «Alcuni lo hanno già visto, ma per la maggior parte di voi è la prima volta. È quello che qui in Nicaragua chiamano semplicemente AK; in realtà il suo nome completo è AK-47, cioè Avtomat Kalashnikova modello 1947, dal nome dell’inventore, un sottufficiale dell’esercito russo, Mikhail Kalashnikov, che lo progettò nel 1947. Il sergente Kalashnikov era un eroe, ferito durante la seconda guerra mondiale. Nel suo letto d’ospedale, pensò a lungo a progettare un’arma che potesse dare al suo Paese una supremazia di armi consona all’importanza che aveva la Russia. Probabilmente si ispirò all’StG-44, il fucile d’assalto usato dai tedeschi, vero capolavoro tecnico, ma di questo riuscì ad eliminare i principali difetti. Innanzitutto i costi di produzione troppo elevati, per il tipo di materiali usati, ed in secondo luogo la meccanica troppo complessa. Quello che ne uscì fu questo AK-47, un’arma adatta alla produzione di massa, a basso costo ed estremamente semplice.»

    Notando negli occhi dei ragazzi un certo disorientamento, Luciano si interruppe alcuni secondi, per poi riprendere con voce più lenta e tranquillizzante.

    «Probabilmente a nessuno di voi interessa conoscere le vicende di un eroe di guerra russo e vi starete chiedendo come mai vi racconto tutto questo. Sinceramente, non lo so nemmeno io: forse per mettervi un po’ più a vostro agio, o forse perché è bello sapere che sono esistiti e sempre esisteranno uomini che amano la patria e che per questo sono disposti ad andare in battaglia, ad essere feriti ed anche a donare la vita, se necessario. Uomini come voi, ai quali il Frente ha chiesto di essere coraggiosi, di essere il baluardo della nazione, di combattere contro un nemico tanto più malvagio in quanto è anche vostro fratello. Uomini che devono saper usare le armi, perché i machetes in questa sporca guerra non bastano.»

    Bevve un sorso d’acqua dalla borraccia e ricominciò la lezione.

    «Prima di scendere nei particolari, vi chiedo il favore di interrompermi ogni qualvolta anche il minimo dubbio vi sfiori la mente: una domanda in più oggi può voler dire aver salva la vita domani. Dunque, dicevamo che questo è un fucile d’assalto. Come vedremo, uno dei suoi pregi è quello di unire le caratteristiche di un mitra, cioè di sparare a raffica ma solo a breve distanza, con quelle di un fucile, che invece spara un solo colpo ma può arrivare lontano. La leva che vedete qua sopra il grilletto si chiama selettore ed è questa che permette di selezionare le due modalità di tiro.»

    Passò il fucile al primo ragazzo alla sua sinistra e dalla cassa aperta ne estrasse altri tre che distribuì agli altri. Dopo il trambusto iniziale, il silenzio era adesso assoluto; sembrava che all’interno della capanna nessuno respirasse: solo gli uccelli nella foresta testimoniavano che la vita su questa terra stava continuando. Luciano si chiese se, nei suoi allievi, questo fosse dovuto più all’emozione del momento, alla paura del futuro o alla consapevolezza che le armi, prima viste solo in qualche disegno, adesso erano in loro mano ed era giunto il momento di usarle. Ma scacciò subito il pensiero, determinato a farli uscire da lì perlomeno in grado di difendersi quando fosse stato necessario. Era consapevole che probabilmente questo non sarebbe bastato, ma era anche altrettanto sorretto dalla convinzione che un’arma di quel genere in certe situazioni poteva fare la differenza tra il vivere ed il morire.

    «Bene, adesso che l’avete in mano, potete capire perché sia un’arma eccezionale. È leggera, pesa poco più di quattro chilogrammi quando è carica, ed è perciò facilmente trasportabile; è resistente e maneggevole; il rinculo non è violento, non si inceppa mai ed è di facile manutenzione; si può smontare in otto pezzi e si può rimontare in meno di un minuto. Adesso vedremo come fare.»

    Lentamente e facendo in modo che tutti potessero vedere, cominciò a smembrare il fucile, ripetendo più volte l’operazione ed i nomi delle varie parti: caricatore, canna, calcio, pistone… per poi farlo fare singolarmente a ciascun ragazzo. Nel frattempo proseguiva con le spiegazioni:

    «Il caricatore può contenere trenta cartucce, di tipo 7,62 x 39; vuol dire che il calibro è di 7,62 millimetri per una lunghezza di 39 mm. Quando è in modalità mitragliatore può sparare fino a trenta colpi consecutivi. A livello teorico potrebbe sparare 650 colpi al minuto, ma questo non accadrà mai; quello che invece potete fare è unire due caricatori, legandoli tra di loro con del nastro adesivo o dello spago, capovolti e sfalsati di cinque centimetri in modo da poter ricaricare l’arma più velocemente. Quello che invece Juanito sta guardando con aria stupita, è il pistone del gas, e rappresenta una delle caratteristiche di questo fucile: dopo lo sparo, una parte del gas viene recuperata attraverso uno sfiatatoio, incanalata verso il pistone ed utilizzata per espellere il bossolo e ricaricare l’arma; è grazie a questo sistema che la potenza di fuoco dell’AK-47 è micidiale.»

    Erano passate ormai quattro ore, e la stanchezza iniziava a farsi sentire in tutto il gruppo. Luciano era però contento perché i ragazzi, vinta la titubanza iniziale, avevano partecipato con interesse, fatto un sacco di domande, provato e riprovato a smontare, rimontare e caricare, con buoni risultati. Inoltre, l’allegria del chele era contagiosa e si trasmetteva facilmente a tutti loro; più d’una volta era riuscito a farli ridere e, quando li aveva salutati per ritornare alla sua capanna, era certo che non lo avrebbero più dimenticato.

    Ma, a parte questo, e nonostante fosse già la terza volta che faceva questa specie di addestramento, ancora non riusciva ad abituarsi all’idea di avere davanti a sé un pubblico di ragazzini. Questi cuccioli, questi cachorros come venivano affettuosamente chiamati, non superavano i diciotto anni, anzi qualcuno di loro ne aveva al massimo quindici o sedici. Erano ancora bambini, che una guerra crudele ed insensata aveva strappato alle famiglie, alla vita, ai possibili giochi. Era in momenti come questi che gli veniva da pensare all’Italia, ai liceali di adesso ed a quelli, come lui, di dieci anni fa; alle possibilità che avevano e non sfruttavano; alle vacanze, alle gite, alle liti per un motorino o per una ragazza; ai professori; a Paola… Era in momenti come questi che bestemmiava da solo, che si arrabbiava con il mondo intero, con l’ingerenza americana, con la dottrina Monroe secondo cui per gli Stati Uniti il Centro America era il patio di casa,una cosa loro. Era consapevole e contento per come la Rivoluzione Sandinista avesse seriamente incrinato il sistema di stabilità costruito dagli USA, ma allo stesso tempo si rendeva pienamente conto che tutto questo non sarebbe potuto durare se non a costo di parecchie vite umane. E la sporca guerra dei contras, questa maledetta guerra civile, era lì a dimostrarlo.

    Dopo aver riposto le armi nelle casse, si congedò dai ragazzi dicendo loro che per ogni dubbio lo avrebbero trovato ancora per tutto il pomeriggio in giro per l’accampamento. Passò un momento dal

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