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Syria: Quello che i media non dicono
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Syria: Quello che i media non dicono

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Dopo la “Primavera araba” una ventata di falso ottimismo ha percorso il Medio Oriente e il Maghreb. Ma i regimi dispotici rovesciati hanno lasciato il campo libero a movimenti che nulla hanno a che fare con la democrazia: al-Qaida, salafiti, terroristi di ogni genere si sono accaparrati spazio e potere. Il caso della Siria è emblematico. Qui, da due anni, si combatte una guerra che vuole rovesciare Assad. Arabia Saudita, Qatar, Stati Uniti ed Europa però non sembrano rendersi conto che il legittimo governo siriano è l’unico in grado di garantire equità, pace e protezione al popolo. Ma cosa accade realmente in Siria? Quali sono le dinamiche di un conflitto che pare avviarsi sempre più verso una guerra civile? Chi ne trarrà vantaggio? E a danno di chi? E come interpretare la toccante vicenda della deputata siriana cristiana Maria Sadeeh, ampiamente trattata nel libro, alla quale la miope politica di casa nostra ha impedito di esprimere il suo legittimo punto di vista? Un saggio che si legge come un reportage, che analizza in modo preciso gli antefatti e gli sviluppi di una vicenda che i mass media occidentali, supportati dalle testate giornalistiche del Golfo Persico, mistificano e trasmettono in modo distorto. Il testo è stato curato dal giornalista Raimondo Schiavone. Hanno collaborato per le diverse parti del saggio i giornalisti: Alessandro Aramu, Talal Khrais e Antonio Picasso.
LanguageItaliano
Release dateJul 17, 2013
ISBN9788896412862
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    Syria - Alessandro Aramu

    SYRIA

    Quello che i media non dicono

    a cura di Raimondo Schiavone

    con Talal Khrais, Antonio Picasso, Alessandro Aramu

    © Arkadia Editore

    2013

    Collana Limes 4

    Isbn 9788896412862

    Prefazione

    Siria: la sfida nella nuova guerra fredda

    Talal Khrais

    L’Occidente vanta una grande democrazia, libertà di pensiero, di parola e di espressione. La verità è che la politica europea è profondamente influenzata dai dettami degli Stati Uniti e, alla tanto proclamata libertà e autonomia di pensiero, si sostituiscono spesso e volentieri una visione dei fatti e un metro di giudizio sulle vicende mediorientali inficiati dall’uso di due pesi e due misure. L’informazione è spesso vittima di visioni unilaterali, viziate da interessi di parte. Sono stato ben otto volte in Siria, in un solo anno, e ho incontrato colleghi giornalisti che lavorano per grandi testate nazionali e internazionali. Ho assistito a innumerevoli pressioni, esercitate su questi professionisti da direttori ignoranti nominati dalla politica, monopolizzati a loro volta dal mondo della finanza e dai poteri forti.

    L’informazione faziosa è quella che non riconosce lo stato palestinese e non denuncia le sistematiche violazioni del diritto internazionale a opera del Governo israeliano.

    Di recente ho assistito all’incontro tra una collega straordinaria, che lavora in Medioriente, e il Presidente della Repubblica Araba in Siria. Dopo averlo incontrato, la giornalista si è rivolta a lui porgendo le proprie scuse e dicendo: È un grande onore incontrarla signor Presidente, ma non sarò libera di fare il mio lavoro.

    Il giornale per il quale lavorava non aveva, infatti, alcuna intenzione di pubblicare il contenuto della sua intervista. La linea editoriale imponeva il capovolgimento del reale, al fine di veicolare un messaggio che non intaccasse lo status quo.

    La compagine internazionale, attualmente, vede la convivenza di due fronti contrapposti: da una parte Stati Uniti ed Europa abbandonati dai Paesi emergenti e dall’altra le due superpotenze, la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese, alleate con i Paesi insistenti nel loro spazio vitale, naturale e geografico, che intendono creare sviluppo e progresso, per porre fine agli estremismi e all’arretratezza diffusa. Si tratta degli stessi obiettivi e buoni propositi che l’Occidente ha sempre proclamato e decantato, ma non ha mai realizzato.

    Posso dire con certezza che esiste una nuova guerra fredda e la Siria rappresenta il fianco Mediterraneo dello spazio vitale della Repubblica Popolare Cinese e della Federazione Russa. Torna la contrapposizione tra i due blocchi. Esiste oggi un vero e proprio bipolarismo che mira al controllo delle rispettive sfere d’influenza, due poli aggreganti Usa-Europa da una parte e Russia-Cina dall’altra, più una serie di paesi neutrali.

    Gli Stati Uniti e i Paesi Europei sconfitti e quasi cacciati dall’Iraq – oggi più amico che mai dell’Iran – e dall’Afghanistan, cercano di ridurre la sfera d’influenza storica e naturale di Mosca, per esempio nel Caucaso.

    È vero che Paesi europei dell’ex campo socialista sono passati al campo occidentale, mi riferisco agli stati dell’Est Europa e del Baltico, un tempo satelliti dell’Urss, ma è anche vero che questi Paesi sono rimasti, per lo più, in ottimi rapporti con Mosca. Approfittando della grave difficoltà che la Federazione Russa attraversava, nella fase di transizione dal comunismo al liberalismo, l’Occidente ha realizzato una politica espansionistica e ostile nei confronti dei membri della Federazione, alleandosi anche con i movimenti più estremi del terrorismo islamico, al fine di controllare i fianchi strategici della Federazione Russa e della Cina.

    Questo spiega gli avvenimenti accaduti nei Balcani, attanagliati da problematiche di tipo economico, e nei Paesi sud-caucasici che facevano parte dell’Urss (Armenia, Nagorno-Karabakh, Ossezia del Sud e Abkhazia). Nonostante le ingerenze, queste nazioni hanno sempre rifiutato di contrapporsi alla Russia, rimanendo legate a Mosca; discorso che potremmo estendere anche a quasi tutti i Paesi centro-asiatici dell’ex blocco sovietico, escluso il Turkmenistan.

    La Russia pur avendo subito una serie di contraccolpi in seguito all’invasione dell’Iraq e della Libia, è stata in grado di recuperare le relazioni con i Paesi vittime dell’occupazione occidentale, ricucendo anche un rapporto strategico con la Repubblica Islamica dell’Iran.

    Mentre l’Occidente seguiva gli Stati Uniti, senza tenere più in considerazione gli interessi economici e strategici della Federazione Russa in Medioriente e nel Nord Africa, quasi tutti gli amici della Russia nel continente africano, un tempo vicini all’URSS, diventavano obiettivi delle prospettive neo-colonialiste. Da qui sconvolgimenti, guerre, insurrezioni. Insomma, uno scacchiere politico sconvolto. L’Occidente sembra infatti essere a traino di occulti desideri, incapace di una politica autonoma e realista. E così non si è accorta che l’intervento in Libia soddisfaceva gli interessi di pochi a danno di quelli di molti. E, per tornare alla Russia, il suo rapporto con i paesi africani verte su alcuni capisaldi, come per esempio la sua strategia in Sudan, porta della Cina in Africa. Anche in questo caso l’Occidente (Usa ed Europa), non pago dei passati errori, ha tentato di destabilizzare l’area e, in ultimo, ha sferrato un violento attacco alla Federazione promuovendo un vero e proprio colpo di stato in Siria, avvenuto dopo il fallimento del tentativo di attacco all’Iran.

    Malgrado i cambiamenti avvenuti nella Federazione Russa e la sua richiesta, peraltro respinta, di fare parte della casa europea, gli Stati Uniti, appoggiati da Paesi deboli e accomodanti, hanno continuato a considerare Mosca un nemico. Interferenze negli affari interni, sostegno ai movimenti integralisti anti russi e infine una politica militare tesa all’assedio della nuova Federazione, sono atti che rimandano ai tentativi di invasione del 1917 e alla rivoluzione russa.

    Intanto i vertici militari statunitensi agiscono indisturbati. Ricorrono al riarmo, considerando Russia e Cina nuovi nemici, lavorano senza sosta su nuove armi – come lo scudo missilistico e gli scudi antimissile in Polonia e in Turchia – e rifiutano la proposta di Mosca di partecipare al progetto di difesa antimissilistica europea (che diventa così un progetto contro russi e cinesi).

    Ma si sa, la storia e la crescita non si fermano, ed ecco che sia la Federazione Russa che la Cina stanno progressivamente divenendo le prime potenze economiche nel mondo, mentre l’Europa affonda nella sua crisi economica che ha tra le sue cause fondamentali la politica filo-americana. Sia la Federazione Russa che la Repubblica Popolare Cinese negli ultimi 10 anni hanno investito denaro e hanno attuato progetti di sviluppo nell’area ex-sovietica; così non stupisce che Russia e Kazakhstan abbiano annunciano l’intenzione di creare una difesa missilistica comune. A breve, un accordo analogo potrebbe essere raggiunto anche con l’Armenia. Un sistema di protezione comune esiste già tra Russia e Bielorussia.

    Si tratta di passi enormi dal punto di vista della sicurezza, un sistema per rafforzare la cooperazione militare tra la Federazione Russa e i Paesi vicini, basato su principi più democratici rispetto a quelli messi in atto dall’ex Unione Sovietica.

    Il colpo mortale inferto alla politica neo-colonialista perpetrata dall’Europa è avvenuto con la nascita dell’accordo di Almaty (Kazakhstan), con il quale Mosca ha istituito il Joint CIS Air Defense System, un sistema integrato di difesa aerea che comprende Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan. È il primo passo per la formazione di uno scudo antimissile russo in Asia centrale, un processo che si è perpetuato nonostante il dissenso dell’Uzbekistan. La Federazione Russa, d’intesa con la Cina, ha scelto di impostare gradualmente le reti di difesa aerea con i singoli Stati dell’ex CSI, garantendo la creazione di accordi tali da consentire l’allontanamento della Nato dall’orbita di azione, quando questo fosse necessario.

    Quello che dunque oggi vediamo è un Occidente che si oppone sempre più freneticamente alla Russia, alla Cina e ai progetti di cooperazione nei loro spazi vitali. Nel contempo Federazione Russa e Cina stanno concretizzando l’idea di uno spazio economico eurasiatico unito, un trattato parallelo fra la Comunità Economica Eurasiatica e lo spazio territoriale Nato dai trattati di Roma del marzo del 1957.

    L’Unione Eurasiatica si baserà su quegli stessi principi universali che sono il fondamento anche di altre compagini simili. La creazione di un’area doganale unica favorirà uno spazio in cui persone e capitali si muoveranno liberamente. Questo anche in virtù del fatto che sia la Repubblica Popolare Cinese sia la Federazione Russa sono riuscite a sostenere ritmi di crescita economica non indifferenti (oltre il 4% annuo), aumentando la domanda della loro valuta come fattore di scambio.

    Così la guerra in Siria rappresenta un’espediente – e il mezzo – per rompere il nuovo equilibrio mondiale nato dalla volontà di alcuni Stati che vogliono mettere fine all’immoralità e al cosiddetto Caos creativo, realizzato dalla politica e dalla finanza americana, il cui fine è quello di affossare i destini dei popoli e delle nazioni, salvaguardando gli interessi delle multinazionali. Per assecondare il volere di Washington anche i Paesi europei hanno tradito tutti i valori sui quali si basano i loro ordinamenti.

    In sintesi, sostenere i terroristi in Siria non significa rovesciare il governo di Assad, piuttosto dimostra la volontà di demolire lo Stato siriano, culla della civiltà umana, dove cristiani e musulmani convivono insieme da centinaia di anni. L’Occidente cristiano, per accontentare gli Stati Uniti, paradossalmente contribuisce al massacro dei cristiani in Oriente.

    In tutto questo scenario si inserisce poi la Turchia ottomana che continua a perpetuare azioni persecutorie nei confronti degli armeni e dei curdi, non riconoscendo il genocidio del 1915 e rinfocolando l’odio nella regione, sordo a qualsiasi appello da parte dei popoli che vivono nei territori dell’est in perenne fibrillazione. Anzi, in questi ultimi anni, grazie all’attivismo di Erdogan riscontriamo un continuo e incessante moltiplicarsi di atti e politiche che conducono solo alla destabilizzazione dell’area. I turchi riforniscono, con l’aiuto finanziario dei Paesi del Golfo, gli jihadisti e tutti i gruppuscoli terroristi che si insinuano come un cancro in quei paesi dove fino all’altro ieri si è vissuto in modo dignitoso e paritetico. Il sogno della ricostituzione dell’impero ottomano, magari sotto un turbante wahabita, è duro a morire. Tra l’altro il sostegno turco va in direzione di coloro che uccidono i nostri soldati in Afghanistan, o in altre zone calde del mondo, e tutto questo al solo scopo di porre fine alla convivenza multietnica e religiosa in Siria.

    È vergognoso sentire politici, in particolare di sinistra, sostenere che esista una lotta per la democrazia in Siria, è un insulto per la nostra intelligenza. In realtà il conflitto siriano è anche una guerra per procura, voluta proprio da coloro che non hanno mai assaporato o desiderato né conosciuto la democrazia.

    Il regime in Siria non cadrà, lo confermano tutti gli esperti. Penso che il Presidente Assad abbia espresso una corretta valutazione quando ha affermato: La Siria è l’ultimo avamposto di secolarismo, stabilità e coesistenza nella regione. E un eventuale intervento straniero causerebbe un effetto domino sul mondo, dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico. Poi ha sottolineato: Non credo che l’Occidente stia andando in questa direzione, ma se lo farà, nessuno può prevedere quello che accadrà. Come a dire che, se veramente vuole preservare i suoi interessi, garantire la pace e il rispetto della pluralità, tutto deve fare tranne che combattere Assad.

    Il mio sguardo sulla Siria

    Raimondo Schiavone

    Divide et Impera.

    Dall’epoca romana a oggi non cambiano le corde dell’imperialismo occidentale

    Beirut, 3 settembre 2012.

    Il mio viaggio inizia qui. Questa straordinaria città mi ha accolto tante volte, gli odori e i profumi del Libano sono diventati nel tempo una sensazione familiare.

    Questa volta la capitale del Paese dei Cedri diviene il punto di vista privilegiato per osservare quanto sta accadendo in Siria.

    Appare serena la realtà a Beirut in questi giorni. Nonostante il degenerare della situazione siriana, la città vive una vita normale: lavori in corso come sempre e molti operai siriani che svolgono le loro mansioni nei cantieri libanesi. È sempre stato così, tanta manodopera in Libano arriva infatti dalla vicina Siria, specie nel comparto edile. Parliamo di operai perlopiù, la maggior parte dei quali viaggiano al mattino e alla sera tra Damasco e Beirut. Quel confine che, a leggere i giornali italiani, sembrerebbe rischioso e impenetrabile. Un solo cuore batte per Libano e Siria, le due comunità che si compenetrano e per molti versi si compensano. E per questo motivo, vedere Beirut così serena, appare strano. Il Paese ha fatto del pluralismo religioso la sua ragione d’essere e rappresenta un esempio di convivenza per tutto il Medio Oriente. Forse perché negli anni le famiglie si sono mischiate tra loro: sunniti, sciiti, cristiani delle varie confessioni vivono negli stessi quartieri e spesso sotto lo stesso tetto, visto che sono normali i matrimoni misti. Pertanto non è strano trovare in una casa musulmana un presepe, magari per la presenza di un nonno o di una zia cristiana.

    Dicevamo dell’unico cuore che batte per Libano e Siria. Molte famiglie siriane hanno parenti nella terra dei Cedri, l’influenza siriana sulla politica libanese è sempre stata molto forte e sono numerosissimi i siriani che in questa fase si sono temporaneamente trasferiti in Libano, senza alcun bisogno di costruire campi profughi perché hanno riferimenti affettivi, luoghi fisici dove stare. Ecco perché meraviglia che l’intero mondo non si renda conto di cosa potrebbe significare la caduta del regime di Assad nel modo in cui la si sta progettando.

    Prima di tutto occorre dire che la Siria non è la Libia. Assad gode ancora del favore della maggioranza del suo popolo, i cittadini siriani hanno assaporato il concetto di libertà dello Stato, la convivenza fra le fazioni religiose; non sarà facile per loro accettare la predominanza e l’imposizione della legge islamica. Se ci sarà mai un intervento di truppe esterne e se continuerà il rifornimento continuo di armi ai ribelli jihadisti, in Siria sarà guerra civile. E non si tratterà di una guerra circoscritta ai confini nazionali, diverrà invece un conflitto multinazionale e il Libano ne subirà immediatamente gli effetti, tornando a essere un Paese destabilizzato, insicuro, riflettendo questo suo status su tutto il Medio Oriente.

    Il rischio di uno spostamento massiccio delle minoranze cristiane (prima tra tutte quella di rito armeno) dalla Siria ai Paesi vicini è fortissimo. Effetti devastanti si rifletteranno sull’Egitto, che non vive certo una serena fase di transizione, e dove i cristiani copti stanno portando avanti la loro battaglia per la laicità, in un Paese dove i Fratelli Musulmani vogliono imporre la loro Costituzione e la ferrea imposizione delle regole del Corano. Gli armeni, già massacrati più volte dagli ottomani, si troveranno costretti

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